Pausa sospesa

PAUSA – di Anna Meli

         Bellissima dolce, invitante parola che suggerisce meritato riposo, interruzione, sosta in previsione  di una ripresa positiva.

         Da giovane, quando impegni di lavoro, che dovevo conciliare con figli  e famiglia in genere, mi rendevano particolarmente stanca, usavo questa tecnica: un grande e lungo respiro, vuoto dentro me, nessuna presenza di pensiero, nessuna sensazione, occhi chiusi. E poi ripartivo con energia rinnovata magari in attesa delle meritate ferie che costituivano una pausa più lunga e diversa, senza orari da rispettare né impegni, insomma tutta da inventare e da godere al mare o meglio in montagna.

         Non avrei mai pensato di vivere altri tipi di pause e invece da due mesi ne sto vivendo una nuova e forzata insieme a tutto il mondo. Un virus maligno, infido, a volte mortale ci ha costretto ad una lunga quarantena. Ha diviso le persone, nonni e nipotini, ci ha privato di strette di mano, di   abbracci, di ogni contatto umano. Tutti in casa. Ogni attività, salvo qualche eccezione, si è fermata rendendo spettrali e silenziose le città e i paesi.

         Solo sirene di ambulanze e ricerca affannosa attraverso comunicati TV di infermieri e medici, combattenti disarmati, ma fortemente motivati.

         Una pausa di due mesi è molto, troppo lunga e anche se cerchi di affrontare la solitudine in vari modi magari anche piacevoli, l’amarezza riesce sempre a far capolino e ti ritrovi a pensare come sarà il futuro, come saremo cambiati, se avremo il coraggio di camminare su strade nuove, dove respirare venti di solidarietà e di aiuto reciproco. E’ trascorsa la fase uno: tanti contagi, tanti fortunati guariti, ma anche tanti troppi morti!

         Una generazione intera di nonni se ne è andata in punta dei piedi, la morte non fa rumore: arriva, ghermisce  e se ne va lasciando vuoti incolmabili e tristi rimpianti.

         C’è però in tutto questo anche qualcosa di positivo ed è giusto metterlo in evidenza come se fosse il rovescio di una medaglia. La natura è risorta restituendoci cieli blu intenso, aria piacevolmente respirabile; ha ridipinto tutto con nuovi colori che l’inquinamento aveva reso opachi e spenti, le acque dei fiumi sono divenute limpide.               

         Ci stiamo avviando alla fase due che sarà di ripresa…forse. E’ da qui che dobbiamo ripartire, dalle cose semplici e vere, il nostro patrimonio umano.

Dilemma: vivere o sopravvivere?

Sulle due virtù,

ovvero se sia meglio vivere o sopravvivere – di Luca Di Volo

Insomma, questa storia sul vivere o sopravvivere non mi vuole uscire dalla testa.

Lascio ad altri più profondi e sapienti il compito di analizzare le suggestive implicazioni di questo dilemma cornuto.

Invece a me basterebbe capire un po’ meglio le ragioni per cui a furia di pensarci mi è venuto solo un gran mal di testa…senza ricavar nulla che abbia un valore universale.

Che probabilmente non c’è, intendo come regola generale. Già, perché nella vita di ognuno di noi, secondo me, capitano ambedue questi modi di essere e siamo l’uno o l’altro in base a svariate cause, comprese le circostanze che favoriscono o l’una o l’altra scelta.

Cominciamo però dal primo corno del dilemma: ”sopravvivere”.

In generale, nell’uso comune questo termine ha una sia pur lieve connotazione negativa: chi si limita a sopravvivere, in un regime dispotico, oppure sotto un capufficio insopportabile, o in situazioni simili, si piglia un po’ l’etichetta di “vile” perché non ha il coraggio di ribellarsi.

Ma anche per sopravvivere ci vuole coraggio.

Già, perché innanzitutto si può sopravvivere senza alcun merito(siamo sopravvissuti all’incidente, siamo sopravvissuti al cataclisma..).Ma anche qui siamo nella massima ambiguità: chi lo dice che non ci sia merito e coraggio in queste vicende? Si può sopravvivere ad un incidente o perché si è  stati previdenti, o perché in quel momento abbiamo avuto i riflessi pronti ed abbiamo avuto il coraggio(appunto) di fare la mossa giusta..

Si sopravvive anche col cinismo, con freddezza, ma sempre col coraggio di una scelta, anche se negativa. Come chi si vende al potente di turno.

Si potrebbe continuare, ma questi modesti esempi secondo me bastano a mettere in evidenza l’ambiguità del termine.

Il secondo corno è più difficile: ”vivere”.

Questo invece ha un’accezione positiva, vitale(appunto), un esortazione famosa: ”Viviamo, o mia Lesbia, ed amiamo”,.un inno all’amore come forza della natura.

Ma anche qui c’è l’ambiguità: vivere non significa sempre vivere “bene”e godere dei doni che abbiamo davanti.

“poveretto, ha vissuto una brutta vita, con quella moglie (o quel marito)”, ”ha vissuto una vita segnata dai dispiaceri..”

Allora il poveretto, ha vissuto o è solo “sopravvissuto?

L’unica cosa che a parer mio accomuna i due termini è il “coraggio”, di chi vive o sopravvive, ambedue segnati dalla sorte dei mortali,

E io lascerei da parte gli eroi, i grandi uomini che hanno segnato i nostri grandi passi avanti. Che hanno vissuto, sì, nel senso pieno del termine, ma che hanno dovuto anche piegarsi per sopravvivere, come gli scienziati tedeschi sotto Hitler, per fare un esempio.

Insomma, ho dissertato su questi termini ma il mal di testa mi è rimasto.

Secondo me sono domande messe in giro dai produttori di aspirine e antidolorifici vari.

Vivere o sopravvivere? O sopravvivere per vivere?

Ispirazione da un film – di Vanna Bigazzi

“Cari fottutissimi amici”

È un delizioso film, quello di Monicelli, non lo avevo visto ed è stato una sorpresa. Certo la simpatica “banda” arriva a dedurre che è meglio sopravvivere, anche miseramente, piuttosto che vivere con “esperienze,” a detta di Villaggio, ma a che prezzo…Almeno questo io ho inteso. C’è il motto contrario che recita: ”Meglio un giorno da leoni che cento da pecore” chissà, ognuna delle due ha una sua motivazione e probabilmente sono valide entrambe a seconda del vissuto di chi le esprime. La prima deduzione è un po’frutto di una stanchezza di vita, porta con sé delusione, accettazione, accomodamento, comunque attaccamento alla vita. L’altra invece, sprezzo  della vita ed esaltazione dell’avventura. Diciamo che elemento di base, per entrambe è il coraggio. Coraggio per continuare a vivere in determinate condizioni, apprezzando quello che la vita ci offre, giorno per giorno, nel bene e nel male, ma anche accettando la vita, e coraggio per difendere le nostre emozioni, snobbando la vita. Io non so a quale delle due categorie appartenga, forse a tutte e due a fasi alterne. Forse un po’tutti facciamo così. Ad ogni modo tutto questo mi ha portato a riflettere su un’altra frase, finale di un film di cui non ricordo il titolo, che suggeriva: ”C’è chi eternamente insegue l’amore e chi non può fare di meglio che seguire la corrente”. Questa frase mi colpì molto e nel momento di vita in cui vidi questo film, mi sentii cucita addosso la seconda ipotesi: non poter fare di meglio che seguire la corrente. Ma non la interpretai assolutamente come rassegnazione, anzi come la quintessenza della “scelta”: scegliere con coraggio e magari anche con sacrificio, una certa direzione, contenta di fare la scelta giusta, per il mio bene e per quello degli altri. In fondo c’è eroismo in questa scelta, non troppa abnegazione, perché si sceglie per un bene comune, se non addirittura universale, che in primis premia te stesso. L’idea allucinante di essere costretti a seguire la corrente, idea che spaventava e deprimeva i nostri padri dell’Esistenzialismo, in questa accezione, viene nobilitata, viene meravigliosamente vissuta come “riparazione” che gratifica, solleva, ti fa sentire indispensabile e importante, ti fa capire come non sia il destino a determinare gli eventi, ma sia tu con le tue elezioni, con il tuo valore, pronto ad essere distribuito, a marcare i sentieri del bene.

