Una piccola piantina, dall’aspetto insignificante, ci fu
regalata diversi anni fa. Ricordo vagamente che il dono fu accompagnato da
parole che ne esaltavano delle proprietà che allora ritenni generiche e degne
di scarsa importanza. La piantina fu messa in un vaso con del terriccio, non
richiedeva particolari cure, tra giugno e luglio faceva dei fiori di un rosa
pallido non particolarmente attraenti, con i primi freddi perdeva tutte le
foglie, scompariva del tutto in inverno per tornare viva e vegeta in primavera.
Tutti gli anni così; è rimasta nel suo vaso quasi dimenticata. Quando
frequentavo la banda musicale di Impruneta conobbi il dottor Sergio Balatri,
che se non sbaglio suonava il trombone. La sera di un mercoledì, sera di prove,
mentre aspettavamo gli altri suonatori il dottor Balatri, e qui il ricordo si
fa nebuloso, prese a parlare dell’erba della Madonna. Dalla descrizione fatta
riconobbi quella piantina che da anni faceva vita solitaria in mezzo a altri
vasi di fiori. Il dottor Sergio Balatri, medico in pensione, per più di
trent’anni era stato aiuto chirurgo al pronto soccorso di San Giovanni di Dio.
Negli anni settanta del secolo scorso i pronto soccorso a Firenze erano due:
Santa Maria Nuova e San Giovanni di Dio. Un calzolaio si era ferito al pollice
della mano sinistra con la lesina. Una brutta ferita che lo vide costretto a
rivolgersi all’ospedale di Santa Maria Nuova. I sanitari nel prescrivere
antibiotici fecero presente al ciabattino che se la cura non si dimostrava efficace
si vedevano costretti a amputare la falange. Il pover’uomo, dopo alcuni giorni
di trattamento vedendo che la ferita non migliorava, prima di sottoporsi
all’intervento volle sentire il parere di un altro ospedale. Si recò al pronto
soccorso di San Giovanni di Dio. Quel giorno medico di guardia era il dottor
Balatri. Ascoltato il paziente e ritenendo giusto ciò che avevano fatto i
colleghi fu colpito dalla disperazione dell’artigiano; per lui l’amputazione
della falange del pollice voleva dire compromettere il proseguimento della sua
attività. A quel punto il dottore si ricordò che da piccolo era stato
tormentato da un giradito e la mamma lo aveva curato con l’erba della Madonna.
Suggerì al calzolaio di fare un estremo tentativo applicando sulla ferita tutti
i giorni una foglia, liberata della pellicola della faccia inferiore, di questa
piantina grassa. L’effetto fu prodigioso: dopo dieci giorni la ferita era
completamente rimarginata. Come al dottor Balatri fosse venuto in mente di
ricorrere a questa terapia alternativa credo che a tutt’oggi se lo stia ancora
chiedendo. Di certo come medico volle andare a fondo della faccenda. Da quel
giorno si aprì un nuovo campo di ricerca su l’erba della Madonna, nome
scientifico Sedum Telephium, furono coinvolti esperti in farmacologia,
l’erba della Madonna e le sue proprietà divennero argomento di tesi di laurea,
nel nuovo ospedale di San Giovanni di Dio un’area verde fu destinata alla
coltivazione di questo miracoloso vegetale. Da allora anche la piantina nel
giardino gode di premurosa attenzione.
Un mercoledì tra le erbe con Tina Conti e con Mirella Calvelli, Gabriella Crisafulli, Emma Rotini e …..molto pubblico.
La magia non è solo delle streghe
gli acquarelli di Tina
gli acquarelli di Tina
le erbe di Tina
L’acqua
di San Giovanni – di Tina Conti
Mi sono preparata in tempo, ho invitato amici e
familiari ad una cena per la festa del patrono di Firenze, San Giovanni, con
il “rito dell’acquetta”, dando
indicazioni vaghe e accattivanti sui poteri di questa pozione magica
tradizionale che avrei loro offerto.
Ho scelto il catino di terracotta, cercato nei
campi le varie erbe e fiori, letto storie e ricette per compiere un rito così
delizioso.
