IL PANE FRESCO – di Elisabetta Brunelleschi

Non lo potevi dire gobbo, ma camminava sempre un po’ curvo da un lato, poiché la cifosi con l’età gli aveva colpito la dorsale.
Usciva ogni mattina dal cancello di casa e si avviava verso il parcheggio guardandosi intorno e sperando, in cuor suo, di non essere visto e nemmeno di vedere.
– Oh! Nandino, che fate stamani! –
Ecco, Vittorio lo aveva scovato e lui doveva rendergli pan per focaccia. Alzava la testa, raddrizzava un po’ la schiena, sistemava in sorriso le labbra fini e biascicava un saluto condito con amenità varie:
– Se piove si lascia piovere, tanto fa quel che vuole! –
Così partiva la giornata per quell’uomo taciturno che pareva voler star lontano da tutti e da tutto.
Si vestiva in modo semplice, quasi dimesso. Nella bella stagione indossava pantaloni scoloriti e magliette dal collo consunto, in inverno si riparava con un giaccone color militare su un paio di pantaloni di flanella lisi sui ginocchi.
I capelli, appena appena brizzolati ( e aveva già superato i settantanni!) li portava corti, a spazzola.
Aveva lavorato per quarantanni come autista in un magazzino di legname, senza approfondire nulla però, obbedendo alle regole e rispettando gli orari. Fiducioso solamente nello stipendio che a fine mese doveva garantire il sostentamento.
Ora, che da più di quindici anni si godeva la pur limitata pensione, al mattino presto, amava andare al supermercato e scegliere le verdure, la carne, i biscotti, il formaggio, che poi, avanzando sempre un po’ ricurvo, sistemava sulla cassa. Della cassiera non guardava il volto, ma le mani. Ne spiava i veloci gesti nel timore di uno sbaglio, di un prodotto contato due volte che poteva gonfiare il totale.
Sì, era avaro, ma non sempre. Qualche volta si concedeva timidi regali: una bottiglia di grappa ma di quella buona, il Vin Santo della migliore annata, un pacco di bicchieri di vetro soffiato, … tutte cose che quasi nascostamente portava a casa e riponeva nella credenza, specialmente le bottiglie; perché lui non beveva, poteva assaggiare un gocciolino dopo i pranzi delle feste raccomandate e più niente!
La sera in casa non si spiccicava dal TG e imprecava contro i politici responsabili di tutte le possibile ingiustizie mentre Lina, la moglie, scuoteva la testa e si chiudeva in camera a guardare un film.
Tornò una mattina con la borsa più piena del solito, tanto che un ciuffo di foglie di sedano ciondolava verde da un lato.
Lina lo squadrò con aria rassegnata, sapeva ormai accettare le sue spese e con pazienza riempiva il frigorifero.
Lui raccolse quello sguardo e volle giustificarsi:
– Non è appassito, con un po’ d’acqua riprende! –
– No, non è quello, stamani hanno telefonato da Santa Teresa, è morta la zia Erminia! –
– Ha finito di patire. –
– Martedì mattina alle 10 c’è il funerale –
– Dove?-
– Ma lì, nella casa di cura, c’è una cappella, l’abbiamo anche vista! –
Nandino andò sul terrazzo. Lina continuò a smistare la spesa: questo nella credenza, questo nello stanzino, … mancava il pane.
– Dal fornaio quando passi? –
– Domattina – rispose Nandino.
Il pane del supermercato non gli piaceva, preferiva quello del bottegaio che sfornava filoni da un chilo belli gonfi, con la mollica asciutta e la corteccia croccante.
In casa, l’arrivo del pane fresco era un rito che si ripeteva a scadenze fisse. Lui lo appoggiava sul tavolo badando a lasciare aperti i bordi del sacchetto affinché rimanesse arieggiato e poi esclamava:
– Oggi si mangia quello fresco, quello duro va a domani!-
Il pane era un che di sacro, non si poteva sciupare!
Lina intanto stava ripensando con nostalgia all’infanzia, alle vacanze trascorse nella casa di campagna della zia, ai giochi con i due cugini … Poi il tempo passa.
