Per la serie: Alchimia di storie a più mani

ETEROCLITO – di Ivana Acciaioli, Gabriella Crisafulli, Carla Faggi

ALESSIO


Affacciato alla finestra della sua camera,  di quella casa non propriamente sua,  in quella famiglia che spesso sentiva estranea, Alessio si trovava nella strana  pelle di adolescente  non ancora  pronto per la muta.
La tranquilla operosa città di provincia poteva essere un luogo perfetto dove crescere, sarebbe bastato avere le idee chiare su come voler essere e diventare.
Era cresciuto in una famiglia dalle idee aperte, atea e di sinistra.
Lui però esprimeva  idee diverse, non sopportava il buonismo dei suoi genitori, l’accettazione incondizionata  di tutte le diversità, e  considerava la loro ideologia un po’ retrò. Si poteva pensare che fosse nato in una famiglia sbagliata, vincolato ad un ruolo che forse  non rispecchiava la sua essenza.
Dietro  lo sguardo riflessivo appariva talvolta una certa insolenza.
Non era il colore dei suoi occhi  normalmente castani, né il taglio a renderli particolari, ma il modo con cui guardava, da sotto in su, con una profondità come a voler giudicare che spesso creava imbarazzo.
Il soffio di aria tiepida del pomeriggio conduceva le voci e  i lazzi rumorosi di alcuni suoi inoperosi amici ; quanto gli piaceva il loro bighellonare mentre lui era costretto a quella scrivania, dalla quale, nell’aria muta, osavano sfidarlo i libri di scuola.
Avrebbe dovuto amarli, considerarli una ricchezza, o almeno provare un certo rispetto, invece non riusciva a capire se veramente gli appartenessero o fossero arrivati lì, condotti da mani decise alla sua condanna: studiare, diventare colto, raggiungere una professione.
Il soprannome bulldozer guadagnato alla scuola media dava l’idea della sua forza e determinatezza eppure ogni cosa della sua vita gli appariva come un negativo, senza capire se la realtà fosse il bianco o il nero.
Avrebbe voluto uscire dagli schemi, scandalizzare, andare a scuola senza aver fatto i compiti, arrivare in ritardo, andare al bagno sbattendo la porta senza aspettare il permesso, rientrare a casa fuori dell’orario stabilito…  e allora…se voleva contestare le regole come spiegarsi perché  in quella partita di calcio dal risultato chiaramente combinato, aveva attaccato a testa bassa facendo goal non ammessi, spronando i compagni a non accettare la finzione messa in campo, e quei sordi colpi inferti al pallone con rabbia erano stati una lezione di onestà  per i dirigenti e per l’allenatore che nello spogliatoio avevano abbassato lo sguardo.
Nel  profondo avrebbe desiderato essere più trasgressivo, ma l’educazione ricevuta lo vincolava e chissà se mai se ne sarebbe liberato.
Sognava senza essere sognatore, in attesa di qualcosa che accadesse in lui o fuori di lui, e intanto si vestiva talvolta da provocatore talvolta da solido ormeggio.
Non aveva combinato niente quel pomeriggio, ormai era tardi anche per uscire, ma in quell’ultimo sguardo rivolto alla strada era apparsa Sara, una ragazzina della terza B, che  nascondeva la sua figura dentro abiti troppo abbondanti. Non si erano mai parlati eppure sentiva simpatia per lei, sempre silenziosa  in mezzo alle compagne ciarliere. Quella biondina apparentemente fragile faceva emergere il suo istinto protettivo.
Poteva correre fuori con lo skate per raggiungerla. Ma cosa dirle?
 Il linguaggio verbale non era la sua preferenza comunicativa, quello  del corpo sì, avrebbe potuto farla sorridere con qualche numero dei suoi sullo skate o forse sarebbe apparso solo infantile, meglio rinunciare.

SARA

Capelli lunghi, lisci, con meches chiare illuminano il viso di Sara,  marcato da due grandi sopracciglia scure, disegnate ad ali di gabbiano sotto la fronte alta.

Di media statura, con il corpo marcatamente mediterraneo a vita sottile, fianchi tondi e seno prosperoso, spesso è in  difficoltà a trovare l’abbigliamento adatto perché da una parte risulta stretto e dall’altra largo, come nel caso delle camicette che si sbottonano sul seno mentre i pantaloni abbondano in vita.
Da adolescente si era infagottata in grandi maglioni o camicioni extralarge  per nascondere un fisico che finalmente cominciava a esibire con orgoglio.

Timida e riservata spesso si sente frenata nell’esprimersi e le parole che le vengono in bocca le restano dentro. Questo essere così riflessiva e prudente, talvolta le impedisce di comunicare come vorrebbe.

