Scorre fragile, come un sogno la mattina, quando stai per svegliarti e girandoti nel letto assaporando l’eternità del comodo tepore, fai appena in tempo ad accorgerti che tra pochi istanti la luce del giorno allagherà il tuo letto. Scorre fragile, Aprile, e la sua primavera giovanissima promette stupori ogni anno inauditi: le acacie si vestono da sposa nei balzi e nei dirupi, attaccandosi a piccoli pezzi di terra scontrosa e spruzzando a largo ciuffi di fiori bianchi. I fiori rosa degli “alberi di Giuda”, quelli viola del lillà e del glicine, si fanno strada tra le foglie, dentro macchie di verde intenso mentre le rose riprendono lo scettro nei giardini.
Visto da qui Aprile fa uno strano effetto, oggi, di ritorno dal pronto soccorso dove si è consumato un lieto fine non scontato. Aprile morbido, lento, che scivolando sopra i tetti delle case di questo paese a volte rifiutato, spesso troppo scontato, mi accarezza perdonandomi le incomprensioni e le insofferenze e canta musiche di uccelli grassi sopra i rami secchi dell’abete. Aprile che rabbrividisce nelle piogge esagerate quando il sole si nasconde e spegne il riscaldamento dentro un cielo cupo sopra un mare bianco.
Fai un dolce effetto Aprile e non ti vedo, oggi, come un’inutile attesa di stagione, un tradimento di certi giorni bollenti che ci avevano fatto nascondere coperte e copriletti. Ti vedo gentile, sfumato in mille colori, pieno di suoni, di pensieri leggeri, di ricordi teneri, con la tua Pasqua in mezzo che ogni anno gioca a nascondino e non si sa mai, a colpo, quando arriverà senza guardare il calendario!
Quest’anno Pasqua con i miei bambini, con i loro giochi esplosivi e con quel sognante “tutto” come risposta alla domanda “Cosa ti è piaciuto di più Simone di questo giorno?”. Festa leggera con il mare freddo e il cielo celeste ma con i piedi in acqua e corse da levare il fiato. Quando siete partiti Aprile si è fermato, sospendendosi nell’aria e poi ha ripreso a camminare piano, per non sciupare l’eco dei giochi, delle risate, dei piccoli capricci, della gioia imprendibile dei vostri piedini….
Ho pensato a voi, due giorni dopo, nella sala di attesa del pronto soccorso: non potevamo deludervi facendovi sentire troppo presto quanto sia fragile la vita in questo fragile Aprile leggerissimo…
Venerdì 26 aprile 2019, giornata perfetta per un bel “ponte”. Ma io no. Ho fatto già un paio di giorni di ferie, altri due li farò presto e allora vado a lavorare per permettere ad altre colleghe di godersi un po’ di riposo. Sono fatta così, c’è poco da fare.
Non lo sapevo, ma quel piccolo sacrificio nascondeva già, dentro di sé, una grande ricompensa.
Mattinata indaffaratissima, c’era da aspettarselo. Meno siamo, più c’è da lavorare. Non importa, ci sono abituata, cerco di essere gentile con tutti e di dare risposte, se ce n’è.
Verso le 11 una coppia si affaccia timidamente alla mia stanza, mentre sto finendo con una famiglia indiana: lui ha un bel sorriso, la pelle ambrata dal sole. Lei, volto curato, vestita bene, un leggero velo in testa, color cipria, regge in mano qualcosa, avvolto in un foglio trasparente. Chiedo se hanno un appuntamento per ricongiungimento familiare. Lui balbetta “sì, no, lei arrivata ora in Italia”, riferendosi alla moglie. “Bene, allora vi prendiamo subito un appuntamento. Ci pensa questa bella ragazza, Aneela, la mediatrice culturale.” “Noi.. aspettiamo”, mi risponde lui, poco convinto. “Va bene, un attimo e arrivo”.
Saluto la famiglia indiana e mi alzo, vado incontro alla coppia, che molto educatamente è rimasta immobile nel corridoio.