I cugini non li vedeva da diversi anni. Marco si era trasferito a Torino e Mirella in un’altra provincia. La zia Erminia abitava da sola, i figli l’andavano a trovare solo in occasione delle vacanze. Poi, il tempo, inesorabile, iniziò a indebolirla e lentamente le fragili ossa finirono per cedere. Cadde in giardino e persa ogni autonomia motoria, si aprirono per lei le porte della casa di cura.
Lina di tanto in tanto le faceva visita e l’aiutava come poteva.
Ma lui no! Non voleva mettere piede in quel ricovero e quasi quasi l’avrebbe impedito anche alla moglie. Era rimasto fermo nella sua idea.
– Ha due figlioli, ci devono pensar loro.
Te al momento ai pensato ai tuoi, e loro? –
Alla fine, dopo quattro anni di immobilità, la zia Erminia chiuse gli occhi.
La mattina del funerale Nandino andò presto presto dal fornaio. Ripetendo lo stesso rito, poggiò il sacchetto sul tavolo gustando la fragranza del pane appena sfornato e rassicurandosi su quello raffermo che avrebbe mangiato il giorno appresso.
Lina con indosso un completo scuro, passava inquieta da una stanza all’altra, serrava le finestre e controllava che le luci fossero spente.
Lui sui soliti pantaloni di tela grigia mise camicia e giacchetta ma rifiutò categoricamente la cravatta che lei gli porgeva.
– Il nodo mi soffoca, lo senti che caldo! –
Al funerale c’erano tutti, stretti uno accanto all’altro sulle panche dell’esigua cappella. Marco e Mirella rispondevano al saluto dei parenti con larghi sorrisi.
L’accompagnarono al cimitero e era già mezzogiorno.
Lina s’intrattenne coi cugini. Nandino guardava l’orologio, era ora di pranzo.
E allora si fece avanti:
– Via venite da noi, ci si arrangia! Da tanti anni non ci si vede! –
Loro si schermirono un poco, erano incerti.
Ma anche Nandino acconsentì:
– Si mette in tavola quel che c’è! –
Giunti a casa lui andò subito in cucina, prese il sacchetto del pane fresco e lo ripose nello sportello.
Apparecchiarono in salotto. Lina aveva già pensato a tutto, c’era solo da riscaldare, portare in tavola e preparare il cestino con il pane, …
Lui aprì lo sportello prese il pezzo di quello raffermo e iniziò a affettarlo…
Lina lo guardò con aria stupita e stava quasi per aprire bocca ma lui voltò la testa, si piegò ancor più sulle spalle e continuò a tagliare. Quando il cestino fu pieno sorrise a labbra strette e con aria compiaciuta entrò in salotto e lo appoggiò al centro del tavolo.
Durante il pranzo ricordarono il passato, parlarono di Erminia, i cugini elogiarono la cuoca e si complimentarono con Nandino che, a loro giudizio, si manteneva come un giovanotto.
– Volete ancora pane? Ve lo affetto! –
Nandino si alzò e cercando di raddrizzare la schiena, andò in cucina e affettò tutto il resto del pane secco, che nuovamente pose in mezzo al tavolo, mentre quello fresco se ne stava lì, nascosto nello sportello.
Per una volta si sentì vittorioso verso quei cugini che ignari delle sue oscure intenzioni mettevano in bocca gli ultimi bocconi di pane.
Un sorriso malizioso, che solo Lina seppe leggere, traspariva dalle labbra fini.
Si salutarono promettendosi visite che di sicuro non avrebbero ricambiato, ma alla fine, i cugini e Lina furono contenti di essersi rivisti, di aver trascorso insieme quelle poche ore, parlando del più e del meno, con quella leggerezza che talvolta occorre per lenire i disagi, le incomprensioni, i dolori che non si possono né evitare nè risolvere e che a quel punto, forse era meglio tacere.
Accompagnarono i cugini sino al cancello, lui rimase curvo da una parte e non cambiò idea, erano degli ingrati!
Rientrati in casa Lina si fermò sulla soglia della cucina e guardò lo sportello:
– Bene! Così ora è duro anche quello! –