Il ritmo della pausa

Pausa – di Laura Galgani

Una parola fatta apposta per me

Pausa. Già la parola di per sé mi piace.

Sono quelle vocali contigue, le stesse del mio nome, a farmi provare qualcosa di gradevole nel pronunciarla.

Le vocali danno apertura: prima la A, poi la U, se la pronuncio a voce alta ho la sensazione di provocare prima un piccolo scoppio, subito fuori dalle labbra, poi l’evasione di un suono che si allunga e si estende via via allontanandosi da me, finché scompare nel nulla.

Pausa è ciò che sta dentro due parentesi tonde. Uno spazio vuoto, indefinito, una sospensione elegante e consentita. Ognuno lo può riempire come preferisce. Ma può anche decidere di non riempirlo affatto.

Pausa è il silenzio fra una nota e l’altra. E’ l’orecchio che si tende nell’attesa del prossimo suono. Come sarà?

Pausa è l’istante in cui il direttore d’orchestra è sul podio, davanti a sé gli orchestrali tesi, vibranti di energia pronta ad esplodere in musica, ma ancora no. Il direttore non ha sollevato la bacchetta.

Pausa è tutto ciò che era, ma non è ancora ciò che sarà. E’ un’eterna attesa, la perfezione del nulla, del possibile e di ciò che non sarà mai.

Pausa è l’intervallo fra una goccia di pioggia e l’altra sul tetto mentre scrivo.

La pausa dà il ritmo, crea il movimento, spezza l’uniforme e grigio divenire delle cose.

Pausa è assenza, anche assenza di respiro fra un “in” e un “es”. E’ il momento in cui mi è consentito scendere dentro di me, nei miei cantucci più nascosti e farmi un saluto. Ma è solo un istante. Poi devo riprendere aria e vengo risucchiata su, in superficie. Fino alla prossima pausa.

Anche il cuore ha bisogno della giusta pausa fra un battito e l’altro. Né troppo lunga, né troppo breve. A volte la pausa si sacrifica, se c’è da fare una corsa o se un’emozione intensa richiede più sangue. Ma poi si riprende i suoi spazi, torna a segnare quel ritmo perfetto che mi fa stare bene.

Dicevo del suono “AU” che mi piace. Sì, lo so, anche in paura il suono è lo stesso, in fondo fra pausa e paura cosa cambia, solo una consonante! Sì, ma cambia anche l’accento, che in paura è sulla “U” e questo rende la parola molto, molto più minacciosa. Le due parole però sono collegate: che cos’è la paura se non una pausa fra due certezze? E come farei a riconoscere una certezza se non ci fosse una pausa, un vuoto fra l’una e l’altra a metterle in dubbio?

Pausa caffè, pausa pranzo, mi prendo una pausa… mi fa tutto pensare al riposo, al buon cibo, ad un momento per me dopo e prima momenti non miei. Pausa e silenzio, pausa e quiete, pausa e un foglio bianco, il suono AU come in aureo o in aurora. Un vuoto apparente in cui si manifesta l’oro, la luce.

E a grandi pennellate ci dipingo il mondo.

Una pausa

 Il valore della pausa – di Vanna Bigazzi

Non è facile il compito di chi segue, indirizza, fa crescere un gruppo. Potrebbe apparire semplice trovare “scintille,” seminarle e poi raccoglierne i frutti.

“Ma guarda che belle idee sono venute fuori” oppure: “Ma come abbiamo spaziato!” Ancora: “Non credevamo avremmo potuto arrivare a questi livelli…” Non è solo così. Un lavoro di crescita, va pensato, organizzato, vanno create le condizioni per avere partecipazione, non è tanto semplice. Chi guida un gruppo deve essere lungimirante. Favorire la comunicazione di più persone, è senz’altro cosa complessa. I gruppi sono soggetti spesso a contrasti, incompatibilità e l’emotività fa sentire il suo peso. I concetti vanno intervallati, a volte è necessario dare pause di riflessione. E’ giusto, corretto e umano, provare questa esigenza. Ci si può trovare nella condizione di essere “registi” affidando  però l’iniziativa anche agli “attori”. Questo non è facile, perché spesso il punto di vista dell’”altro” può essere ignorato e si può pensare che il “nostro” sia l’unico che possa aprire un varco. Questa situazione, non può essere imputata alla “Guida” che per quanto competente, organizzata e capace di guardare lontano, non può del tutto ovviare alla poca autodisciplina del gruppo. Io credo, quindi, che in questi contesti, in cui si può essere creato smarrimento, come quello che stiamo vivendo relativo al coronavirus, “la Pausa” divenga elemento essenziale e che si autoproponga, giungendo in modo del tutto spontaneo. Dopo una pausa “sentita” è naturale ricominciare, con migliori energie e forze nuove, in vista di cambiamenti, con una maggiore predisposizione a collaborare. Le riflessioni aiutano il cambiamento e fanno chiarezza sulle nostre scelte: su cosa sacrificare e cosa portare avanti con uno sguardo concreto su ciò che abbiamo realizzato. Ciò può essere, più o meno, conforme ai nostri progetti, comunque è una verità, tangibile, un dato di fatto che rappresenta le fondamenta sulle quali poter continuare a costruire.

Terzo aprilante

Riflessioni d’aprile – di Elisabetta Brunelleschi

Siamo in casa da cinquanta circa giorni, usciamo solo per la spesa.

L’ultimo giorno di vita che definisco normale, è stato per me sabato 7 marzo e ora l’aprile sta volgendo al termine.

Come tutti sto aspettando quella che hanno chiamato fase due: andremo fuori, i negozi apriranno, potremo ricominciare a fare escursioni in gruppo, vedremo qualche amico, parente … ? Lo spero!

Io mi sento già al traguardo, qualcosa dovrà cambiare, c’è il sole, la luce del giorno continua fino a sera, è questa la stagione giusta per uscire e gustare il profumo dei glicini.  

Ma tutto questo tempo che ci ha visti in casa cosa mi ha portato?