“Noi… vogliamo ringraziare”, riprende lui, e di nuovo un bel sorriso gli si apre sul volto. Sono perplessa. Lui mi sembra di averlo già visto, lei di sicuro no. E sono certa di non aver fatto niente di particolare per queste persone. Provo a chiedere, con delicatezza: “Per che cosa?” La signora, sorridendo con tutto il volto, in risposta mi porge il fagotto che tiene in mano. E’ una buffa pianta succulenta, tinta di rosa fucsia sulle foglie ma verde al centro, avvolta in un tessuto rosa e infilata in un calice di vetro. Il tutto protetto da un foglio trasparente, di quelli che usano i fiorai, con in cima un bel ricciolo color rosa baby. Un po’ kitsch, forse, ma particolare. C’è persino una mollettina di legno che tiene un bigliettino. “Leggi”, mi invita lui. Poggio il fragile involucro sulla scrivania e prendo il bigliettino. Dentro, scritto in una delicata e bella grafia, solo la data di oggi e due parole: GRAZIE ITALIA. Sotto, la firma, Zuhra S. Un’emozione intensa mi sale dal cuore. Grazie Italia… non è me che vogliono ringraziare, né il o la collega che ha trattato la loro pratica, non una persona in particolare, il loro gesto vale molto di più, vogliono assolutamente esprimere riconoscenza verso un Paese intero. Mi giro verso di loro. Aspettano la mia reazione. Il volto di lui mi è sempre più familiare, e infatti: “Io sette anni qui, asilo politico, ti ricordi?” Sì, pian piano qualcosa mi ricordo. “Da quale Paese venite?” “Afghanistan” Ecco, mi sembrava… arrivò che era impaurito, affamato, sporco, i vestiti laceri e soprattutto chiuso in se stesso dalla paura. Il viaggio, in gran parte a piedi, dall’Afghanistan, vuol dire attraversare il Pakistan, poi l’Iran, arrivare in Turchia e là, ad Istanbul, attaccarsi invisibili sotto ad un tir e con quello imbarcarsi su una nave, sperando di resistere durante la traversata e di non esser visti. Poi, finalmente, da qualche parte in Italia, scendere e tornare di nuovo ad essere visibili. Ma poi?
Venne, sette anni fa, a chiedere asilo accompagnato da un “kebabbaro” della zona del mercato centrale dal quale, affamato, era entrato, e che, come lui, parlava farsi.
Mi sorride ancora. “Noi vogliamo dire grazie a Italia, tutta Italia, fatto tanto per noi, ora mia moglie è qui, noi diciamo grazie.” Non so se sono più commossa o imbarazzata. Per togliermi d’impiccio cambio discorso: ”e… come va, lavori?” “Sì, io poto ulivi, piante… agricoltura. Prima Castelfiorentino, ora voglio andare a Poggibonsi, c’è più lavoro, voglio prendere una casa per noi.” “Bene, mi fa piacere, e mi raccomando, fai studiare l’italiano a tua moglie, lo sai che è importante.” La signora mi guarda e mi sorride. Ha degli occhi così profondi e aperti, in pace, che non si può fare a meno di lasciarsi catturare. Vorrei dirle qualcosa, ma non posso. Le cinque lingue che parlo non servono a niente, in questo momento. Mi sento così inutile! “Ora la collega vi prende l’appuntamento, ci vediamo presto. Grazie della pianta, la porto a casa così penso a voi.” Di solito sono restia ad accettare persino un cioccolatino, perché non voglio che si creino malintesi, ma stavolta è diverso. Non posso non accettare questo dono, che non è per me, è per l’Italia tutta! Significa “grazie perché siamo essere umani e ci avete accolti, riconosciuti e trattati come tali, consentendoci di esercitare il diritto di chiedere asilo, prima, e poi il diritto all’unità familiare”. Diritti sanciti dalla nostra Costituzione, che a noi sembrano dover essere garantiti a tutti, automaticamente, ma troppo spesso ci scordiamo che invece non è ovunque così, anzi, quasi da nessuna parte.
Nel salutarli stringo loro la mano. Quando la signora prende la mia fra le sue sento un calore incredibile, fortissimo, che si trasmette a tutto il mio essere. E’ un calore che mi fa bene, perché è sincero. E’ un calore che viene dal cuore, da essere umano a essere umano. Inaspettata sorpresa del “Ponte” mancato!
