Albero secco

L’albero secco – di Stefania Bonanni

Non l’ho vista, la foto. Ma mi sono accorto che l’hanno scattata: io che svetto altissimo,  secco e solitario, alle spalle di un gruppo di canne fruscianti, sibilanti, sfrigolanti quando il vento le costringe a strusciarsi le une con le altre.

Era inverno, come adesso, io non cambio mai  in inverno. Sarei stato meno solo, fossi stato una canna. Sarei nato verde, con le radici nell’acqua fresca del fosso, radici vicine al tronco. Mi hanno raccontato che il fresco bevuto dalle radici arriva subito fino alle foglie in testa alla canna, fino al pennacchio, quando c’è. Invece le mie, di radici, affondano per metri e metri, in giù,  poi si ingobbiscono e qualche ramo risale, ma sempre lontano dal mio cuore, come fossero un’altra creatura. Non le sento. Lo so, mi alimentano,  Ma non mi parlano, non guardano fin quassù.

Le canne parlano in continuazione. Fruscianti, ridono, il suono non è  molesto, ma mi accende d’invidia. Soffro la solitudine.  Guardatevi intorno: per centinaia di metri, fin dove si vede, sono io l’essere più alto. Nessuno mi guarda negli occhi. Chi guarda in su, tutt’al più vede sotto la mia chioma, e non distingue granché : se c’è il sole resta abbagliato, se ho le foglie vede solo loro, se mi guarda perché seguiva il volo di un uccello che mi si è  posato addosso, non guarda me.

Ho occhi nascosti, mani nodose ricoperte di foglie, semi, fiori, ma solo alle estremita’, specchietti per le allodole, apparenza.

Ho cuore di legno, nascosto bene, corro il rischio mi venga beccato.

Ho pensieri di legno, concentrici. Nascono, crescono, girano su sé stessi , ma restano dentro.Sono quei cerchi  che quando morirò  conteranno. Diranno misurino l’età. Non è  vero. Sono pensieri, nati e morti in me. Pensieri di me, non ho conosciuto altro mondo.

Albero di ciliegio

Un ciliegio, un amore – di Roberta Morandi


Quando una foto ti porta lontano, un ciliegio in fiore ti offre i suoi frutti futuri.
Furono dei lunghi sguardi, intensi, forse inizialmente non complici. Sicuramente assertivi, poi, dopo, molto dopo arrivò la chimica, ma quasi mai le parole.
In fondo a che servono le parole se tutto è  già stato detto  dagli occhi, da quella luce che arriva fino al cuore, che dà spazio alla chimica da cui non puoi sottrarti.
Vorrei ma non posso, ma si che posso, no, non posso, non devo.
E perché mai non devo?
Figli dei tempi dove tutto si manifesta nel turbinio dell’evoluzione dei pensieri contrapposti alle  consuetudini dei padri che ora non contano più nulla, o forse ancora hanno un peso.
Coscienza, autocoscienza, sorellanza, indipendenza, ubbidienza, uniformarsi, ribellarsi. A chi, a cosa?
Facile quando si dice, quando è la bocca a parlare, belle frasi fra compagne, amiche, sorelle.
Agire è altro, senti il divario, la dicotomia che si configura nel mettere in atto un pensiero emergente ma non del tutto assimilato, compreso, condiviso.
Ecco condiviso.           
Chimica che scorre, ci raggiunge, ci travolge  e ci sorprende.
A pelle.
Il turbine dei sensi spinti da una forza incontrollabile.
Estasi irripetibile, terrena, le cui catene  avvinghiano  l’essere alla prigione dei corpi materiali.
Quanto tempo?
Infinito.
Un battito di  ciglia.
Le parole hanno un senso di verità, di complicità.
Si confondono e si frammentano nei giorni, negli anni. 
Le dita si intrecciano, gli sguardi s’incrociano più complici, le mani carezzano anfratti conosciuti, già esplorati eppur nuovi.
C’è  ancora del nuovo nella conoscenza, le parole si sommano alle conferme e tutto si fonde nella quotidianità. 