Inizio da alcune fondamentali considerazioni:

– noi ( io e la mia famiglia ) non ci siamo ammalati, il virus non ci ha contaminato,

– non siamo stati colpiti neppure da altre malattie, che in questa emergenza non so come saremmo stati accolti da un medico di base, un pronto soccorso, un’ambulanza, …

– nessuno tra i parenti è stato contagiato,

– gli amici e conoscenti colpiti dal virus, ad oggi tutti guariti o in via di guarigione, li conto sulla dita di una sola mano;

– gli spazi delle mia casa sono stati sufficienti per il nostro agire quotidiano, abbiamo anche un piccolo giardino e due cantine, una per me e una per mio marito,

– la figlia ha il suo appartamento, ma in questa emergenza spesso ha pranzato e cenato con noi, alla fine siamo stati insieme più ora che nei tempi che io definisco ‘normali’,

– tra condomini ci siamo ritrovati in reciproca sintonia, abbiamo dialogato dalle finestre, appeso tra i balconi dell’ultimo piano un grande striscione con l’arcobaleno, e poi ci sono stati il brindisi di auguri pasquali e il coro del 25 aprile, con la promessa di un incontro dai balconi anche il primo maggio,

Quindi non mi devo non mi devo lamentare, i miei affetti sono qui e tutto quello che mi circonda è importante e ha valore.

Mi sono accorta che sono stata capace di vivere con poco e anche in queste quattro mura mi sono arricchita.

Evidentemente dovevo riscoprirlo con l’obbligo di clausura a cui ci ha costretti una malattia sconosciuta e invisibile che all’improvviso e inaspettatamente ha assalito un popolo intero.

Il silenzio che in questi 57 giorni ci ha coinvolto è stato per me come un sogno. Una pace improvvisa e insperata. Non so immaginare il caos che prima o poi tornerà. Ma veramente è indispensabile, alle nostre vite, correre da una parte all’altra, pigiare sull’acceleratore per raggiungere qualsiasi meta e in poco tempo?

Quasi quasi vorrei che questa lentezza, questo silenzio continuassero ancora per un po’ per starmene qui ad ascoltare solo i fievoli mormorii che per pochi attimi vengono a interrompere la quiete.

Agogno anch’io la fine della clausura, ma in maniera morbida, leggera, con uno sguardo agli affetti vicini e lontani. Solo l’idea di poter rivedere  nel reale i tanti amici e conoscenti mi riempie di emozione.

E sono certa che in tanti hanno riscoperto questi semplici ma irrinunciabili valori, magari solo guardandosi dentro e sentendo presenti le persone della famiglia.

Le cose desidererei subito sono: 

– poter fare una grande passeggiata insieme al mio gruppo, mi mancano i boschi, i prati dei crinali appenninici, le valli strette solcate dai torrenti gorgoglianti, i mille fiori che sbocciano in primavera e il nostro dialogare tra il serio e il faceto,

– andare in biblioteca, ho in testa libri da consultare, da prendere in prestito e altri da riportare,

– sedermi sulla panca di una chiesa in raccoglimento, e ritrovare nei miei luoghi sacri di Paterno e Ruballa, i volti noti del sabato e della domenica.

– poi un po’ di cura di me stessa: il dentista, un bel taglio ai capelli, qualcosa in una merceria ( ho già l’elenco ),

– e una visitina al vivaio, ora bisogna mettere a dimora le aromatiche, le piante da fiore per le aiuole e i balconi.

Ecco nella luce di questi giorni pochi piccoli passi con nel cuore la sicurezza di un respiro un po’ più ampio.

Incontri sotto tono

Il lockdown era finito – di Nadia Peruzzi

Se ne stava lì ad una ventina di metri sotto l’acqua.

Il lockdown era finito solo da poche ore ma si era talmente abituato al silenzio e allo star da solo che il bagno di folla dello sciogliete le righe aveva deciso di non viverlo proprio.

L’angolo di pace era un po’ insolito, lo sapeva.

Ma lui era sempre stato un tipo un po’ fuori dagli schemi. Il mare era una delle poche cose che lo faceva star bene. Ancor più quel silenzio irreale che trovava appena si immergeva.

Anche quel giorno era così. Ascoltava il silenzio e osservava i giochi di luce che i raggi del sole gli regalavano. Talora lampi, talora migliaia di lucciole che si rincorrevano, intrecci di un caleidoscopio con forme infinite e tutte magiche.

Ogni tanto vedeva passare un pesce che gli dava un’occhiata distratta, poi un colpo di pinna e via. Era un estraneo a quelle profondità e un estraneo cui si poteva prestare interesse uguale a zero.

Meno male, si diceva in quei momenti, che da estraneo aveva fatto in quei luoghi sempre incontri pacifici.

Il colpo d’occhio indifferente lo considerava un successo, visto che non era venato di sospetto o aggressività.

Quel giorno stava appoggiato ad uno scoglio, pensieroso. Si immaginava il gran can can dopo i giorni della quarantena collettiva.

Sentì una pressione alla schiena. Prima impercettibile, poi più forte. Un vero colpo lo costrinse a farsi da parte.

Vide uscire da una fessura nella roccia un tentacolo, seguito via via da tutti gli altri. Fu così che si trovò a tu per tu con un polpo grande quasi quanto lui.

Sentì il suo cuore che batteva all’unisono con i cuori del polpo. Battiti accelerati come se l’incontro inatteso avesse fatto agitare anche il polpo, non solo lui.

I tentacoli erano tutti in gran movimento. Dopo esser rimasto dentro l’angusto pertugio da cui era uscito, era chiaro che aveva bisogno di distendere ogni sua fibra. Era quasi un balletto vestito di eleganza.

Gli occhi si incrociarono per un attimo. Sorpresa mista a curiosità sembrarono attraversarli. Era già qualcosa di più rispetto all’indifferenza del pescetto che era passato lì davanti poco tempo prima.

Giulio era tentato di risalire. Non trovò il coraggio, né la forza di darsi la spinta. Rimase lì a osservare imbambolato il polpo che si stava ancora stiracchiando vicino a lui.

Era così vivo e vero dentro al suo ambiente liquido che quasi si aspettava che parlasse.

Quasi si aspettava di veder uscire dalla bocca persa in mezzo ai suoi tentacoli, una bolla fumetto in cui fosse scritto qualcosa su cui poter avviare una conversazione qualsiasi. Invece nulla. In un nuovo balletto il polpo si allontanò perdendosi nel buio.

Non gli sarebbe dispiaciuto, pensò Giulio, poter intavolare una chiacchierata con qualcuno di così diverso da sé.

Tuttavia pensò anche che se si era costretto a 20 metri sotto il pelo dell’acqua in un momento di parziale liberazione e di recupero di spazi di contatto con gli altri esseri umani un motivo c’era.

Preferiva il suo guscio da solitario. Era questo il motivo.

Degli altri, in fondo, non gli fregava nulla di nulla e da molto molto tempo. Se valeva per gli umani, figurarsi per un polpo. 

Viveva appartato, distante da tutto e da tutti.

Le cose attorno a lui lasciava che accadessero più che decidere di farle accadere.

Tutto nella sua vita era andato diversamente da come se lo era sognato, ma non aveva fatto nulla per cambiare lo stato delle cose.