…ecco si, mi accoccolo sul divano, sperando di potermi rialzare con facilità, prendo il tablet e scribacchio, così senza pensar troppo, come se parlassi per telefono con l’amica di sempre. Come quella che è apparsa ieri pomeriggio con un dolce della sua tradizione, una cosa “ovosa” e “ coloratosa” che sapeva di bimba, di mamma, d’ infanzia mai dimenticata, di una Sicilia sua, scolpita nel colore dei suoi occhi, nella sua carnagione…è stanca lo so, ci conosciamo così bene da sapere anche ciò che non diciamo, prevediamo le risate, le lacrime una dell’ altra…
Ha fatto per me una cosa dal nome astruso “ cuddura coll’ova” un cestino di pasta frolla , con l’uovo sodo, con il guscio ed i coriandoli di zucchero…..dice che si è rilassata nel farli, ha dimenticato un po’ di affanni…ed io le credo a metà, ma ne son contenta…
Stamani ricordo i miei ieri, tra le Pasque da ridere, quelle da piangere, il cestino siculo non c’è più, ce lo siam pappati con anticipo…mentre il telegiornale snocciolava brutte notizie…… l’ho sostituito con i ricordi, quelli senza data, senza doti particolari, il pane azzimo con lo zucchero, una torta di spinaci e uova sode, che di Pasqualina aveva poco, più sformato ….molto “sformato”…un vino buono che: A PASQUA SI BEVE… e poi la mamma lo lasciava in frigo xchè con il vino ci si cucina….diceva lei, che era astemia, come me…i fiori della Sora Eva la fioraia…che te li do …tanto dopo pasquetta “ un il vendo” , il sud dei miei vicini di casa, quando ero già grande pur essendo piccola, il sud dei miei suoceri, tra pastiera, casatiello, ed incomprensioni che oggi, che è tardi mi sembrano inutili…
Tutti in fila stamani i ricordi, un appello senza ordine alfabetico…senza date che non ricordo mai…le Pasque in cui rinnovavo una gonna, quelle in cui mi rompevo due dita battendo la mano nel muro…le Pasque Aliciose, con coniglietti di cioccolato, che non mangiava per non sciuparli, le Pasque in quel di trespiano…e non era una gita fuori porta…le prime fughe in campagna…con un letto più cuccia che altro…..ma indimenticabile…le Pasque a lavorare, dieci ore pagate così bene da vergognarsi a prenderle…
…ora basta, è il 21 aprile è Pasqua….le altre le ripongo, ma non le chiudo a chiave, ne ho bisogno x essere io, erano e sono pezzi di pane…che non son mai diventati pangrattato polveroso ….
…..Ho mia figlia con la sua compagna alla porta, amici che arrivano, altri che telefonano….e che prima di dire Auguri, mi chiedon come sto….la carne cuoce….cuoceeeeee????? Nooooo bruciaaaaaa
Siamo sicuramente in tanti ad avere ricordi legati a Notre Dame. Per me è stata i viaggi con le persone più care, i miei amori, in vari momenti della vita, perché a Parigi ho avuto la fortuna di andarci più volte. Tra tutte, oltre alla Parigi incantata con mia figlia che mi insegnò il suo trucco personale per guardare la Tour Eiffel e non dimenticarla più, mi ricordo quella del 2004, che ospitava i Campionati Sperimentali di tiro con l’arco per non vedenti. Nella foto i nostri campioni: Vincenzo Andreozzi, Alessandro Tanini, Giacomo Montanari e Barbara Vetere. Con me anche Arianna Donati.
Fino a lunedì scorso eravamo tutti convinti che certe cose, certi monumenti, certi simboli esisteranno in eterno e siamo noi che casomai le abbandoniamo. Le dimentichiamo o le mettiamo da parte o semplicemente lasciamo questa terra, come ha fatto troppo presto Vincenzo, che quel giorno della foto si sentiva vincente e immortale. Invece niente è per sempre e tutto è molto fragile. Può bastare un fiammifero, un batterio, un lampo e di quello che amiamo può rimanere all’improvviso solo un mucchietto di cenere nera.
Mi sentivo importante perché ero a Parigi da sola. Mi guardavo attorno e mi ripetevo continuamente: ecco, sono a Parigi, io sono qui, fermalo l’attimo, rendilo così forte e intenso da non scordarlo mai! Venivo dalla provincia di Firenze e lo spazio che vivevo era conosciuto e delimitato quotidianamente. Quindi pur essendo in una grande capitale, per sicurezza e abitudine cercavo sempre di avere i luoghi dove recarsi ogni giorno per ritrovare familiarità. Ed era la piazza della cattedrale di Notre Dame che avevo scelto per sentirmi a casa. Se volevo potevo ritrovare l’amore del giorno prima, gli amici per bersi una birra oppure per suonare la chitarra e cantare. Anche se è passato più di quarant’anni ho ancora dentro quelle emozioni, quei momenti, eravamo noi magici e magico era l’ambiente che ci abbracciava, Notre Dame.
Il 15 aprile davanti alla televisione invece non mi sentivo
importante ma fragile ed inerte così come lo era la mia Cattedrale che bruciava.
Guardavo e mi ripetevo, è solo un sogno, oppure un film surreale, non è realtà,
non cogliere l’attimo, non fermarlo, mettici un’ovatta tra te e quello che vedi
, è solo immaginazione. Poi la mattina del giorno dopo mi sono svegliata. La
notte non avevo sognato!
Scrivo di getto solitamente. Lascio
che la scrittura fluisca e riempia a poco a poco la pagina bianca.
Faccio fatica con questa
“leggerezza” che costringe a scavarti dentro ed è un tema che mette a nudo
parti di te che tendi a proteggere. Esce per immagini senza un filo di
continuità. Pezzi che si aggiungono a pezzi nel dipingere un percorso di vita, lineare
per lo più, a volte contrastato, accidentato e con momenti venati da dolori
profondi. Un percorso che si snoda per spazi conquistati nei quali decidiamo di
volerci bene e accettiamo di non essere troppo severi nel giudicare noi stessi.
