Ancora sulle erbe

Erba della Madonna – di Andrea Bettarini

Una piccola piantina, dall’aspetto insignificante, ci fu regalata diversi anni fa. Ricordo vagamente che il dono fu accompagnato da parole che ne esaltavano delle proprietà che allora ritenni generiche e degne di scarsa importanza. La piantina fu messa in un vaso con del terriccio, non richiedeva particolari cure, tra giugno e luglio faceva dei fiori di un rosa pallido non particolarmente attraenti, con i primi freddi perdeva tutte le foglie, scompariva del tutto in inverno per tornare viva e vegeta in primavera. Tutti gli anni così; è rimasta nel suo vaso quasi dimenticata. Quando frequentavo la banda musicale di Impruneta conobbi il dottor Sergio Balatri, che se non sbaglio suonava il trombone. La sera di un mercoledì, sera di prove, mentre aspettavamo gli altri suonatori il dottor Balatri, e qui il ricordo si fa nebuloso, prese a parlare dell’erba della Madonna. Dalla descrizione fatta riconobbi quella piantina che da anni faceva vita solitaria in mezzo a altri vasi di fiori. Il dottor Sergio Balatri, medico in pensione, per più di trent’anni era stato aiuto chirurgo al pronto soccorso di San Giovanni di Dio. Negli anni settanta del secolo scorso i pronto soccorso a Firenze erano due: Santa Maria Nuova e San Giovanni di Dio. Un calzolaio si era ferito al pollice della mano sinistra con la lesina. Una brutta ferita che lo vide costretto a rivolgersi all’ospedale di Santa Maria Nuova. I sanitari nel prescrivere antibiotici fecero presente al ciabattino che se la cura non si dimostrava efficace si vedevano costretti a amputare la falange. Il pover’uomo, dopo alcuni giorni di trattamento vedendo che la ferita non migliorava, prima di sottoporsi all’intervento volle sentire il parere di un altro ospedale. Si recò al pronto soccorso di San Giovanni di Dio. Quel giorno medico di guardia era il dottor Balatri. Ascoltato il paziente e ritenendo giusto ciò che avevano fatto i colleghi fu colpito dalla disperazione dell’artigiano; per lui l’amputazione della falange del pollice voleva dire compromettere il proseguimento della sua attività. A quel punto il dottore si ricordò che da piccolo era stato tormentato da un giradito e la mamma lo aveva curato con l’erba della Madonna. Suggerì al calzolaio di fare un estremo tentativo applicando sulla ferita tutti i giorni una foglia, liberata della pellicola della faccia inferiore, di questa piantina grassa. L’effetto fu prodigioso: dopo dieci giorni la ferita era completamente rimarginata. Come al dottor Balatri fosse venuto in mente di ricorrere a questa terapia alternativa credo che a tutt’oggi se lo stia ancora chiedendo. Di certo come medico volle andare a fondo della faccenda. Da quel giorno si aprì un nuovo campo di ricerca su l’erba della Madonna, nome scientifico Sedum Telephium, furono coinvolti esperti in farmacologia, l’erba della Madonna e le sue proprietà divennero argomento di tesi di laurea, nel nuovo ospedale di San Giovanni di Dio un’area verde fu destinata alla coltivazione di questo miracoloso vegetale. Da allora anche la piantina nel giardino gode di premurosa attenzione.

I mercoledì della Matita in Bibliocoop

Un mercoledì tra le erbe con Tina Conti e con Mirella Calvelli, Gabriella Crisafulli, Emma Rotini e …..molto pubblico.