Albero scheletro

BRACCIA CHE CHIEDONO AIUTO – di Sandra Conticini

Questi rami spogli e piccoli sembrano le braccia scarne e magre di persone che non hanno da mangiare. Le alzano verso il cielo nella speranza che qualcuno si ricordi di loro e riescano a vivere ancora a lungo, insieme alle persone care e soprattutto  sperano che i loro figli riescano ad avere un mondo migliore e una vita più semplice.

La quercia grande

Muschio – di Patrizia Fusi

La mattina era serena, l’aria fresca, i primi raggi di sole un po’ ci riscaldavano, l’odore di erba umida mi entrava nelle narici. Vicino alle case coloniche l’odore della legna bruciata mi faceva venire alla mente focolari con fiamme guizzanti e il tepore che producevano.

Avevo le mani fredde ma ero felice di fare quella spedizione con mio fratello, il babbo e Lampo, il suo cane da caccia.

Arrivati a destinazione il paesaggio si modifica, si mischia fra bosco e campagna.

Tratti di quercioli spogli, rovi, erba secca sono sotto gli alberi, macchia di verde del pungitopo, Lampo gira festoso tutto intorno, ha il naso rivolto in terra fiuta odori di altri animali passati di li, quando si allontana troppo il fischio del babbo lo fa tornare subito ubbidiente.

Il mio paniere e quello di mio fratello sono semi vuoti abbiamo trovato pochissimo muschio, il bosco è troppo secco.

Inoltrandoci più in fondo ci troviamo davanti a un grande quercia, che è accerchiata da rovi, erba, ciuffi di canne secche, tutto dorme, il sole filtra tra i rami e forma spicchi di luce sul terreno dove cadono, uno di questi batte sopra ad un piccolo prato di muschio alle radici della grande quercia, i nostri panieri in pochi minuti si riempiono.

Nel ritorno ci fermiamo alla casa del contadino amico del babbo, deve fissare con Gino dove trovarsi per andare a caccia alla lepre, vanno di notte ora che la luna è piena.

 Entriamo nella grande cucina, nel focolare un cumolo di tizzoni con una piccola fiammella tiene tiepido l’ambiente, il tepore ci riscalda. L’Assuntina offre a noi ragazzi dei tozzetti con le mandorle, al babbo e a Gino anche del vinsanto, Lampo si è accucciato tranquillo sotto la tavola.

Arrivati a casa iniziamo a distendere il muschio per il nostro primo presepe, discutiamo un po’ con mio fratello per come disporre i personaggi, se mettere o no la neve, cotone idrofilo o farina?  Troviamo un accordo, alla fine il risultato non è granché anche perché i personaggi sono di cartone piuttosto bruttini.

 Però siamo stati con il babbo, per tutta quella mattina.

Il loro albero

Il loro albero – di Nadia Peruzzi

Era da sempre il loro albero.  Piaceva a tutti e due quell’intrico di rami e arbusti che cambiavano colori e profumi al mutare delle stagioni. 

Era il luogo dei giochi e dei segreti.  Quello nel quale potevano essere come erano nella realtà.  Senza doversi nascondere alle occhiatacce altrui, alle espressioni ammiccanti, a quelle cattive che spesso li accompagnavano quando se ne stavano insieme in una complicità e in una sintonia come ce n’erano poche. 

Gli stessi gusti, gli stessi libri, gli stessi film lo stesso sguardo disincantato sul mondo e sulla vita e la curiosità che li muoveva a sperimentare e a lanciarsi in avventure sempre nuove. 

Era arrivato per loro il tempo della pittura a portarli nuovamente su quel sentiero.  Era una giornata grigia e fredda come il loro umore. 