Figlia di genitori anziani, quando lei era nata i fratelli non l’avevano accolta con entusiasmo. La tacita ostilità dei gemelli e la severità dei genitori, l’avevano fatta sentire sola e incompresa in un nucleo familiare apparentemente molto affettivo, questo le dava insicurezza.
I fratelli erano due fave in un sol guscio tutti presi da loro e fra loro; la madre viveva proiettata alla realizzazione di un disegno  in cui la sua immagine risultasse vincente; il padre era un donnaiolo, a sua insaputa. Lei lo aveva visto con la sua bella quando aveva diciassette anni.
L’intrusione provocata dalla sua nascita non era mai stata perdonata, lei ne era colpevole.

Sara si sentiva tradita da loro quattro così la sua vitalità la portava ad investire su amici e  conoscenti.
Fin da giovanissima trascorreva molto tempo fuori casa, in  circoli, biblioteche,  e  parrocchie, dove aveva modo di incontrare persone.
Talvolta si era scontrata col mondo circostante da cui pretendeva adesione ai suoi ideali.
Il mancato supporto della famiglia non l’aveva accompagnata in una crescita graduale; così alla grande solarità accompagnava un disincanto che le dava una sfumatura di tristezza e le faceva corrugare la fronte.

PIERANTONIO

Il Dottor “Tuttamore” lo chiamano così, si guarda allo specchio ed è soddisfatto.

Alto uno e ottanta, fisico asciutto,  capelli castani chiari tagliati all’ultima moda.

Sì! Si piace proprio!
I grandi occhi color nocciola incantano le femmine nel giusto modo, la bocca carnosa un po’ imbronciata le conquista del tutto.

Si veste casual ma con accuratezza.
I suoi trentadue  anni sono proprio ben spesi.

Pensare che era stato un bambino difficile,  nato ad Avellino da una famiglia benestante, che si era trasferita, negli Stati Uniti  nei dintorni di Los Angeles,  quando Pierantonio aveva solo tre anni .

Era rientrato in Italia, esattamente a Firenze, a diciassette anni, appena in tempo per studiare e laurearsi in Medicina.

Non si sentiva né americano né italiano. La sua identità non definita gli creava disagio, parlava bene la lingua   italiana   ma  con  forte accento  americano;   questo   lo rendeva  affascinante   agli   occhi  femminili, ma creava in lui un forte senso di non appartenenza.

Sfuggiva ai rapporti seri con l’altro sesso e si limitava alla soddisfazione della conquista.

Essere   medico   ospedaliero   con   specializzazione   in   ginecologia   lo   gratificava   abbastanza.  La scoperta continua del femminile gli creava soddisfazione e irrequietezza allo stesso tempo.

Nell’universo tenebroso  ma accogliente della natura della donna aveva incentrato tutte le sue paure ed aspettative.

LE MADONNE NON SONO BIONDE

La biblioteca scura e polverosa di Ponte a Niccheri,  libri vecchi, vecchissimi, uno accanto all’altro.

L’odore di polvere è la prima sensazione, la seconda è l’oscurità eccessiva.

Non si vede l’ombra di un libro!  Anzi, solo ombre! Di ogni tipo, lunghe, corte, grassocce e deformi. C’è un silenzio indefinito, scandito solo da un fruscio di  mani che le  toccano,  le sfogliano, una cantilena quasi assordante.

Ogni libro ha un suono che ogni mano che  lo sfiora trasforma. 

Entrare in una biblioteca è come vivere dentro una bolla di sapone con in sottofondo una melodia lieve.  

Pierantonio non ama questa atmosfera ovattata, non la trova piacevole.

– Ehii, Dottor Antonio, che ci fai qui?-  gorgheggia una voce femminile.

Lui sgrana i grandi occhi color nocciola. Si sveglia dal torpore del suo stato d’animo polveroso ed ombroso e sorride alla ragazza che lo ha chiamato.

Il sorriso però gli rimane rapito sul volto, l’amica della ragazza seduta accanto a lei è splendida!

È bellissima, pensa. I suoi capelli biondi risplendono nella luminosità della sala.

 I coloratissimi libri ben disposti sugli scaffali attorno le fanno da cornice.

Sembra una Madonna!  Anzi, no! Le Madonne non sono bionde, sembraaa…una cortigiana del Re Sole!

–  Stavo cercando un libro.- balbetta ancora rapito.

–  Vuoi che ti aiuti?-  chiede la voce gorgheggiante.