La magia non è solo delle streghe

gli acquarelli di Tina

gli acquarelli di Tina

le erbe di Tina

L’acqua di San Giovanni – di Tina Conti


Mi sono preparata in tempo, ho invitato amici e familiari ad una cena per la festa del patrono di Firenze, San Giovanni, con il  “rito dell’acquetta”, dando indicazioni vaghe  e accattivanti sui poteri di questa pozione magica tradizionale che avrei loro offerto.
Ho scelto il catino di terracotta, cercato nei campi le varie erbe e fiori, letto storie e ricette per compiere un rito così delizioso.
Tutto era pronto ero consapevole e decisa ,avevo coinvolto le bambine di casa nella ricerca  dei fiori e progettato in grande  .
Tutto era sistemato su un tavolo in giardino pronto per essere disposto.
La sera fatidica, però, sono uscita con mio marito a passeggio per la città in giro con glli amici, poi il gelato e  le chiacchiere, insomma abbiamo tirato tardi.
A casa stanca morta, mi sono infilata velocemente nel letto.
Ho fatto un balzo quando ad un tratto mi è venuto in mente il rituale che mi ero proposta  di fare. Che figura  avrei fatto con gli invitati il giorno dopo per sperimentare l’acqua miracolosa?
Sono uscita in giardino precipitosamente. Era buio pesto, mi ha risvegliata la brezza e il fresco della notte.
Ho osservato un cielo incantato, luminoso, magico.
il vento di  tramontana aveva spazzato impurità e nuvole, non vi posso descrivere la luna, mi è sembrata gioiosa, grande e di una luminosità sconosciuta.
Ho aggiunto ai fiori già pronti le ultime corolle di rosa, strappate dalle piante più vicine  prese a tentoni, le   foglie di menta e melissa profumatissime, ho.aggiunto acqua di pozzo fresca e dissetante e infine è fondamentale l’erba delle streghe: l’iperico.
Sentivo  alzarsi gli aromi e  ,inondare la notte  di un profumo inaspettato, ho immerso le mani e accomodato  le erbe, la magia aveva inizio i miei sensi si stavano risvegliando, mi sentivo avvolta in una cosa misteriosa, nonostante il sonno avrei voluto non finisse mai.
La luna, la rugiada della notte avrebbero compiuto la loro parte.
Al mattino ci saremmo potuti lavare con questa acqua magica, capace di scacciare il malocchio, la malasorte, preservare dalle malattie, rendere la pelle morbida  e purificata.
Tutti sono venuti, da otto invitati siamo diventati  sedici, tutti avevano un cruccio o un malanno da sanare, chi un esame da superare, chi un desiderio nascosto da raccomandare.
La cena è stata leggera e animata, sono stati aggiunti posti a tavola e sedie per tutti.
Per gli assenti sono stati riempiti barattoli  del preparato che si poteva con riservatezza usare in un angolo tranquillo e appositamente attrezzato.
La magia si è avverata, quella della vita, dell’amore di stare insieme, ascoltarsi, condividere, vivere insieme.
Grazie San Giovanni! Al prossimo!

La mamma della “Maga delle erbe” – di Mirella Calvelli

Fedora era il suo nome, un nome dolce, come quello del dolce che rappresenta.

Un morbido pan di spagna, leggermente bagnato, un ripieno pannoso ammantato da una fragilissima sfoglia al cioccolato.

Stesse caratteristiche, che le calzavano a pennello: era morbida, dolce, tenerissima e fragile.

Ma aveva un dono, conosceva il nome di tante erbe e sapeva trattarle per il suo diletto o per la cucina.

Il padre, il nonno Beppe, lavorava la terra e anche lui conosceva migliaia di fili d’erba e piccole piantine, che raccoglieva e coltivava, là!!… sopra al cimitero, lungo il Borro (l’Isone), dove aveva il suo piccolo orto e dove si rifugiava per gran parte della giornata.

Aveva una gobba prominente, cresciuta negli anni di lavoro, gobba che gli causava scherni e risa.

Ma lui, imperterrito, silenzioso, costretto al suo sguardo sempre rivolto a terra.

Alla stessa terra che amabilmente curava.

Chissà che sforzo per guardare il cielo!!

Fedora, sua figlia gli assomigliava, non per quell’infelice protuberanza sulla schiena, ma per la sua riservatezza e capacità manuali particolari.

Era la terza di tre figli, nata settimina, avuta in età grande per l’epoca.

Così quando il nonno Beppe se n’è andato lei era ancora molto giovane.