Tutto era pronto ero consapevole e decisa ,avevo
coinvolto le bambine di casa nella ricerca dei fiori e progettato in
grande .
Tutto era sistemato su un tavolo in giardino
pronto per essere disposto.
La sera fatidica, però, sono uscita con mio
marito a passeggio per la città in giro con glli amici, poi il gelato e
le chiacchiere, insomma abbiamo tirato tardi.
A casa stanca morta, mi sono infilata
velocemente nel letto.
Ho fatto un balzo quando ad un tratto mi è
venuto in mente il rituale che mi ero proposta di fare. Che figura
avrei fatto con gli invitati il giorno dopo per sperimentare l’acqua
miracolosa?
Sono uscita in giardino precipitosamente. Era
buio pesto, mi ha risvegliata la brezza e il fresco della notte.
Ho osservato un cielo incantato, luminoso,
magico.
il vento di tramontana aveva spazzato
impurità e nuvole, non vi posso descrivere la luna, mi è sembrata gioiosa,
grande e di una luminosità sconosciuta.
Ho aggiunto ai fiori già pronti le ultime
corolle di rosa, strappate dalle piante più vicine prese a tentoni,
le foglie di menta e melissa profumatissime, ho.aggiunto acqua di
pozzo fresca e dissetante e infine è fondamentale l’erba delle streghe:
l’iperico.
Sentivo alzarsi gli aromi e
,inondare la notte di un profumo inaspettato, ho immerso le mani e
accomodato le erbe, la magia aveva inizio i miei sensi si stavano
risvegliando, mi sentivo avvolta in una cosa misteriosa, nonostante il sonno
avrei voluto non finisse mai.
La luna, la rugiada della notte avrebbero
compiuto la loro parte.
Al mattino ci saremmo potuti lavare con questa
acqua magica, capace di scacciare il malocchio, la malasorte, preservare dalle
malattie, rendere la pelle morbida e purificata.
Tutti sono venuti, da otto invitati siamo
diventati sedici, tutti avevano un cruccio o un malanno da sanare, chi un
esame da superare, chi un desiderio nascosto da raccomandare.
La cena è stata leggera e animata, sono stati
aggiunti posti a tavola e sedie per tutti.
Per gli assenti sono stati riempiti
barattoli del preparato che si poteva con riservatezza usare in un angolo
tranquillo e appositamente attrezzato.
La magia si è avverata, quella della vita,
dell’amore di stare insieme, ascoltarsi, condividere, vivere insieme.
Grazie San Giovanni! Al prossimo!
La mamma della “Maga delle erbe” – di Mirella Calvelli
Fedora era il suo nome, un nome dolce, come quello del dolce
che rappresenta.
Un morbido pan di spagna, leggermente bagnato, un ripieno
pannoso ammantato da una fragilissima sfoglia al cioccolato.
Stesse caratteristiche, che le calzavano a pennello: era
morbida, dolce, tenerissima e fragile.
Ma aveva un dono, conosceva il nome di tante erbe e sapeva
trattarle per il suo diletto o per la cucina.
Il padre, il nonno Beppe, lavorava la terra e anche lui
conosceva migliaia di fili d’erba e piccole piantine, che raccoglieva e
coltivava, là!!… sopra al cimitero, lungo il Borro (l’Isone), dove aveva il
suo piccolo orto e dove si rifugiava per gran parte della giornata.
Aveva una gobba prominente, cresciuta negli anni di lavoro,
gobba che gli causava scherni e risa.
Ma lui, imperterrito, silenzioso, costretto al suo sguardo
sempre rivolto a terra.
Alla stessa terra che amabilmente curava.
Chissà che sforzo per guardare il cielo!!
Fedora, sua figlia gli assomigliava, non per quell’infelice
protuberanza sulla schiena, ma per la sua riservatezza e capacità manuali
particolari.
Era la terza di tre figli, nata settimina, avuta in età
grande per l’epoca.
Così quando il nonno Beppe se n’è andato lei era ancora molto
giovane.