Tuttavia avevano osato lo stesso dirigersi verso l’albero immenso e spoglio e l’intrico di sterpi che sembrava aver perso tutta la vita delle stagioni migliori. 

Nemmeno una gemma ad impreziosire i rami.  Era il punto dell’anno in cui la morte sembra avere il sopravvento e la natura non sa darsi ancora modo di aprire la strada ad una nuova storia. 

Si piazzarono davanti ai rami sparuti tentando di trarne una immagine che avesse un che di rassicurante e confortante. 

L’intrico che li circondava faceva tutt’uno con quello delle loro coscienze e dei loro sentimenti. 

Non era un momento di gioia per nessuno dei due.   Francesco sarebbe partito di li a poco.  Aveva trovato lavoro all’altro capo del mondo.   

In quel luogo spoglio di vita avevano ritrovato il clima giusto per celebrare un addio. 

Dipinsero fino a che la luce resse. 

Poi se ne tornarono mestamente a casa , con il dipinto sottobraccio.  Nessuno dei due ebbe voglia di mostrarlo all’altro.   Nessuno dei due aveva mai compreso bene il perché di quella scelta. 

Solo a distanza di anni un amico andando a far visita a Francesco trovò la chiave per una possibile spiegazione.  Il quadro di Francesco, nonostante tutto, risplendeva di colori, di atmosfere positive.   Erano colpi di pennello forti, netti, quasi a volersi liberare dai lacci che lo legavano ad un presente che gli stava andando sempre più stretto. 

Quello che era appeso nella casa di Giulio era spento, vuoto, grigio.   Trasudava solitudine e incapacità di pensare e immaginare il futuro. 

Albero triste

ALBERO di prugne triste e solitario – di Mimma Caravaggi

Mi hanno dimenticato ! Sono qui solitario come non mai, attorniato da erbacce secche e invadenti senza neppure un piccolo fiore a rallegrarmi. Ho appena iniziato a muovermi e a mettere fuori le piccole cime di gemme, chissà cosa avverrà se riuscirò ancora a produrre frutta.   Il momento più bello è quello della fioritura e poi la crescita della frutta molto più saporita di quella di qualsiasi mercato che ormai non sa più di nulla, senza sapore. La mia frutta è zuccherina, polposa, invitante, fa venire l’acquolina in bocca al solo vederla. Ero circondato da tanti amici, tutti alberi da frutta : meli, peri, susini, ciliegie, albicocche e dalla primavera all’estate era una gioia per noi e tutte le persone che stavano sotto di noi cogliere la nostra frutta e mangiarla avidamente con canti animati e grida di gioia dei bambini che volevano arrampicarsi sopra di noi. Che bei ricordi! E si, solo ricordi perché il tempo e con l’inquinamento tutto si è pian piano deteriorato. La terra non da più il giusto nutrimento mancando i bachini che provvedevano a tenere areato il terreno, la pioggia si è fatta acida così tutti i miei compagni pian piano, sono stati abbattuti e sono rimasto solo io ma per poco perché inizio a sentire la mancanza di acqua buona, rospetti e bachini che sono migrati chissà dove e qui non è rimasta altro che erbaccia che non muore mai ma che ora mi sta soffocando. Peccato le mie prugne erano squisite e ora hanno anche loro perso il buon sapore. Cosa mai ci faccio più qui solo che neppure un cane viene a fare pipì ? Che brutto il mondo senza prugne buone e succose!

L’albero nel parco

L’albero – di Cecilia Trinci

L’inverno aveva saltato il turno quell’anno. Forse perché voleva aggiungere altra inquietudine a quella che già serpeggiava. L’albero aveva comunque perso le foglie. Lentamente, sottovoce, soprattutto durante le piogge che avevano massacrato la fine dell’autunno. Nessuna esplosione di colori quell’anno, nessun cielo terso in trasparenza, poche mattine di leggera brinata ed eccolo lì il noce maestoso, contorto da mille piegature di rami, eppure alto, glorioso, allungato verso un cielo bigio e soffuso da una  promessa di sole. Gli altri inverni invece c’erano stati. Difficili, pieni di vento e buriane, gelati e bui fino alle Pasque primaticce. Avevano coperto di legno i gomiti duri, addolcito gli spigoli delle ramificazioni. Erano le deviazioni, le crescite, i cambi di programma, le strategie e le perdite che gli avevano dato quella forma, tutto sommato, a vedersi così,  aggraziata e tondeggiante come fosse stato in un giardino.