Il nonno si curava con le erbe che gli hanno permesso, nonostante la vita dura, di vivere fino a 84 anni senza mai incontrare ospedali o medici, questo era per lui un gran vanto.

Con la sua andatura stanca e curva erudiva Fedora sulle sue conoscenze, o almeno così abbiamo sempre pensato.

Essendo settimina, poteva praticare “ l’incantesimo dei bachi”.

Credo che anche io e mio fratello inconsapevoli ne abbiamo beneficiato e con noi altri bambini del villaggio.

Quando venivano a bussare per tale esercizio, Fedora si lavava le mani con dell’olio e sorridendo accoglieva sulle ginocchia il “malato”.

Gli scopriva il pancino e praticando dei segni incrociati su l’ombellico, iniziava il suo mantra.

Confesso che non ricordo le parole precise, non me lo ha mai detto e quando ero in condizione di capirle ho ricordi sporadici e frammenti che invocano “Gesù, Giuseppe e Maria”.

In seguito ho appreso l’importanza di tale problema, molto diffuso all’epoca. Ma non è mai stato importante conoscere la parte medica reale e le probabilità di riuscita o meno dell “esercizio”.

So solo che dava sollievo e a tale pratica non era mai richiesto un compenso, ma solo l’apposizione di una candela alla Madonna.

Molti anni dopo, quando se n’é andata ho trovato un piccolo libercolo nero, con le pagine riempite da piccoli segni, probabili candele offerte. Senza nessun nome o richiamo, solo palucci incerti, segnati con matite e penne di colori diversi. Ingiallite dal tempo.

Per un attimo ho avuto un flash e dato un’identità a quei poveri segni e ho visto centinaia di piccoli volti.

Ripeto, non era molto entrante, ma accogliente di sicuro. Le sue mani grandissime che per anni hanno sfiorato stoffe pregiate ed elaborato modelli esclusivi con la stessa leggerezza hanno accarezzato i pancini di molti piccoli concittadini.

Le stesse mani le ha ereditate mio figlio Riccardo, e spero che anche le sue possano accarezzare il mondo e il bello, come per sua nonna.

Lavare e levare la paura – di Ivana Acciaioli

Sono cresciuta in tempi in cui  con l’olio e con parole e gesti sacri e profani si curavano i vermi o si toglieva il malocchio, responsabile di danni e malanni, o si lavava la paura con l’acqua  fatta con un’erba che cresce spontaneamente, chiamata volgarmente “erba della paura“, con la quale si credeva di eliminare  tutte quelle sensazioni di agitazione ed ansia, caratteristiche dopo piccoli o grandi shock.

La mamma faceva bollire in acqua l’erba  con un rametto di foglie di ulivo, un pizzicotto di sale e un pezzetto di pane;  il liquido ottenuto, previo intiepidimento, serviva a farsi “lavare” la paura. Il lavaggio doveva sempre essere fatto da una persona e con la stessa mano.
Si procedeva con l’immersione della mano nell’acqua e si detergeva il viso, il collo davanti e gli orecchi, le braccia comprese le mani sia dorsi  che palmi, le gambe dalla coscia ai piedi compreso il sottopiede, il tutto ripetuto complessivamente per tre volte. Mentre  faceva questa operazione la mamma pronunciava queste parole biascicandole in modo per me incomprensibile

Col nome di Gesù di Maria

e di tutti i santi

la paura la vada via

e non venga avanti
Col nome di Gesù e di San Pietro
la paura non  ritorni indietro

Col nome della Santissima Trinità

vada via senza mai più ritornà

Le abluzioni si ripetevano per tre giorni successivi che non fossero il martedì ed il venerdì, quindi i giorni giusti erano il sabato, la domenica ed il lunedì , cioè  i giorni senza la” erre”.
Se il liquido assumeva di norma un aspetto “borraccinoso”, come l’acqua di un fiume inquinato allora la “paura c’era”.
Diminuiva al secondo lavaggio fino a scomparire con il terzo.
Se non era la paura a creare lo stato d ‘alterazione nella persona, allora l’acqua rimaneva limpida fin dal primo lavaggio e allora si doveva trovare altra origine del malessere.

