Capelli come rami

…tra i rami… – di Rossella Gallori

Il cappotto striminzito, che…strano l’ anno passato le stava quasi bene, di un verde “ arreso” più simile al pantano, che al prato, gli scarponcelli senza lacci più per trascuratezza che per moda, i capelli,  increspati dall’umido si sollevavano ad ogni passo, verso il cielo, come rami secchi, tremando quasi, come le sue mani rattrappite dal freddo, nei guantini bucati color neve sporca….

A vederla da lontano sembrava una bimba, una bimba stanca, un po’ persa, dall’incedere lento, pesante…anche il suo berretto l’ aveva abbandonata…un calzerotto di lana rossa un po’ infeltrito, con un  pompon  spennacchiato, che ora giaceva a terra come una briciola di Pollicino nel viottolo decretando il suo passaggio a tre, quattro merli infreddoliti ed umidi.

Si era, poi,  fermata di colpo al culmine della salita, in un silenzio peso come la croce di Cristo, con la nebbia che aveva solo voglia di ingoiarla, infondo aveva voglia di essere inghiottita da qualcosa, anche solo per pochi minuti, ore, riposare in uno stomaco caldo ed accogliente, appoggiata a solide pareti, senza spigoli, camminare dentro qualcuno…farsi trasportare…

Fuori c’era l’inverno…forse da sempre…

Udì una voce, non si voltò  aveva paura di perdere quel poco equilibrio che le era rimasto, di cadere e sporcarsi fuori oltre che dentro, il fango sembrava invitarla ad un amplesso cattivo……

Riudì la voce ed ancora una volta…non si voltò.

L’albero di quercia

Incontro – di Elisabetta Brunelleschi

Albero spoglio.

Albero d’inverno.

Sembra una grande quercia, è circondata da fitte canne con lunghe foglie gialle, piegate verso il basso.

Non ci sono persone, ma solo piante addormentate nel sonno invernale.

È una natura svettante e rigogliosa che sembra aver preso il sopravvento su uno spiazzo erboso che in antico poteva essere usato come pascolo. Le pecore brucavano e il pastore le sorvegliava riparandosi sotto le fronde della quercia.

Io amo molto questi scorci. In ogni stagione mi piace camminare tra campi e boschi, guardando intorno, osservando ogni segno animale o vegetale.

Ma non cammino da sola, temo incontri strani,soprattutto con cani randagi. Quando percorro viottole o sentieri preferisco essere in compagnia.

Quindi in questa scena mi immagino insieme ai miei abituale compagni di escursioni. Siamo fermi e i nostri occhi si posano sulla grande quercia che pare abbracciare il cielo. Ci riposiamo nel silenzio di una natura addormentata e poi, lentamente, riprendiamo il cammino.  

L’albero del mercato

L’albero del pentolaino – di Carla Faggi

Aveva un’apina carica di pentolame, faceva la gita di paese in paese.

– Forza spose che l’è arrivato il pentolaino!

Al suo richiamo le donne uscivano dalle loro case per cercare e poi acquistare un mestolo, un tegame, una scodella.

Era un bell’uomo, il pentolaino, magro, simpatico, volto intelligente.

Molte finivano per comprare qualcosa solo per potersi intrattenere in sua compagnia.

Aveva molte fidanzate, più di una per paese, però la sera tornava sempre a casa dalla moglie e dai figli.

Era un girellone, si diceva allora.

Era uno che piaceva, c’era poco da fare!

Però il marito di una sua cliente, uomo forte e un po’ manesco, decise di non essere daccordo sul “c’era poco da fare”.

Non picchiò il pentolaino ma si sfogò sul prezioso mezzo di trasporto.

Povera apina, tutta accartocciata, le ruote perforate, gli sportelli divelti.

Fu peggio di un pugno in testa, come poteva fare ora con le gite?

Fu così che il pentolaino decise di aprire un banco sotto un grande albero in mezzo al paese, ci espose tutti i suoi tegami e aspettò che le spose dei paesi vicini venissero direttamente lì.

Fu un successo!