Siamo somme di storie e noi
stessi siamo dei crocevia per altre e altre ancora. Ci portiamo addosso abiti
cuciti bene o male, che contesti, epoche, educazione, sentimenti ed esperienze
han confezionato per noi. Dalla trama iniziale ne cuciamo di nuove :siamo
insieme tradizione, conservazione, ma anche evoluzione e cambiamento.
Se guardo a me e alla mia
famiglia come in una istantanea, vedo bene che la leggerezza non è stata
compagna abituale e ancella.
Una frase mi appartiene e ha
appartenuto a tutti noi. Una frase di quelle che senti in un film e sono uno
spaccato di vite. “Tutto quello che succede nel mondo, non succede a te
personalmente”.
Io, noi avevamo il mondo dentro
casa. Arrivava a folate con la radio che amplificava le notizie degli anni 60 i
primi di cui abbia un ricordo nitido. Portavano echi di popoli che si liberavano
da antiche schiavitù e servaggi coloniali e ti ritrovavi Algeri nel cuore, anche
prima di aver visto il film di Gillo Pontecorvo mentre sentivi alzarsi il canto
di rivolta delle donne algerine nella casbah.
Sono nata nel 1952, a scriverlo
ora mi rendo conto che dalla fine della guerra erano passati appena 7 anni. Nata
da genitori che quella tragedia avevano attraversato portandosi dentro
cicatrici esorcizzate in vario modo anche con la scelta di vita che era stata
di entrambi di dedicarsi completamente
all’attività politica. Uniti nella passione di cambiare lo stato di cose
presente ,per evitare di ripiombare nel tempo buio che era stato il loro. La
politica ancora era bella, era impegno collettivo e missione in chi vi si
dedicava. Quel tempo di vita dedicato
agli altri ,era spesso sottratto agli affetti domestici ed era un po’ il prezzo
da pagare. L’orario di lavoro non era quello di semplici impiegati. Iniziava la
mattina presto ,finiva spesso a tarda notte .Capitava spesso che ci si vedeva
tutti insieme solo per cena.
La dimensione dell’impegno, il
lavoro anche su sé stessi, il mettersi in gioco superando limiti di non poco
conto erano la cifra .Mio babbo ha vissuto una vita da timido per l’essenziale
eppure riusciva a tenere i suoi comizi senza che la voce avesse un minimo
cedimento di fronte a folle anche numerose .che stavano li appese alle sue
parole e ai suoi argomenti, convincenti e trascinanti
Gli capitò a Livorno nel 1953 di
sostituire Berlinguer e la folla era oceanica davvero a rivedere la foto
dell’evento. Lui di quel momento amava raccontare, con occhi che ridevano e
senza alcuna spocchia, la parte più buffa. I presenti si domandavano quando e
quanto fosse ingrassato Enrico, scoprendo solo dopo che non era stato lui a
parlare da quel palco.
Era bravo a staccare la spina il babbo.
Anche nelle dispute domestiche lasciava che la mamma si sfogasse ,e intanto
fischiettava o canticchiava. Per finirla lì la discussione se non ne valeva la
pena, ,lasciando che sbollisse da sola. Era il suo modo di mettere la giusta
distanza dalle cose della vita che potevano creare attriti e negatività. Era
solidamente positivo.
La mamma no, lei la vita l’ha
sempre presa maledettamente sul serio. Non si lasciava andare facilmente. Forse
perché si portava dentro un dolore bambino di chi ha perso sua mamma a 9 anni.
L’espressione un po’ severa che
la contraddistingueva era solo una maschera a copertura di una fragilità che in
vecchiaia ha avuto modo di emergere .
Mi rendo conto che per arrivare a
me ho dovuto fare affidamento ad un prologo anche troppo lungo.
Ma nel viaggio di cui siamo tappe,
quello che collega una generazione all’altra, non si può evitare. Almeno credo.
Siamo l’aria che abbiamo
respirato, le cose ascoltate anche senza averne piena consapevolezza, la
saldezza di principi, la modestia e la voglia di far bene e di migliorarsi che
hai visto praticate come esempio. Spesso, negli ultimi anni vissuti senza mio
padre, mia mamma si lasciava trascinare
nel vortice della tristezza per ciò che vedeva attorno a sé. Il senso di un
fallimento non solo collettivo pure personale. Lo viveva con pesantezza.
Cercavo di consolarla con una
battuta .Ammettevo il peso che da figlia avevo dovuto sostenere, almeno fino al
momento in cui come loro mi ero ritrovata ad abbracciare lo stesso percorso e
lo stesso tipo di impegno. Confessavo
poi, anche sorridendo, che in fondo quel peso non doveva esser stato così
enorme se avevo deciso di non passare ad altre sponde, o di spiaggiarmi su
altri e opposti lidi.