Un po’ grigio e senza qualità lo era sempre stato. Fino da piccolo aveva inseguito gli altri qualunque cosa facessero, mai si era fatto inseguire.

Privo di slanci, privo di vere passioni si era imbarcato in storie e amicizie cercate dagli altri più che da lui e che non erano durate. Non avrebbero potuto.

Si barcamenava in tutto, senza eccellere in niente.

Uomo senza interessi, senza qualità, senza curiosità

La curiosità la giudicava pure malsana e faticosa. Troppe idee, troppe domande a cui cercare in vario modo risposte in una rincorsa infinita e per lui senza senso.

Non aveva voglia di domande.

Aveva voglia di lasciarsi andare. La vita era il flusso che muoveva gli altri attorno a lui, ma lui si era sempre guardato bene di entrare in quel flusso.

La quarantena l’aveva accolta con gioia.

Poteva tenersi a distanza da tutto e da tutti, camuffarsi dietro alle mascherine protettive che nascondevano sorrisi e espressioni malevole, evitare di salutare anche i vicini di casa fingendo che, dietro la barriera, nemmeno lo riconoscessero.

 La tv, occhio parossistico su un mondo in ebollizione  dal quale lui non si aspettava niente di buono, spenta da molto tempo, da prima che la pandemia la invadesse!

I libri, banditi ! Rischiavano di allargare l’orizzonte mettendogli in testa strane idee.

Il suo era un guscio legnoso nel quale finire di rinsecchirsi.

Risalì di malavoglia in superficie. Si accorse che la sera era calata e che fortunatamente non c’era nessuno in quel tratto di costa.

Il polpo lo aveva già dimenticato.

Anche i ricordi, in lui, non duravano quasi niente

Stasera polpo

Quando penso al polpo – di Chiara Bonechi

Quando lo vedo sul banco del mio pescivendolo così bello, afflosciato fra i lunghi tentacoli dai colori che degradano dal ruggine rosato al bianco, non resisto e lo compro.

Il  pensiero va immediatamente alla cucina: lesso o in guazzetto, o forse meglio un bel risotto  col sugo di polpo, in effetti mi viene buonissimo.

Quando dico “stasera polpo” alla mia tavola difficilmente sediamo solo in due, i miei figli accorrono volentieri.

E l’argomento polpo non si esaurisce con una cena, è una tale golosità che diventa spesso piacevole conversazione fra amiche.

Se penso al polpo vedo il mare, il mio angolo di paradiso che è l’insenatura di Patresi all’Elba.

Arrivando al mattino con ombrellone e sdraietta vedo Renza già posizionata al solito posto che  scruta l’orizzonte.

“Anche stamani è andato a pescare, spera di prendere un polpo!” Parla di Carlo, suo marito.

Ci avviciniamo e anche noi rimaniamo in attesa.

Un polpo pescato è sempre un richiamo, i bagnanti incuriositi accorrono, occhi che si spalancano intorno alla preda che dà spettacolo.

Fra le maglie della rete il polpo allunga ora l’uno ora l’altro tentacolo, vorrebbe liberarsi e scivolare nell’acqua trasparente di quel mare che non l’ha abbastanza protetto.

Invece rimane imprigionato a soddisfare l’orgoglio del pescatore e la curiosità di chi lo accarezza, di  chi lo solleva, di chi lo soppesa, dei bambini che timorosi accostano le manine sulle ventose e le ritirano divertiti o impauriti, chi sa?

Poi c’è stata la lettura di Cecila ed ho di nuovo pensato al polpo.

Era un polpo diverso stavolta, capace di aprire barattoli, scappare da vasche e rientrarci richiudendo il coperchio, riconoscere gli scienziati del gruppo di ricerca, spruzzare quelli antipatici, far saltare lampadine quando la luce dà fastidio, un polpo con comportamenti talmente complessi che invece di mangiarlo è venuta voglia di venerarlo.

In questa etologia mi sono immersa e “il navigar” mi è stato dolce in questo mar. 

Voglia di rossetto

Non so se ho voglia… – di Rossella Gallori

Non so  se ho voglia di un lungo viaggio

Non so  se ho voglia di un bel vestito

Non so, non so…

Di profumi costosi…

Di teatri, spettacoli da circo…

Cerco una matita…

Ne trovo, un mozzicone, quasi di sigaretta…

Scrivo incerta i miei piccoli desideri…

…con la gomma pronta se fossero troppi..

Un rossetto lucido e morbido

Un piccolo spillo

Una fetta di salame al mercato centrale

Un caffè in piazza San Lorenzo

Sedermi al sole in piazza della Libertà

Dar da mangiare alle papere in riva all’Arno

Scrivere una poesia bella da mangiare

Ridere per niente…

E che finalmente sia giorno…

Un cuore di velluto rosso

Un anellino verde

Un cappello che mi nasconda

Un fiore che mi porti fortuna…..e…

E….

E….

Le piccole cose del tempo

Ho imparato – di Luca Di Volo

Ho imparato,

a godere del profumo delle lenzuola

fresche di bucato

Ho imparato,

ad aspirare gli odori

della buona e povera

cucina di casa

Ho imparato,

il fremito di una foglia

accarezzata, ghiotta di sole

Ho imparato

dal vento portatore di odori

di mondi lontani

Ho imparato

La bellezza stuporosa

Di questa azzurra navicella

Che tutti ci trasporta

Attraversando impavida

Un cosmo ostile e freddo

Ho imparato

Le piccole cose del tempo

E i doni dei piccoli momenti

Sopra un cielo stellato

Ho imparato…ho imparato..

Tutti a bordo fratelli

Su fragile barca ci porta la rotta

Attraverso le stelle

Ho imparato…

La gentilezza

Elogio della gentilezza – di Vanna Bigazzi

Perché macchiare la gentilezza con la rabbia, la villania? Spesso l’insolenza, l’arroganza prendono il posto della gentilezza. Le regole, anche quelle personali, quelle che ci siamo autoimposti, sono importanti ma quanto sono inutili se non vengono comunicate nella maniera giusta, con civiltà! Un bambino, ma anche un adulto, può non rispettare una regola se gli viene imposta in malo modo, mentre può fare anche quello che non gli va, se viene chiesto con gentilezza. La gentilezza è un’arte nobile e al tempo stesso efficace. A volte, non essere gentili, può sconfinare anche nella violenza, e sta peggio chi la esercita piuttosto che la persona che la riceve. Quando queste rigidità prendono campo, significa che il rancore dilaga, si impadronisce del nostro pensiero, rendendolo schiavo degli istinti. La gentilezza unisce, così come la riconoscenza e il riconoscimento, sono valori che contribuiscono a tenere insieme le persone, non a dividerle. Specialmente in momenti di crisi diventa preziosa, perché unisce nella risoluzione dei problemi. Migliorando il tono dell’umore, impedisce la fuoriuscita dell’aggressività. Oggi questa “perla” sembra spesso si sia smarrita, perché si vuole arrivare primi “a gomitate” ma “a gomitate” si va poco lontano. Come è bello poter dire: “ti voglio bene” anziché criticare. La gentilezza è una forza senza pari, che non denota solo buona educazione, ma amore verso il prossimo.    