Si mormora che il sindaco del paese, conquistato dall’idea, decise di far proprio in quel luogo, sotto il grande albero, il primo mercato cittadino.

Ad oggi a Sesto la piazza del mercato la chiamano tutti la piazza del pentolaino.

L’albero grande

ll grande albero – di Tina Conti

La vita lo pressava con impegni e responsabilità, era soddisfatto delle mete raggiunte ma  gli mancavano i suoi momenti di  rilassamento e vagabondaggio nei posti della giovinezza.

Guardava fuori dalla finestra e sognava  quelle sensazioni, e i posti cari dei  ricordi.

A volte non ce la faceva  e doveva scappare.,

Indossava le  scarpe ammorbidite con il grasso , un regalo del suo amico  di avventure che ritrovava in estate  per  una ricerca  in montagna.

La giacca, comoda e con tante tasche e lo zaino piccolo sempre pronto  con  un  corredo di sopravvivenza.

Coltellino, spiccioli, fazzoletti, una borraccia, cappellino  e ultimo acquisto il telo termico super leggero  .cose che rimanevano sempre  ad aspettarlo per le fughe.

Nelle tasche della giacca, rotolavano noccioli, sassi di forme arrotondate, una noce.

Non ce la faceva a non piegarsi a raccogliere quelle  cose cosi belle che dentro la tasca accarezzava e indovinava.

Il bastone stava dietro la porta, nessuno lo doveva spostare, era di nocciolo, forte e nodoso ma rassicurante  durante la strada.

I primi passi erano energici, frettolosi, infilava le viottole ,tagliava i campi.

Sentiva la bramosia di arrivare al suo posto speciale.

Ascoltava il vento sul viso, il profumo dell’aria, riconosceva gli odori dei posti che percorreva; il fossato, la concimaia di Rosetta, la capanna dei conigli, il bucato steso al sole il vento di primavera portava l’odore di primi fiori

Passata la spianata, intravedeva la chioma elegante e maestosa della sua quercia.

Sentiva lo svolazzare  dei passerotti, il cinguettio dei merli e pettirossi.

In inverno pace, quiete e la brezza di tramontano che lo costringa  a chiudersi il

colletto della giacca.

Si illuminava di sorrisi, godeva ogni attimo, i passi felpati sul tappeto di muschio lo facevano volare, ascoltava il frusciare delle foglie secche, il canneto che sventolava.

Il capanno dei cacciatori era sempre più rovinato, si erano fatti vecchi  quelli e avevano poche energie, ma  a caccia ci andavano ancora.

Si metteva seduto appoggiato al tronco, spiava  i segni della natura, le foglie che si sbriciolavano fra l’erba i primi fiori coraggiosi.

Che emozione la prima violetta, i boccioli di zampe di gallo.

L’aria lo incantava, chiudeva gli occhi e si immergeva in quelle emozioni.

Ricordava le corse dopo la scuola, la nonna che cantava quando cercava erbe e chiocciole, il rumore del pennato del nonno che faceva fascine.

Stava bene, si riconciliava col mondo, rientrava energico e sorridente, portava in tasca i suoi tesori.

L’albero grande

L’albero grande – di Chiara Bonechi

Chi sa da quanto era lì!

Ricordava di averlo ammirato da quando, giovane sposa, era andata ad abitare in quella casa fuori dal paese, verso la campagna.

Si stagliava nel cielo superando in altezza ogni elemento intorno: campi incolti, vigneti e colline.

Al mattino, spingendo la persiana per far entrare le prime luci del giorno, l’albero grande era la prima immagine che i suoi occhi percepivano. Non si era mai chiesta cosa fosse, per lei era soltanto l’albero grande che annunciava, prima di percepirlo sulla pelle, il cambio delle stagioni.

Si spogliava in inverno e sui rami si potevano scorgere intrecci più fitti: un nido, a volte due.

E quando a primavera si ricopriva di foglie, si trovava incantata ad osservare il via vai ritmato dei diversi abitanti dell’aria che fra quei rami trovavano riparo.

“Un airone! Ed eccone un altro!”

“E quelli piccoli, saranno tutti passerotti?”