Era in un parco pubblico invece e non gli dispiaceva non appartenere a nessuno in particolare e sentirsi di tutti in generale. Le noci se le erano mangiate: i passanti con i sacchetti, gli scoiattoli con le code al vento. Non credeva ne fosse rimasta qualcuna per la discendenza. Invece sentiva che i rami dovevano nascondere diversi nidi, o almeno approdi comodi per tutti quegli uccelli che si fermavano a tratti. Erano tutti quei canti che nella foto non erano compresi ma che invece davano vita a quel quadro potente. Dal vivo, i rami vibravano non solo per la  brezza ma anche per i voli, per quel posarsi frettoloso in punta in punta, per quel dondolare squilibrato ora a destra ora a sinistra per guardare un obiettivo, per scoprire una preda.

Si sentiva una spalla. Le spalle servono per abbracciarsi, per appoggiarsi. Per trasportare.  Per pensare. Era così che si sentiva e quel salire su sempre più su ogni anno, sempre più vicino al cielo lo rendeva orgoglioso.

Tra poco ci sarebbero state gemme e poi fiori e foglie. E alla fine frutti grossi e verdi.

Forse l’estate sarebbe stata dura. Ormai lo era sempre da anni. Molto più cattiva di quegli inverni che non venivano più. Avrebbe avuto sete e caldo e avrebbe implorato la notte rossastra sempre troppo corta. Avrebbe dormito solo un po’ sul far della mattina con i primi chiarori. Avrebbe visto albe sempre più arancio e viola e fumi della terra in controluce. Silenzi di uccelli stremati.

Il silenzio soprattutto era cresciuto negli ultimi anni. Lo stupore della terra spaventata, la sonnolenza della gente nascosta. Solo cani abbaiavano in lontananza e non volevano aggiornarsi nelle aspettative.

Eppure l’albero aspettava, le canne gli facevano il solletico, i rovi alle spalle lo proteggevano dal grecale e  da lassù guardava in lontananza. Forse vedeva il mare…….

Albero d’inverno

Il vecchio olmo – di Carmela De Pilla

Fili che si intrecciano, si incontrano per dare vita a ricami preziosi, unici e sullo sfondo un cielo a volte limpido e trasparente a volte annuvolato e turbolento proprio come la mia anima.

È sempre stato lì il vecchio olmo, oltre la siepe, imponente e vigoroso, generoso nel donare la sua ombra in quelle giornate afose e soffocanti, ancora oggi osserva e protegge la vita di ognuno di noi come un vecchio padre.

Ne sa qualcosa Piero che si ripara dal caldo violento ai suoi piedi e lui accoglie le sue fatiche, lo rassicura e gli dà nuova forza.

L’ho sempre visto lì il vecchio Piero, curvo sulle spalle, il volto scavato dalle rughe, ma ancora forte e robusto, generoso nel regalare un sorriso a tutti.

Non apparteneva a nessuno il vecchio olmo, era nato e cresciuto in un campo ormai abbandonato, la sua corteccia rugosa scavata da profondi solchi era la testimonianza della sua lunga vita.

A mezzogiorno in punto, dopo ore di lavoro nei campi, come un rituale che si ripeteva da anni si ritrovavano uno accanto all’altro come due vecchi amici,  Piero tirava fuori dalla sacca il suo panino e la borraccia con del buon vino e si godeva quell’attimo di riposo all’ombra della grande chioma.