Il polpo

E se invece io fossi un polpo – di Rossella Gallori

quella canzone mi ronzava in testa, mi sembrava di averla sentita in un tempo molto lontano, così lontano da sembrare solo un piccolo specchio rotto, abbandonato in una borsa sdrucita di cuoio una volta chiaro….sentivo il ritmo incalzante in ogni centimetro di pelle, la cantina in piazza Pitti, con le candele che grondavano cera, mani audaci, bocche disponibili, vino da poco o forse usava la tequila, il limone…quel leccare il dorso della mano, quel bere per esserci, quel fumare per sembrare più grandi…ricordo tutto bene, la storia si era ripetuta…non avevo più i calzettoni, ma parigine nere, il medico era lo stesso, quando perdevo la bussola mi riportavano li.

Esordì con un: ti trovo cambiata…

Risposi con mezzo sorriso imbronciato, dietro di lui un quadro immenso una notte stellata, una luna immensa, un contrasto così netto che mi affascinava, avrei voluto chiedere, se era stato messo lì per accelerare le sue diagnosi, non lo feci…

Che animale vorresti essere?

Risposi un cane morbido senza guinzaglio..

Avrei potuto rispondere, un gatto,  un’oca, un lupo, un serpente… tanto sapevo già come andava a finire…

Ricordo bene, anche le cento lire in tasca, pronte per il caffè…il barretto in Santa Felicità…la voglia di urlare….lui che mi aspettava, la macchina in moto…e quell’ inchiostro nero che era il mio pensare…il pensare di allora, che ritrovo oggi, in questi giorni che Dio non sa gestire, con la scienza che fornisce dispense complicate,  numeri  come spilli senza capocchia, algoritmi cupi come pozzi d’ acqua non potabile…

Se ritrovassi quel medico, se riuscissi a  contattarlo frugando nell’agenda dei miei pensieri, certo con passati più di cinquanta anni, tanti, ma mai troppi…vorrei  rispondere senza veli alla sua domanda…senza quella luna, senza quelle stelle…senza quel quadro…Sono un polpo  dottore, posso diventare invisibile, ho perso il guscio da quasi sempre, sono preda di foche, delfini, gabbiani…esseri umani, mi sono riprodotta tante, tante volte senza rischio, ma ho tre cuori, che battono all’unisono, ho otto  tentacoli, una intelligenza che mi permette di scegliere….se uscire o entrare in uno spazio…e  “ MANDO MESSAGGI DI INCHIOSTRO NERO, NERO….TENTACOLI SENZA TENTAZIONI….TROPPE BRACCIA PER NON ABBRACCIARTI”

PS:  polpo d’ amor brano di Capossela

Non sapere chi è

Una tramonto nel vento – di Luca Di Volo

Quella sera, all’imbrunire, e nonostante il freddo pungente e il vento che ululava gelido, volli salire sulla terrazza del Pincio.  A quell’epoca lavoravo a Roma e dopo una giornata di lavoro “Romana” avevo bisogno di aria, anche se sottozero. 

In effetti quel tipo di tempo era abbastanza inconsueto per la capitale, nota per il suo clima mite. 

Non era sempre stato così.  .  la Roma dei Cesari era notevolmente più fredda di oggi, il che aveva fatto pronunciare al Duce nel terribile inverno del ’42 la famosa frase sul clima e gli Italiani….  Sorrisi.   .  e gli Italiani gli avevano creduto. 

Con questi pensieri sbucai sulla famosa terrazza.  Nessuno.  Proprio come avevo immaginato.  Ed era anche quello che desideravo: solitudine e un panorama, a dir poco, insolito. 

Già.  .  il sole, tristemente invernale, ma ancora fulgido, stava riaffacciandosi dalle nuvole nere che ricoprivano il resto del cielo.  Gettava una luce giallo sanguigna sulla visione dei tetti e dei colli. 

E io mi beavo di quel panorama fine di mondo…

Certo però che il vento fischiava forte.  Girai lo sguardo per individuare una panchina tra tutte le altre, ovviamente deserte, e riuscii a trovarla. 

Però, con grande stupore vidi che era occupata. 

Quindi c’era qualcun altro che come me era d’umore nero. 

Fu giocoforza, chiedendo scusa e permesso, sedersi accanto al mio compagno. 

Questi era assorto non so in quali pensieri e fece appena un gesto cortese e accondiscendente spostandosi leggermente, per poi tornare a fissare un punto lontano, immerso ancora in imperscrutabili pensieri. 

Lo guardai di sottecchi perché il suo aspetto, ma ancor di più il suo abbigliamento,  mi avevano abbastanza colpito da suscitare la mia curiosità. 

Capelli nerissimi, quasi violacei, naso leggermente aquilino.   Lineamenti decisamente aristocratici, anche un po’ sdegnosi.   Il colorito: leggermente abbronzato, con sfumature color rame che il sole sanguigno faceva risaltare. 

Ma gli occhi, completamente neri,  ma lucidissimi, parevano esplodere di luce propria, suggerivano l’idea di un’energia straripante ma contenuta.  .  e tuttavia pronta ad esplodere al minimo tocco. 

Non potei resistere alla tentazione di saperne di più.   .  e cercai goffamente di imbastire una conversazione. 

“Ehm”esordii”vedo che anche lei non si fa impressionare da questo tempaccio.   .  forse anche lei ama la solitudine che solo questo vento può regalarci in un posto tanto famoso…  ”

Si voltò leggermente verso di me, dardeggiando quei suoi occhi fumosi. 

Lo guardai meglio. .  un principe (non ebbi mai dubbi su questa attribuzione.  .  doveva essere un principe).  .  un principe orientale?!Un cadetto esule e spodestato?!IL Vicino Oriente era abituato alle lotte dinastiche ereditarie.  . 

Ci fu un breve silenzio.  Ma alla fine parlò.  Una voce morbida, virile ma non troppo, dolce ma severa.  Una voce d’angelo, pensai, e ne fui incantato. 

“Sì, ha indovinato, mi piace la solitudine.  .  l’essere solo…mi fa sentire sicuro.  .  ”

Che risposta strana.  Mi feci più audace.  ”Scusi l’impertinenza.  .  ma.  .  posso chiederle come mai è qui a Roma?!”

“Oh” rispose”per me tutto il mondo è paese.  Ma Roma ha un ché di speciale, per me.  .  mille e mille ricordi.  .  non tutti piacevoli”

Allora mi autorizzava a continuare.  . 

“Eh sì…  ”solidarizzai” Eh sì…  tutti abbiamo ricordi, alcuni tristi, alcuni lieti….  ma alla fine tutti troviamo il nostro equilibrio.  ”

“Io no!”  era un sussurro e un grido. 

Rimasi bloccato, quale mai punto sensibile avevo toccato?!

Ma il personaggio si ricompose subito.  E fu come se le parole troppo a lungo trattenute gli uscissero fuori contro la sua volontà. 

“Ma sì…le dirò della mia vita.  Tanto anche se andasse a dirlo in giro non le crederebbe nessuno.  ”

Rimase un momento silenzioso, forse raccogliendo i pensieri. 