UVA E….BERNOCCOLI – di Ivana Acciaioli

Di fronte a un bel cesto d’uva appena raccolta affiorano i ricordi di quando, da bambina, durante i giochi nell’aia, sentivo raggiungermi l’odore della torta d’uva all’anice di mia nonna. Lei custodiva gelosamente la ricetta ma non disdegnava offrirne delle belle fette a chiunque, un po’ per vanità ma anche per la sua innata generosità.
Negli ultimi pomeriggi di sole autunnale i giochi si facevano più inquieti, forse per la consapevolezza che da lì a poco il freddo sarebbe giunto, costringendoci molte ore in casa, così i piccoli incidenti erano più frequenti e le testate, con improvvisa comparsa del bernoccolo, ricorrenti. Il gruppo accompagnava il malcapitato in casa, dove il consueto rimedio spartano e buffo era atteso da tutti , la procedura consisteva nell’adagiare su un pezzo di carta gialla , tolta da un incarto del macellaio o del droghiere, un po’ di lardo e appoggiare il medicamento sul bernoccolo dove, come per magia, si appiccicava. Il piccolo infortunato tornava ai giochi con quel vistoso francobollo sulla fronte, ma nessuno osava prenderlo in giro perché ognuno poteva ricevere, in simile circostanza, lo stesso trattamento. La piccola banda di soccorritori riceveva magari una bella fetta di torta e se era quella di mia nonna tutti si leccavano i baffi.
Quando la carta gialla cadeva potevi considerarti fuori pericolo

Le vele di San Pietro – di Mirella Calvelli

Me lo ha raccontato di recente un’amica che ha un grosso vivaio di piante per la coltivazione dell’orto.

Avendo visto appoggiato al vecchio olivo un bel vaso che aveva perduto gran parte della sua impagliatura, chiesi a Consuelo se potevo prenderlo.

Lei voltandosi gridò: No, no…quello no è per le vele di San Pietro!!!

Ovviamente la mia attenzione si catalizzò più su il significato di quella espressione  che per il vaso.

Consuelo, mentre legava con grande maestria i mazzetti del basilico, iniziò a raccontare.

I suoi nonni erano del Nord, credo Lombardi e questa tradizione era molto in uso, sopratutto nella zona del Lago di Garda.

La notte fra il 28 e il 29 giugno, giorno della festa di San Pietro e Paolo (fra l’altro patrono anche del nostro comune), viene riempito un vaso con acqua, preferibilmente di fonte, nella quale viene fatto scivolare l’albume di un uovo.

Tale vaso, va deposto sotto un albero (l’olivo appunto) e lasciato lì tutta la notte.

Al mattino, il miracolo!! l’albume ha creato dei filamenti, simili all’albero di una barca. Infatti San Pietro era un pescatore, e tali filamenti possono anche estendersi in vere e proprie vele.

L’incantesimo, poi si interrompe verso mezzogiorno, quando il caldo incombe e scioglie il prodigio.

Il significato di tale alchimia, mi spiegava Consuelo, era la richiesta al Santo di prevedere eventuali piogge utilissime per il raccolto.

Quindi più alti erano gli alberi e grandi le vele, tali anche da formare un particolarissimo veliero fantasma, più probabile era l’acqua che avrebbe irrorato i campi.

In seguito mi sono informata e tale rituale è bene iscritto in manoscritti benedettini del medio evo , che spiegano con cura tale prodigio, aggiungendo alla semplice pratica diretta, interventi del diavolo in persona, che in quella notte appare scatenando spesso anche bufere.

Quindi in luoghi di mare e sopratutto di laghi, si sconsiglia l’uscita con le barche per evitare le eventuali tempeste e sciagure che avrebbero colpito le vittime di pescatori.

Consuelo, dice di non crederci, ma continua a preparare quel vaso, come i suoi nonni e dice che dalla lettura delle vele prevede comunque l’andamento meteorologico dei giorni successivi all’evento.