Spesso riguardavamo le vecchie
foto. C’era leggerezza nelle scampagnate domenicali o nelle vacanze in montagna
nell’entroterra di Genova dove mia mamma aveva vissuto durante la guerra.
Vacanze semplici, come semplice
era il paese .Le famiglie che si ritrovavano anno dopo anno erano spesso imparentate
per fili lontani e la vita scorreva in combriccola. Il babbo che giocava a
bocce e faceva sorridere con le sue battute sornione i giovani che gli stavano
attorno, la mamma che giocava a carte al bar del paese. Poi a dominare era la
pace che conquistavi nel cammino verso il crinale. Rimanevamo ogni volta
sorpresi dal brilluccichio del mare dalla parte di Genova, e dalla mezzaluna
delle cime innevate delle Alpi, quasi sospese nell’aria, che dopo un temporale
risultava nettissima.
La fatica non esisteva quasi e si,
in quei momenti, eravamo solo noi tre e nessun altro a parte la natura e quel
verde che anche in piena estate non cedeva al solleone.
Dopo gli anni passati ad
inseguire una perfezione che non esiste accompagnata dalla insoddisfazione che
ne consegue, la leggerezza della mia età adulta è sentirsi tranquilla nei
vestiti che indosso oggi accettando il pacchetto completo ,pregi e difetti
compresi. Consapevolezza del proprio essere imperfetti accettandolo in tutta
tranquillità. Leggerezza è sentirsi dentro un contesto di valori senza
lasciarsi inchiodare da certezze trasformate in assiomi, ricerca continua e
apertura ai cambiamenti. A tutti anche quelli brutti che destabilizzano e fanno
veramente male, ma a cui non puoi dare il permesso di affondarti in nessun
modo.
La morte di mia mamma ha fatto
riemergere tutti gli altri lutti. Lame di dolore a ondate con al centro il dolore più grande quello
della perdita di un marito di 45 anni che mi ha vista costretta ad indossare due vesti, anche quella di padre.
Leggerezza a volte è decidere che si deve indossare una maschera che parli
di normalità e continuazione di vita ad
una bimba di 11 anni per provare ad andare avanti nonostante tutto.
Leggerezza erano i viaggi che
abbiamo fatto insieme in macchina. I paesaggi ci venivano incontro come una
pellicola che srotola lentamente i suoi fotogrammi portando gioia ad ogni
cambio di scenario. La tensione di lasciare il già conosciuto per l’ignoto si
stemperava fino a svanire del tutto, e ad un certo punto non pensi ad altro che
a quella dimensione di benessere che provi per il solo fatto di viaggiare, il
bello era anche nelle soste improvvisate senza lasciarsi determinare dalla
fretta o dall’incalzare del tempo.
Leggerezza oggi è saper
riconoscere quando un vortice ti sta portando al limite. È saper decidere di
staccare la spina. Il mondo oggi riesco a tenerlo fuori molto più di un tempo. Forse
èproprio del mio tempo da anziana pensare in grande ma riuscire a piegarsi sul
piccolo, su quello più vicino a noi.
Figli e nipoti ad esempio che
cerchi di vivere qui e ora e il loro futuro sarà quel che sarà, anche se ci
provi sempre a cambiare le cose perché possa essere diverso.
Ma non lasci che sia il tuo
pessimismo analitico a prendere il sopravvento. Trovo salutare tralasciare
giornali e notizie tv, lascio scorrere titoli e immagini lasciando che
scivolino come l’acqua di marzo, quella che non entra nel profondo. Non è
disimpegno, ma prender fiato, quando serve e quando si deve.
La leggerezza è quella che ho
sempre trovato e provato con i libri fra le mani. Quelli che portavano fra i
pirati della Malesia, e nella foresta di Sherwood, fra i borghi abitati dalle
streghe delle Novelle di Calvino, molto più vicini a noi e al nostro mondo e
pure non meno fantastici e fantasticati. Adesso ci sono quelli che fanno
pensare e ci devi tornar su per capirli meglio, quelli che aprono a nuove
prospettive, quelli in cui trovi spazi di ilarità e ti ritrovi da sola a ridere
come una scema.
Adesso ho trovato un mio spazio
di leggerezza nella scrittura .Man mano dai cassetti di fondo un po’ coperti di
polvere e di incrostazioni di vario genere a ondate e per guizzi riescono ad
emergere spunti e idee buffe ,in un
misto di realtà e finzione che a rileggerlo fa star bene.
Più difficile mettere a nudo sé
stessi. La propria sfera privata resta li dove sta. Ne escono sprazzi di
ricordi che sono consolatori. Uno in particolare si fa strada in questa ricerca
per dare un senso ad una parola complessa come leggerezza.