“Immagini” cominciò ”immagini un regno. ..  un regno felice, immensamente esteso e fuori del tempo.  Ecco ”immortale “, come si dice qui. 

“Ma l’ambizione…  la sete di potere covavano anche in quel regno beato. 

“Ci fu una rivolta.  La guidava mio fratello.  E vinse.  Io e la mia fazione fummo scacciati, inseguiti.  .  maledetti. 

“Non abbiamo riposo, e nessuno, in tutta la Galassia, vuol aver niente a che fare con noi….  eterni Olandesi Volanti…”

Non seppi che dire… il vento sembrava fare da contrappunto alla sua disperazione. 

Però osai dire: ”Ma davvero non può far nulla.  .  ?! Lei a quanto mi dice era potente…un principe.  .  e suo fratello, un usurpatore.  Davvero non può difendersi?!

Per la prima volta sorrise…

“E come.  .  ? Mio fratello ha il pieno controllo della propaganda.  Ha convinto tutti, ma proprio tutti che io sia il “male” assoluto.  Ed è per questo che non le dirò il mio nome.  .  Lo faccio per lei.  Non deve saperlo.  .  e non lo sappia mai.  .  ”

Ma ormai ero stravolta dalla curiosità. 

Lo pregai, lo implorai.  .  giunsi ad insultarlo. 

Si mosse a pietà. 

Sollevandosi verso il sole morente mi fece il dono. 

“Saa.  .  taa.  .  naaa”

Ma forse era il vento terribile, non posso giurarci. 

Non andai più al Pincio e poco dopo fui trasferito a Firenze. 

Questo IO

QUESTO “IO” CHE SENTO – di Laura Galgani

Questo io che sento di essere non è qui con me.

Ne trattengo solo un frammento, una scheggia.

E’ solo un anello di un’infinita catena.

Se guardo l’anello che stringo nella mano destra – luminoso, d’oro bianco, un cerchio perfetto – vedo che si intreccia con altri due, uno a destra ed uno a sinistra. Non sono uguali al “mio”, nient’affatto: quello di destra è trasparente e scompone la luce nei colori dell’arcobaleno; quello di sinistra è di giada, freddo sulla pelle ma vivo e antico.

Ognuno di questi anelli – perché ce ne sono infiniti, agganciati gli uni agli altri – è un pezzetto di me che va in giro a conoscere il mondo. In questo momento uno è sulla cima del cedro del libano nel giardino dei miei fratelli, qui vicino, e sente il vento forte passare fra i rami protesi sulle case; uno è sulla spiaggia di Castiglione della Pescaia a caccia della luna, un altro ancora è stretto fra le mani di un malato all’Ospedale del Ponte a Niccheri, un altro ancora nella tasca del camice della mia giovane cugina Benedetta, medico di terapia intensiva a Siena. Questi sono solo alcuni. Di molti so esattamente dove sono, di altri so solo che sono in viaggio e ogni tanto mi mandano notizie. Altri ancora sono così lontani nell’Universo che per sentire i loro messaggi devo mettermi in silenzio e ascoltare attentamente. Dopo un po’ li vedo, viaggiano a tutta velocità fra un pianeta e una stella, incontrano esseri di luce con i quali scambiano bagliori intermittenti. Di sicuro usano un linguaggio segreto che la mia mente terrestre non è in grado di capire, ma il mio anello d’oro bianco sì. E allora il messaggio arriva anche a me. Quando questo accade stringo la mano e piango di gioia.    

Non m’importa di non avere un “io” tutto intero. Non saprei cosa farmene. Non mi piace sentirmi reclusa in questo stesso mio corpo, che oggi c’è, domani chissà. La felicità è conoscere attraverso tutto ciò che esiste. Essere un pezzetto di tutto ciò che è.

Stringo un sasso, ne sento il calore, se è stato al sole; o la freddezza, se siamo in inverno. Dentro quella materia, apparentemente muta e immobile, c’è uno dei miei infiniti anelli, a suo modo unico, prezioso, e mi racconta la vita del sasso. O meglio, la racconta al mio anello d’oro bianco, che trova sempre il modo di farmi arrivare l’essenza del messaggio. Certo, non tutti sono facili da comprendere; quelli che mi arrivano più facilmente sono quelli che provengono dai fiori. I miei anelli – tutti colorati delle sfumature più ricche – si divertono moltissimo a piazzarsi dentro un bocciolo di rosa antica profumata, o sul centro scuro di un girasole della Maremma, sulla fresia viola del terrazzo di casa o sul papavero rosso fuoco che spunta dal muro di pietra di Via Fortini. E mi raccontano un sacco di cose. In questo modo, io divento un po’ papavero, girasole, fresia, ma anche ape, calabrone, passerotto. Sono dappertutto, vivo e sento attraverso tutto ciò che è. E non ho nostalgia di me. 

Ottavo incontro virtuale: Scienza e scrittura

La scienza è in ogni punto della nostra vita. Saperla cogliere e raccontare con leggerezza è una divertente sfida.

Carlo Rovelli ci aiuta con un suo libro:

“Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza” del 2018:

Il polpo è un animale speciale che ha terminazioni nervose in ogni parte del corpo. Come un cervello spalmato ovunque.

Osservare il polpo è un pretesto anche divertente, per osservare il nostro livello di coscienza. Dice Rovelli:

“Cos’è nel grande gioco della natura, questo io che sento di essere?”

E ancora: “cos’è la capacità di osservare, prevedere, interagire, comunicare, soffrire e amare, che condividiamo con tanti mammiferi?”

Per capirlo, dice Rovelli, proviamo a confrontarci con animali molto diversi da noi. E ancora:

“Come sempre, dice, il modo migliore per capire noi stessi è confrontarci con altri”.

Un quadro nella finestra

Guardare col cuore – di Tina Conti

Ecco, tutto mi sembra fermo, posso staccarmi dalla finestra dove sono rimasta persa  con gli occhi e il cuore per tanta bellezza.

Codabianca  è tornato, si è fermato per lungo tempo  davanti a un olivo, guardava attento con il capo voltato da una parte.

Non  lo vedevo da giorni  muoversi insieme  alla  sua famiglia, oggi è solo

Si sposta silenzioso fra i cespugli nei campi sotto casa.

 Di solito è il più curioso, si volta verso  i rumori e fissa la finestra, rimane a guardare, oggi con la pioggia  si sente sicuro. Con quel suo codino bianco e il corpo  biondo e lucido, le gambe agili e sottili.

Cerca le erbe dolci e tenere, si gode i germogli freschi, non ci sono rumori  di macchine agricole o voci di bambini o di cani. 

Il mio sguardo si  allarga  sulla valle, i verdi incantano, ma dove erano ieri? Il marroncino  tenue si mescola  con lo spruzzo di verde delle foglioline del ciliegio al quale sono attaccati i piccoli frutti.

Il verde del salice, la macchia del biancospino, i tronchi dei platani che si intrecciano con  lo fogliame, i ciuffi di ginestra riempiono gli spazi vuoti.

 Osservo il dondolio delle foglie di edera al peso delle gocce, sembra una tastiera di un pianoforte: TIN, TIN, TIN, si vedono ondeggiare e rialzarsi colpite a turno dall’acqua.