Il nonno si curava con le erbe che gli hanno permesso,
nonostante la vita dura, di vivere fino a 84 anni senza mai incontrare ospedali
o medici, questo era per lui un gran vanto.
Con la sua andatura stanca e curva erudiva Fedora sulle sue
conoscenze, o almeno così abbiamo sempre pensato.
Essendo settimina, poteva praticare “ l’incantesimo dei
bachi”.
Credo che anche io e mio fratello inconsapevoli ne abbiamo
beneficiato e con noi altri bambini del villaggio.
Quando venivano a bussare per tale esercizio, Fedora si
lavava le mani con dell’olio e sorridendo accoglieva sulle ginocchia il
“malato”.
Gli scopriva il pancino e praticando dei segni incrociati su
l’ombellico, iniziava il suo mantra.
Confesso che non ricordo le parole precise, non me lo ha mai
detto e quando ero in condizione di capirle ho ricordi sporadici e frammenti
che invocano “Gesù, Giuseppe e Maria”.
In seguito ho appreso l’importanza di tale problema, molto
diffuso all’epoca. Ma non è mai stato importante conoscere la parte medica
reale e le probabilità di riuscita o meno dell “esercizio”.
So solo che dava sollievo e a tale pratica non era mai
richiesto un compenso, ma solo l’apposizione di una candela alla Madonna.
Molti anni dopo, quando se n’é andata ho trovato un piccolo
libercolo nero, con le pagine riempite da piccoli segni, probabili candele
offerte. Senza nessun nome o richiamo, solo palucci incerti, segnati con matite
e penne di colori diversi. Ingiallite dal tempo.
Per un attimo ho avuto un flash e dato un’identità a quei
poveri segni e ho visto centinaia di piccoli volti.
Ripeto, non era molto entrante, ma accogliente di sicuro. Le
sue mani grandissime che per anni hanno sfiorato stoffe pregiate ed elaborato
modelli esclusivi con la stessa leggerezza hanno accarezzato i pancini di molti
piccoli concittadini.
Le stesse mani le ha ereditate mio figlio Riccardo, e spero che anche le sue possano accarezzare il mondo e il bello, come per sua nonna.
Lavare e levare la paura – di Ivana Acciaioli
Sono cresciuta in tempi in cui
con l’olio e con parole e gesti sacri e profani si curavano i vermi o si
toglieva il malocchio, responsabile di danni e malanni, o si lavava la paura
con l’acqua fatta con un’erba
che cresce spontaneamente, chiamata volgarmente “erba della paura“, con
la quale si credeva di eliminare tutte
quelle sensazioni di agitazione ed ansia, caratteristiche dopo piccoli o grandi
shock.
La mamma faceva bollire in acqua l’erba con un rametto di foglie
di ulivo, un pizzicotto di sale e un pezzetto di pane; il liquido ottenuto, previo intiepidimento,
serviva a farsi “lavare” la paura. Il lavaggio doveva sempre essere
fatto da una persona e con la stessa mano.
Si procedeva con l’immersione della mano
nell’acqua e si detergeva il viso, il collo davanti e gli orecchi, le braccia comprese
le mani sia dorsi che palmi, le gambe
dalla coscia ai piedi compreso il sottopiede, il tutto ripetuto
complessivamente per tre volte. Mentre
faceva questa operazione la mamma pronunciava queste parole
biascicandole in modo per me incomprensibile
Col nome di Gesù
di Maria
e di tutti i santi
la paura la vada via
e non venga avanti Col nome di Gesù
e di San Pietro la paura
non ritorni indietro
Col nome della Santissima Trinità
vada via senza mai più ritornà
Le abluzioni si ripetevano per tre giorni successivi che non fossero il martedì ed il venerdì, quindi i giorni giusti erano il sabato, la domenica ed il lunedì , cioè i giorni senza la” erre”. Se il liquido assumeva di norma un aspetto “borraccinoso”, come l’acqua di un fiume inquinato allora la “paura c’era”. Diminuiva al secondo lavaggio fino a scomparire con il terzo. Se non era la paura a creare lo stato d ‘alterazione nella persona, allora l’acqua rimaneva limpida fin dal primo lavaggio e allora si doveva trovare altra origine del malessere.