Ci muoviamo tenendoci per mano. Un
gesto che veniva dal profondo e che ci piaceva tantissimo. Irene era
inizialmente per mano ad uno dei due. Bastava poco e in una sapiente mossa di
aggiramento si piazzava esattamente in mezzo guardando divertita prima l’uno poi
l’altro. Quando eravamo un trio.
Accarezzai mia madre con un pettine – di Vanna Bigazzi
In un lavoro di qualche anno fa faccio un parallelo fra mia madre, all’epoca vedova da anni, e l’interprete principale del film: ”Tutte le mattine del mondo.” Il tema che li accomuna è “la passione.” Come per il signor De Saint Colombe, la morte del coniuge l’aveva irrigidita e resa incapace di esprimersi affettivamente. Dal colore freddo dei suoi occhi traspariva la passione: la passione che aveva per me, suo unico oggetto d’amore. Rarissimo il sorriso sulle sue labbra, rigido il suo corpo che si sosteneva ad un bastone, ma come mi appariva morbida la sua immagine quando toccai le sue membra pietrificate dalla morte… La sua passione per me era qualcosa di molto nascosto, una passione che se dichiarata avrebbe sorpreso tutti come quella confessata dal signor De Saint Colombe: ”è la vita appassionata che conduco…” “Conducete una vita appassionata?” chiedono stupiti l’allievo e le figlie. Il suo amore, quello di mia madre, si poteva solo intuire: ”pettinami i capelli con la spazzola” mi chiese alcuni giorni prima di morire. Equivaleva a dire:”accarezzami in qualche modo, usa uno strumento, non importa che mi tocchi.” La pettinai, le dipinsi le unghie di rosa e le massaggiai le gambe, tutte cose consentite. Lei era contenta ma per abbracciarla e stringerla ho dovuto attendere la sua morte. Con la sua morte uscì fuori tutta la mia passione per lei. La vita castigata e isolata del signor De Saint Colombe gli permetevano di non far languire l’immagine di sua moglie. Ella permaneva nel suo ricordo, il sussurro della sua voce viveva con lui. Per questo sognò di penetrare l’acqua oscura e dimorarvi: la tentazione di permanere nel ricordo; cercare così quella comunicazione mancata rinunciando per questa a tutte le cose, così in tale follia, anche per me qualcosa si sarebbe compiuto. Il signor De Saint Colombe comunicava con le figlie attraverso il linguaggio della musica dei loro concerti. Là tutti e tre esprimevano il grande sentimento che li legava, l’intesa e non c’era bisogno di parole, le parole poi non possono sempre riuscire a parlare: ”la musica esiste solo per parlare di cui la parola non può parlare, in tal senso essa non è del tutto umana.” La musica può esprimere l’inesprimibile, l’intoccabile: ”Si dovrebbe lasciare un bicchiere ai morti, un piccolo abbeveratoio per coloro che il linguaggio ha disertato, per l’ombra dei fanciulli, per addolcire le martellate dei calzolai, per gli stati che precedono l’infanzia quando si era senza respro e senza luce.” E ancora: ”Vi tengo per il vostro dolore, non per la vostra arte.” Dalla durezza può uscire la grandezza dei sentimenti, quelli veri: ”Ho affidato la mia vita alla natura, alla musica e alle mie figlie” risponde il signor De Saint Colombe al messo del re e ancora alle figlie: ”Io non trovo piacere nella compagnia della gente, né in quella dei libri ma vi amo entrambe e questo vi basti.”
“Abitare la casa intelligente! La casa del futuro!”, così diceva la pubblicità e decisi di non lasciarmela scappare.
Così eccomi qui, nella prima mattina dopo il trasloco a godere le gioie del
caffè bollente e delle brioches appena sfornate senza aver alzato un dito.
Pensa a tutto Hal nella nuova casa. Hal, il sistema centralizzato e computerizzato che da ordini a tutto. Appena ho voglia di fare la doccia lei zampilla alla temperatura perfetta, quando devo prendere i vestiti le porte degli armadi si aprono, le luci mi accompagnano di stanza in stanza. Musica diffusa ovunque, la tv 50 pollici si attiva e si collega solo per le trasmissioni che corrispondono al mio stato d’animo del momento.
Nessun patema, né ansie, o eccesso di fretta. Tutto scorre placidamente.
Quando sono ancora fra il sonno e al calduccio sotto le coperte sento già l’aroma del caffè e del pane appena tostato che invade casa e sinceramente la cosa non ha prezzo. Quando torno dal lavoro la porta di casa si apre da sola senza che debba perder tempo a cercar la chiave dentro la borsa, una piacevole sorpresa fornita pure senza sovrapprezzo.
Preparare da mangiare è diventato un gioco della mente più che una fatica. Il frigo si apre a comando vocale e mette fuori quello che serve per i vari manicaretti. Entrano in funzione i vari assistenti elettronici a fare il resto: lavano, triturano, tagliuzzano, impastano, cuociono, infornano…..La sola fatica prima di cena si è ridotta al cambiarsi d’abito per uno più comodo. Per nulla spiacevole. A dirla bene, coccolata e viziata. Tutto meritatissimo, mi dico sempre più spesso. Ho lavorato sodo per potermelo permettere.