Un pettirosso vola  veloce  e si riposa un minuto, scuote la coda per il peso della pioggia.

Riparte, ritorna, si posa sul ciliegio, ecco che ne arriva un secondo, va e ritorna.

Saranno davvero pettirossi’ mi sembrano tanto colorati.

Vicino al bosco una moltitudine di teneri verdi, sono spuntati  nella notte:

non riuscirò mai con la mia  tavolozza  a fermarli, sono sconfitta in partenza.

Arriva un merlo maschio, serio, pensoso, impegnato non come quei farfalloni dei pettirossi, ha scavato nei vasi della vicina in cerca di vermi per la famiglia.

Ora si ferma, si becchetta sul corpo, allarga le piume, si riposa poi parte.

Cadono le gocce, qualche folata di vento muove il piccolo ciliegio.

 Per quanto tempo mi sono persa quella bellezza? quel mondo che ogni giorno ci avvolge  che poco conosciamo?

Non lo vediamo, non siamo più capaci di viverlo immergendoci dentro

Ora potrei rimanere ore, a guardare, non mi annoierei, perché  sento la sua 

voce, ho tempo di ascoltarla, mi sento avvolta.

Come è difficile però, saltare in questa dimensione, ritornare su questo tempo…Immaginare  un vivere  diverso, forse più vero, che ci aiuterebbe a ritrovare  relazioni e valori  dove il cuore e gli esseri viventi hanno prevalenza su tutte le cose.

Cosa sarà domani, come saremo noi, speriamo più veri e migliori, di sicuro saremo diversi.

Paesaggio lunare

Abbracci di stelle – di Luca Di Volo

Era stanco,  stufo,  annoiato. . gli mancava il respiro.

Doveva uscire,  camminare,  anche andare oltre i 200  metri. . quell’assurdità odiosa. . magari necessaria,  ma non per questo meno odiosa.

Non svegliò neanche la moglie,  e non indossò neanche la mascherina prescritta. Non aveva intenzione di fermarsi con qualcuno,  quindi. . inutile. Voleva l’aria,  l’aria dolce della primavera. . e avrebbe pagato volentieri la multa,  la condanna e tutto,  pur di goderne ancora a pieno respiro.

Più che uscire,  si catapultò fuori dal portone.

Nessuno. . non si stupì,  era quello che si aspettava. Silenzio. . e anche questo era normale per quei tempi…solo il garrire delle rondini e i richiami del cuculo.

Però si avvertiva qualcosa d’insolito. . non sapeva che cosa,  ma . . c’è silenzio e silenzio. . e quello era un silenzio più silenzioso di altri.

Si incamminò prendendosi in giro per quelle considerazioni sgrammaticate,  con passo deciso valicò il Lungarno,  si inoltrò nei giardini…Ormai era  sfida aperta.

Superò anche i “ginguegento” metri. Nessuno. Arrivò all’Albereta. Nessuno.

Ora però una certa qual inquietudine cominciò a mordergli il respiro. Altre volte c’era silenzio,  c’era il deserto,  ma si sentiva lo stesso qualche rumore,  qualche auto,  qualche autobus passava sempre,  e qualcuno a piedi si poteva vedere.

Invertì la marcia e si avviò per il Lungarno Ferrucci. Accelerò il passo…spinto da un’ansia illogica.

In quel momento avrebbe desiderato…implorato quasi che una macchina dei Vigili lo fermasse: ”Ehi. . dove va lei. . e senza mascherina. . ”

Nessun vigile,  nessuna macchina. Solo il cielo blu e il vento profumato.

Strane idee . . ”Ma dove sono i miei simili?! Dove sono andati…”

Proseguì il cammino guardando sfilare come allucinato il Ponte S. Niccolò. . il Lungarno Serristori.

Arrivò al Ponte Vecchio. . almeno lì era sicuro. .

Ma tutto rimase silenzioso.
La conclusione era ovvia forse un po’ paranoica,  ma terribilmente reale e straziante.

Gli uomini se n’erano andati.

Dove?! Erano morti tutti?! Impossibile,  qualche cadavere in strada ci sarebbe stato.

E allora?

Erano svaniti,  dissolti nell’aria. . così pareva.

Si mise a sedere sul selciato. . Per la prima volta ammise con sé stesso di non aver mai amato i suoi simili,  di averne evitato la compagnia. Chiuso nei suoi studi sull’universo e i suoi interrogativi angosciosi e struggenti,  non aveva posto mai mente al fenomeno più intrigante di tutti: l’umanità nuda e cruda.

Pensò alle tante estinzioni di massa che il pianeta aveva visto. . forse era una di quelle.

Ma non rimase convinto. E allora perché lui. . e solo lui era lì?! Quale assurda legge naturale era stata applicata?!

Risorse lo scienziato. . questo lui era. . nonostante tutto. Si ricordò che anche il vuoto non esiste. . solo un apparire e sparire di particelle in un tempo minuscolo…Vero,  ma cosa avrebbe percepito la particella dal suo punto di vista? Forse per lei quell’istante infinitesimale era tutta la sua storia. . il susseguirsi delle sue civiltà. Che ne sapevamo noi?

E se anche l’uomo,  così orgogliosamente superbo non fosse stato anche lui nient’altro che una particella che,  terminato il suo tempo,  doveva annientarsi per far posto a…a cosa?

Lucidamente comprese che la stanchezza e la strada lo stavano facendo sragionare.

Ma si costrinse a continuare.

Percorse Borg oSS. Apostoli,  poi Ponte a S. Trinita. . sperando. . pregando di essere contraddetto.

Ma il silenzio opprimente e assordante rimase e continuò a torturarlo.

Ora si dichiarava pentito di aver evitato la compagnia dei suoi simili,  chiese perdono a Dio,  alla Madonna e a tutti gli angeli. . ma nessun Dio in quel momento era in ascolto.

Quando giunse all’altezza delle Cascine lo sorprese la notte.

Ormai più che stanco si sdraiò sopra un prato e sentì che il cielo stellato gli precipitava addosso.

Dio,  quante ce n’erano…insensibili,  insolenti e indifferenti luccicavano nella loro gloria senza tempo.

Non c’erano più gli uomini. . ma si potevano abbracciare le stelle,  tutto il firmamento.

E le stelle emisero un lampo di approvazione.

Si addormentò contento.

Là dove tornare

Canto ligure – di Nadia Peruzzi

Il tormentone, mare o montagna, era di là da venire.  La vacanza, quando era possibile farla,  era quella vicina a casa.

Di code di macchine neanche l’ombra. Chi era vicino al mare andava per lo più al mare, gli altri se la giocavano fra campagna e montagna. Spesso ci si muoveva in treno.

Poi con l’autostrada che iniziò a tagliare  il paese da nord a sud, serpentone di macchine assicurato e le code pure.

I tanti operai emigrati nelle fabbriche del nord cominciavano a guidare le macchine che costruivano e vacanza era tornare ai paesi di origine, al sud a ritrovare le famiglie  insieme alle mogli e ai figli nati nel frattempo.

Un po’ come capitava a mia mamma che mancando dalla sua Genova da quando aveva 18 anni, le ferie amava passarle nei suoi luoghi, vicino alle sue radici e ai suoi parenti.