La finestra della cucina e anche il terrazzo erano ottimi punti di osservazione, spesso prendeva il binocolo, metteva a fuoco e penetrava in quel segreto mistero della natura.

L’albero spoglio

L’albero e il canneto – di Anna Meli

            Quell’anno l’estate era stata veramente torrida, tutti eravamo stanchi di quel clima afoso e aspettavamo ardentemente l’arrivo dell’autunno.

            Anche la campagna ne aveva risentito e aveva assunto dei colori bruciaticci; gli alberi in particolare stavano già perdendo le foglie aride e accartocciate. Giunsero finalmente le prime piogge a rinfrescare la terra e ogni cosa sembrò brillare in modo particolare come se un filo di tristezza si fosse posato su ogni luogo.

            Là, in fondo, fra il bosco e i campi, c’era un albero spoglio e ingiallito con accanto un canneto che, non essendo più stato tagliato, cresceva in modo anomalo a ciuffi disordinati e per metà secchi.

            Quella scena mi riportava indietro nel tempo e in altre stagioni della vita. Sentivo quel luogo e in particolare quell’albero come un amico immobile e fedele. Da piccola, con altri ragazzi, ci ritrovavamo là alla sua ombra a far merenda, ognuno col proprio panino e la bottiglietta dell’acqua e non mancavano giochi inventati, bonarie canzonature, storie di paura che i più grandi raccontavano per sentirsi importanti e assumere atteggiamenti protettivi verso i più piccoli spaventati e timorosi.

            Col passare del tempo nacquero storielle fatte di tenerezza e bacetti innocenti e l’albero sempre là fu punto di riferimento di incontri. Mi sembra di sentire l’eco di voci lontane: “Ci ritroviamo domani, stessa ora, ciaoooo!”

            Poco tempo fa mi è venuta voglia di ritornare all’albero con i miei nipotini e l’ho ritrovato più alto, più vecchio, come me, ma con rami allargati come se volesse abbracciare qualcosa o qualcuno. Un nido ormai vuoto si dondolava lassù in attesa della primavera l’albero amico di sempre e di tutti lo avrebbe protetto a lungo.

Appoggiarsi all’albero

Faticosa solitudine – di M.Laura Tripodi

La strada scelta era fra le più faticose, ma dicevano che sarebbe stata anche la più breve.

Invece la boscaglia ci aveva inghiottiti in sentieri che non si riconoscevano. Forse una volta erano stati dei tratturi, ma gli animali non c’erano più da tanto tempo e la vegetazione si era allargata in  maniera selvaggia, forse obbedendo a un  proprio disegno.

La giornata era nebbiosa e si sentiva l’umido che entrava nelle ossa. L’orientamento era andato, ma oltre gli sterpi si intravedeva una distesa azzurrina e immobile che poteva essere cielo o mare, o entrambi in un abbraccio confuso.

Si percepiva anche un profumo sconosciuto. Come lupi che fiutano l’aria cercavamo di riconoscere un aroma,  ma anche gli odori sembravano abbracciarsi e confondersi. Forse stavano imitando il cielo e il mare.

Affaticati e anche un po’ preoccupati ci fermammo per fare il punto della situazione. Era tanto tempo fa e l’unico strumento a nostra disposizione era un sole pallido e malaticcio che stava tramontando.

A ovest, dovevamo andare a ovest seguendo il cammino del sole.

Il gruppo si era riappropriato degli zaini, qualcuno si scuoteva la terra di dosso.

Appoggiata a quel solitario albero stecchito avrei voluto rimanere lì, anche io unica superstite in un deserto di sterpi, natura addormentata, fatica e solitudine. 

I resti dell’albero

Quel  che resta dell’anima – di Vanna Bigazzi

In un cielo madreperla

s’imprimono i resti dell’animo mio,

niente rimane di verde,

nessun movimento di foglia.

Da un arido letto di spine

uno scheletro a rami si erge,

severo, impone la sua maestà.

Pare che dica:

“Guardate, questo è rimasto…”

In tale deserto intristito,

canne gialle e spaurite

emettono uno sterile canto.