Gli amici sono sbalorditi. Mi fa bene, dicono. Mi han vista rifiorire. Anche i lati più duri
del mio carattere si sono smussati in pochissimo tempo. Effettivamente posso
dire di essere arrivata al punto magico in cui senti che non hai più nulla da
desiderare e stai bene anche nella tua stessa pelle. Dentro casa mi sento coccolata
come se fossi tornata all’origine, nel ventre materno caldo e accogliente.
Quando ci sono stati i primi segnali non sono riuscita a coglierli.
All’inizio sono state le luci in giardino. Non si accendevano tutte in
contemporanea. Una notte è capitato di esser svegliata dalla polizia che
suonava alla porta. Avevano ricevuto una segnalazione di effrazione in corso.
Sembrava partita dal telefono di casa, ma forse c’era stato un errore o il loro
centralinista doveva essersi sbagliato, dissero.
Comincio a sentire qualche accenno di ansia. Le preoccupazioni che per lungo tempo sono riuscita a tener fuori stanno tornando a farsi spazio. Il tecnico che si occupa di Hal , il computer domestico, quasi settimanalmente viene a fare una verifica all’impianto senza riscontrare anomalie.
Eppure stamattina è successo il patatrack.
Casa gelata e riscaldamento spento, nonostante fuori la temperatura sia
sottozero. In cucina la tavola è imbandita per la colazione come fossimo in
piena estate e ci fosse un battaglione di persone da accontentare. Nessun caffé
bollente, solo latte freddo, bibite ghiacciate e frutta appena tolta dal frigo.
Afferro il telecomando a infrarossi per accedere al menù di Hal ma senza
esito. Ci provo con quello a raggi ultravioletti e con quello riesco almeno a
veder comparire il pannello di controllo senza che sia possibile entrare
nel sistema per riprogrammarlo di nuovo.
Nel frattempo le luci di casa si spengono e si accendono senza sosta, mentre le porte degli armadi si aprono e si chiudono senza motivo. Vasca idromassaggio, lavatrice e lavastoviglie entrano in funzione tutte nello stesso momento senza che ce ne sia bisogno. Prendo il telefono per chiamare nuovamente il tecnico, ma il telefono non funziona, così come non funziona il cellulare. Mi rendo conto di essere del tutto isolata e senza la possibilità di mettermi in contatto con l’esterno. Comincio ad aver paura.
Mi siedo disperata sul divano proprio mentre la tv sta trasmettendo il film
di me stessa che corro trafelata per casa a tentare di mettere ordine nel caos.
Mi vedo scarmigliata, pallida, tesa, terrorizzata e pure invecchiata di
colpo. Un brutto vedersi. Una anziana piccola piccola e in balia degli eventi .
Vedo attraverso lo schermo arrivare l’aspirapolvere con un braccio a forma
di battipanni che mena fendenti a destra e a manca. Riesco a schivarlo appena
in tempo. Non rimane che la fuga.
Colgo il momento in cui si apre un piccolo varco nelle finestre che danno sul giardino e raggiungo la piccola stanza attrezzata vicino al cancello, quella che avevo sistemato per gli ospiti senza tuttavia le automazioni meravigliose….. Sprango in tutta velocità la porta di legno che meno male sembra reggere i colpi di battipanni che l’aspirapolvere continua a tirare.
Mi sdraio sul letto a occhi chiusi respirando lentamente. Respiro, respiro e piano piano torno in me….Verifico alzando la cornetta che il vecchio telefono funzioni e chiamo prima il tecnico per il computer, poi la polizia.
I pensieri lentamente si fanno più
netti. Sto recuperando in lucidità e razionalità. Mi viene fame. La paura, mi
dico, o anche il fatto che stamattina non ho ancora fatto colazione.
Apro i mobiletti del piccolo cucinotto accanto e vedo la vecchia moka, quella che ero stata sul punto di buttar via durante il trasloco. C’è un pacchetto di caffè sotto vuoto e una bustina di zucchero rimasta nella tasca di un cappotto l’ultima volta che sono andata al bar con Sara. In un cassetto trovo pure dei biscotti e delle brioches confezionate.
Avvito la caffettiera…. ehi mi ricordo come si fa!, bruciacchio le brioches nel vecchio forno con le manopole consumate. In un momento salgono dal fondo profumi antichi, la crosta bruciata, il burro riscaldato, la frolla dei biscotti e più intenso, sopra tutti, quel magico, intenso, trascinante borbottante profumo di caffè…..! Mi godo il momento ……
Fuori l’aspirapolvere ha finito la batteria e si ammoscia sull’aiola, distesa su un battipanni rotto…
Il corridoio era lungo e stretto. Non c’erano finestre, solo porte tutte uguali, tutte chiuse. Il percorso era luminoso, nonostante non vi fosse luce artificiale.