In quello spicchio di Nord ci ho passato intere estati. Al mare con gli zii in giugno e luglio in attesa della vacanza vera,  quella di agosto.

Arrivavano i miei genitori, allora, e con loro si andava in montagna.

Il paese era ad appena una cinquantina di chilometri da Genova. Ci si arrivava per una strada tutta curve nel suo ultimo tratto. Era un’avventura quando a portarci era una di quelle corriere blu che arrancavano in salita e in molti punti occupavano tutta la sede stradale.

Erano vacanze semplici,  al limite dello spartano. Era una montagna fuori dai cataloghi patinati e dalle pubblicità dove si potevano trovare gesti e persone semplici ma vere che mia mamma, malgrado i lunghi anni di lontananza conosceva quasi tutte. Erano famiglie contadine per lo più, che abitavano lassù anche in inverno.

Sulle spalle portavano storie che spesso  raccontavano con gli occhi prima che con quel dialetto stretto che,  nei primi anni,  io e il babbo faticavamo a capire.

Due negozi di alimentari, due locande una in basso e una in alto e tutto finiva li.

Ma solo se ci si fermava alla superficie.

Bastava pensarci solo un po’ e veniva fuori il pregio di un confine geografico duplice.  Sapere di essere esattamente al centro dell’arco della Liguria e alle pendici del suo monte più alto aveva il suo fascino.  Lo  aveva anche la consapevolezza di trovarsi a metà distanza in linea d’aria fra il mare e la catena delle Alpi. In condizioni ottimali,  saliti a cresta di monte non era difficile distinguere lo sbrilluccichio di qualche nave incastonata lungo la linea dell’orizzonte, e dalla parte contraria,  sospese fra pianura e cielo le Alpi con le loro vesti trasparenti e lucidissime per il tanto ghiaccio che ancora le ricopriva anche in piena estate.

Ma non finiva qui.  Quel pezzo di territorio era stato dentro la storia e che storia.

I sentieri e quegli acciottolati erano stati calpestati dai soldati romani che ebbero uno scontro terribile, non distante da lì con le armate di Annibale al tempo della seconda guerra punica. Fu in Val Trebbia che subirono la prima, cocente sconfitta.

In tempi più recenti altri soldati erano scesi da quei pendii,  offendendo la pace di quei luoghi e portando morte e distruzioni.

Mia mamma vi aveva passato mesi interi da sfollata dopo che Genova era stata pesantemente bombardata.

Aveva visto molto e ricordava tutto.

I luoghi degli eccidi di ragazzi attivi nella resistenza. I tedeschi che erano entrati nella casa dei suoi zii durante un rastrellamento. Incendi di cascine e di abitazioni che si sospettava avessero dato ricovero ai partigiani.

Spesso a riportare i suoi racconti indietro nel tempo era il ricordo delle camminate verso i pascoli a seguito delle mucche che doveva controllare, o di quelle ad inseguire le feste e le sagre nei paesi vicini con la cugina più grande che da brava sarta qual era le confezionava vestiti che ne facevano risaltare la figura e erano un richiamo per i giovanotti che la invitavano a ballare e le facevano il filo.

La montagna come dimensione dello spirito e mia grande passione credo sia nata dentro tutto questo. Era un “via dalla pazza folla”, per ritrovare radici e affetti.

Le foto di quegli anni parlano di questo.

Io con mamma e babbo accanto ad una delle tante fonti con l’abbeveratoio anche per le mucche.

Io un po’ intimorita a cavallo del mulo dello zio Natale, uomo silenzioso che sembrava uscito direttamente da un altro secolo con i suoi baffoni alla Bismarck.

La foto che amo di più mi ritrae con un cappellino alla Pancho Villa bordato di piccole frange, mani sui fianchi, lividi sulle gambe a testimoniare i colpi delle varie cadute, un ginocchio fasciato con un fazzoletto annodato offerto all’inquadratura e messo in primo piano come se fosse un trofeo. Sguardo sbarazzino, diretto, puntato verso l’obbiettivo. Si vede che sono contenta, serena. Gli occhi sono chiaramente bambini ma già sicuri e sembrano dire,  si, questo è il mio mondo. Non solo il mondo dei grandi con cui sono arrivata qui.  Ma proprio il mio, quello in cui mi sento bene. Quella che oggi è consapevolezza allora era forse solo una sensazione di benessere,  senza troppe costruzioni mentali a far contorno. Nella foto parlano i gesti, la posa. E in quell’attimo fuggente comunico tutto quello che a parole non avrei saputo dire.

Sarà che il babbo e la mamma li vedevo rifiorire in quei luoghi.  Rompere con l’impegno quotidiano e con le abitudini era salutare per loro e si vedeva.  Si viveva all’aperto e sulle soglie delle case. Dentro solo il tempo del pranzo e della cena poi era tutto un rincorrersi all’aperto fra i campi, nel noccioleto dietro casa, fra i balzi coperti di fiori di montagna.

I giorni dei grandi,  passavano in serenità scanditi da partite a bocce, giochi di carte e discussioni politiche o di calcio.

Poi c’era il tempo delle passeggiate. All’inizio quelle semplici e senza troppe salite per fare il passo e il fiato.

Poi quelle più lunghe e faticose.

La vetta dell’Antola con i suoi 1600 metri incombenti sul paese,  era la prima delle mete ambite per testare resistenza e volontà.

La seconda era il gran clou della vacanza.  Arrivava alla fine, pochi giorni prima del rientro a casa.

Dieci ore di cammino fra andata e ritorno, tre province sfiorate nell’attraversare vallate,  castagneti e boschi di faggio.

Un saliscendi continuo che finiva solo in vista del pianoro erboso delle Capannette di Pej in provincia di Piacenza. Una faticaccia da cui si tornava sempre con la soddisfazione di avercela fatta,  anche se a volte quando il caldo era particolarmente aggressivo,  qualche accidenti benevolo capitava che fosse lanciato dai più piccoli verso gli adulti che ci avevano imbarcato nell’impresa.

Ho visto altre montagne dopo. Più note e più aspre.  Montagne vere,  quelle con i boschi che lasciano il posto alle rocce e arrivano ad altezze ben più elevate. Eppure un bel pezzo di cuore è rimasto lì in quel piccolo paese disteso fra 900 e 1000 metri sull’appennino ligure, che faceva festa nel giorno di San Lorenzo.  Giorno di tavolate,  di gran balli e di attesa che il giorno finisse per permettere alla notte di posarsi e avvolgere tutto. Perché era di notte che  potevi ricevere il regalo più bello di tutti.  Se e quando accadeva la festa volgeva in spettacolo.

Mi rivedo a guardare all’insù in attesa che arrivasse la prima. Era così improvvisa che la mancavo regolarmente. Ma ecco arrivare la seconda, poi la terza. Talora era un’intera pioggia di stelle cadenti come non ho mai più visto in tutta la mia vita.

Se era sereno, senza tutte le gran luci della città,  le vedevi attraversare il cielo da parte a parte.

Come stelle filanti,  si dipanavano in linee lunghissime e fluorescenti. Erano lì a due passi da me, sembrava solo che aspettassero un mio tocco,  prima di sparire nel buio.