UVA E….BERNOCCOLI – di Ivana Acciaioli
Di fronte a un bel cesto d’uva appena raccolta affiorano i ricordi
di quando, da bambina, durante i giochi nell’aia, sentivo raggiungermi l’odore
della torta d’uva all’anice di mia nonna. Lei custodiva gelosamente la ricetta
ma non disdegnava offrirne delle belle fette a chiunque, un po’ per vanità ma
anche per la sua innata generosità.
Negli ultimi pomeriggi di sole autunnale i giochi si facevano più inquieti,
forse per la consapevolezza che da lì a poco il freddo sarebbe giunto,
costringendoci molte ore in casa, così i piccoli incidenti erano più frequenti
e le testate, con improvvisa comparsa del bernoccolo, ricorrenti. Il gruppo
accompagnava il malcapitato in casa, dove il consueto rimedio spartano e buffo
era atteso da tutti , la procedura consisteva nell’adagiare su un pezzo di
carta gialla , tolta da un incarto del macellaio o del droghiere, un po’ di
lardo e appoggiare il medicamento sul bernoccolo dove, come per magia, si
appiccicava. Il piccolo infortunato tornava ai giochi con quel vistoso
francobollo sulla fronte, ma nessuno osava prenderlo in giro perché ognuno
poteva ricevere, in simile circostanza, lo stesso trattamento. La piccola banda
di soccorritori riceveva magari una bella fetta di torta e se era quella di mia
nonna tutti si leccavano i baffi.
Quando la carta gialla cadeva potevi considerarti fuori pericolo
Le vele di San Pietro – di Mirella Calvelli
Me lo ha raccontato di recente un’amica che ha un grosso
vivaio di piante per la coltivazione dell’orto.
Avendo visto appoggiato al vecchio olivo un bel vaso che
aveva perduto gran parte della sua impagliatura, chiesi a Consuelo se potevo
prenderlo.
Lei voltandosi gridò: No, no…quello no è per le vele di San Pietro!!!
Ovviamente la mia attenzione si catalizzò più su il significato di quella espressione che per il vaso.
Consuelo, mentre legava con grande maestria i mazzetti del
basilico, iniziò a raccontare.
I suoi nonni erano del Nord, credo Lombardi e questa
tradizione era molto in uso, sopratutto nella zona del Lago di Garda.
La notte fra il 28 e il 29 giugno, giorno della festa di San
Pietro e Paolo (fra l’altro patrono anche del nostro comune), viene riempito un
vaso con acqua, preferibilmente di fonte, nella quale viene fatto scivolare
l’albume di un uovo.
Tale vaso, va deposto sotto un albero (l’olivo appunto) e
lasciato lì tutta la notte.
Al mattino, il miracolo!! l’albume ha creato dei filamenti,
simili all’albero di una barca. Infatti San Pietro era un pescatore, e tali
filamenti possono anche estendersi in vere e proprie vele.
L’incantesimo, poi si interrompe verso mezzogiorno, quando il
caldo incombe e scioglie il prodigio.
Il significato di tale alchimia, mi spiegava Consuelo, era la
richiesta al Santo di prevedere eventuali piogge utilissime per il raccolto.
Quindi più alti erano gli alberi e grandi le vele, tali anche
da formare un particolarissimo veliero fantasma, più probabile era l’acqua che
avrebbe irrorato i campi.
In seguito mi sono informata e tale rituale è bene iscritto in manoscritti benedettini del medio evo , che spiegano con cura tale prodigio, aggiungendo alla semplice pratica diretta, interventi del diavolo in persona, che in quella notte appare scatenando spesso anche bufere.
Quindi in luoghi di mare e sopratutto di laghi, si sconsiglia l’uscita con le barche per evitare le eventuali tempeste e sciagure che avrebbero colpito le vittime di pescatori.
Consuelo, dice di non crederci, ma continua a preparare quel vaso, come i suoi nonni e dice che dalla lettura delle vele prevede comunque l’andamento meteorologico dei giorni successivi all’evento.