Come in sottofondo si poteva udire un’armonia
ritmica; solo se si faceva tacere il rumore dei passi. E se non fosse
stato per la serenità che infondeva quel suono la mente si sarebbe senz’altro
diretta al rumore di una catena di montaggio.
Occorreva tendere l’orecchio al massimo per capire quale
fosse la porta da aprire.
Era la penultima, sulla sinistra. Adesso sì, era più chiaro:
quattro note sublimi, come battute con dolcezza su uno xilofono. Riecheggiavano
leggere e invitavano alla meditazione. Piano piano Marta azzardò la sua mano
sulla maniglia. Senza il minimo rumore si aprì uno spiraglio su una stanza
completamente spoglia. C’era solo un telaio sul quale Pinocchio, di spalle,
stava lavorando. Tesseva una bella tela colore ecru e ad ogni movimento una
nota volteggiava nell’aria. Dlin dlon dlan dlun. E poi daccapo. Ogni tanto Pinocchio inseriva
un filo rosso ed era quello il momento in cui,
stando molto attenti, si poteva percepire un suono diverso, come di
leggero sibilo.
Il burattino ebbe una leggera esitazione, a Marta sembrò che
volesse girare il capo verso di lei, ma non accadde. Richiuse la porta certa
che Pinocchio stesse sorridendo.
Era finito tutto, un piatto di pasta fredda, servito male, lei era stata cestinata, sostituita…
Aveva bestemmiato in silenzio, pianto
sogni, ingoiato parole e ricordi, senza digerirli mai…non sarebbe stata però,
così vigliacca da negare che era innamorata e che non lo avrebbe mai odiato,
nemmeno quando le appariva in sogno,
deridendola bonariamente, si qualche volta lo avrebbe voluto morto, ma non lo avrebbe
mai ucciso, non con le sue mani …no.
Poi quella sera, quel rumore freddo, gocce
taglienti, come lame di Toledo, la riportarono indietro di mesi, di
notti….stille d’acciaio le avevano aperto il cranio, un ritmo cattivo ed incessante.
Qualcuno propose addirittura di riascoltarlo, una crudeltà involontaria, che le fece ancor più male…rimase ancor più colpita quando venne identificato come: un suono d’ oriente, un sitar vibrante, un carillon…ed altre cose ancora….solo lei , allora , odiava quel meccanico rumore? E la riportava a quel commiato crudele?
Si alzò lentamente, tastoni trovò la
finestra, il buio quando dura a lungo è solo una luce diversa, la spalancò….per
respirare meglio….un attimo e….Il tonfo fu violento…eppure nel silenzio del tramonto
nessuno si accorse di nulla….no, nessuno si accorse che se ne era andata
Quel suono ritmato dovrebbe indurre pensieri allegri. Io lo trovo angosciante. Ti entra dentro solo per attivare l’ansia. Senti il respiro farsi corto come quando ti aspetti qualcosa, con i sensi accesi e vigili,e tutto può accadere.
Nulla che sappia di positivo, tuttavia. E’ la goccia d’acqua che cade incessante e nella notte risuona come fosse nell’antro della Sibilla, amplificata come i cerchi che vedi nell’acqua allargarsi sempre più dopo aver gettato un sasso.
E’ un pensiero fisso che punge come una spina e lacera come un coltello.
La mente ritrova una sera lontana, a teatro, con mia mamma. Decidemmo per un concerto di sitar e per un bel tuffo in un Oriente non solo geografico e letto ma da ascoltare e percepire attraverso suoni e ritmi non nostri. Echi di mondi che più lontani non potevano essere.
La sera andò avanti con gran noia e un gran nervoso alle gambe che avevano
sempre più voglia di mettersi a correre.
Non piacque a nessuna delle due quella serata. Eppure ci giocavamo il massimo di apertura mentale, disponibilità d’animo e curiosità. Tutto di testa e poco di cuore, però. Così ci trovammo inchiodate da suoni spezzati ,discontinui e incapaci per le nostre orecchie di tradursi in armonia.
In piccolo vivemmo un conflitto di civiltà e ci trovammo spiazzate.
Non osai dirti fino in fondo quanto mi fossi rotta le scatole quella sera che era nata come regalo per il mio compleanno. Eri così contenta nonostante tutto,che non me la sentii di ferirti con un giudizio troppo negativo.
Nemmeno dopo è mai capitato di tornarci sopra. Quella sera se ne andò così. Un suonatore, un bello strumento, arpeggi e suoni spezzati, invasivi come una goccia che cade e scava, cade e scava, cade e scava.