–  Beh, sai… qualcosa di particolare, che mi possa aiutare a capire il mondo,  il mio posto nel  mondo…perché sono qui ora…perché appena due ore fa ho aiutato una vita a nascere, e quella vita  avrà  uno   scopo   più   alto   della   mia,   sicuramente   perché   non   siamo   niente   nei   confronti dell’Universo…e…-  parla e guarda la splendida bionda.

Ogni fruscio diventa volo d’angelo.
Quella cantilena che prima gli sembrava così assordante diventa musica soave.
Quel sottofondo ovattato si trasforma in melodia.

Lei, Sara, è affascinata da quello splendido uomo.
–  Che animo gentile- pensa- che uomo sensibile e che profondità di pensiero!


UN VOLO SULLE LABBRA

Si era trovata lì dentro senza rendersene conto.

Quando aprì gli occhi vide che tutto intorno a lei era verde, luci, oggetti, figure e si domandò  dove fosse capitata. Pensò di essere caduta dentro ad una storia.
Le orecchie le fischiavano in un silenzio che sembrava sovrano se non fosse stato per quei suoni,  che si succedevano a cadenza regolare.
La bocca era impastata e non riusciva ad emettere nemmeno il fiato.
I pensieri ondeggiavano in un flusso lattiginoso  proiettando immagini in forma stenografica. Correva dietro a loro inseguendoli, ma non riusciva ad acchiapparne nemmeno uno.

L’odore che le penetrava dentro era di Chupa Chups e per un attimo pensò di averne uno che  si scioglieva in bocca, mentre le pareti ondeggiavano, cedevano su se stesse convergendo in alto fra loro in una cupola di smeraldo.
Finalmente mise a fuoco figure nebulose che si muovevano intorno a lei a passi felpati. Non riconosceva nessuno. Un ciuffo di capelli castani e due grandi occhi nocciola.  Un paio di spalle muscolose. Il berretto di una divisa. Una ciocca di capelli bianchi. Cuffie verdi e mascherine.
– Allora, com’è andata?  
– La lasci stare, non è  ancora in grado di rispondere.
Ogni tanto, poi, spuntavano dal nulla due mani:  la sfioravano, la maneggiavano mentre una fitta penetrante le partiva dalla gola e le arrivava in mezzo alle gambe.
Perché quel dolore?
Provò a fermare lo sguardo sulle luci che  si accendevano e spegnevano accanto,  a ritmo regolare, emettendo un sibilo prolungato. Le vedeva riflesse nella finestra davanti a lei. Era uno strano semaforo a due colori che strideva tra una pausa e l’altra.
–  Allora ci può dire com’è andata?-  insisteva quello con il berretto nero.
E all’improvviso, sul vetro di fronte,  il rosso della luce divenne il rivolo di sangue che le scendeva caldo fra le gambe mentre la sirena dell’autoambulanza le entrava nella testa, e il verde della collina ricoperta di lecci e cipressi divenne il luogo dove era volata, in alto, sempre più in alto, sbalzata dalla forcella della moto su cui era piombata a gambe larghe. E ancora una volta perse conoscenza.

MISTERI IN GINECOLOGIA

Alessio ormai era un giovane uomo: larghe spalle, pochi timori.
Dava importanza alle cose essenziali. Forse era per il nome che gli avevano dato che amava proteggere, e ci riusciva infondendo negli altri un senso di fiducia.
Era freddo e calcolatore? Forse, ma l’immensa generosità nei confronti degli altri esplodeva sempre in modo totale, facendo intuire la sua tenerezza.
 Alessio e Sara  si era incontrati in  mezzo a un’assordante musica in discoteca ed in un primo tempo non si erano riconosciuti; poi casualmente  avevano frequentato lo stesso seminario all’università e capitati vicini si erano scambiati sguardi , sorrisi ed infine parole, scoprendo l’adolescente conoscenza.
Sara aveva notato che i suoi colori di ragazzo raccontavano qualcosa del bambino biondissimo che era stato e dei capelli gialli che a lui  in realtà non  piacevano, forse per questo suo rifiuto piano piano  si erano fatti castani, poi  era comparsa la barba rossiccia con riflessi dorati come a ricordargli che non si può completamente dimenticare chi siamo e da dove veniamo.
 Il naso era il suo cruccio, leggermente storto, con il setto deviato a causa di un incidente sul motorino dei suoi quindici anni, mentre la cicatrice all’estremità del sopracciglio sinistro era rimasta a memoria del  piercing tanto voluto e contestato in famiglia.
Alessio pensò che Sara  aveva invece conservato i suoi colori , ma si era fatta donna e il corpo di adolescente aveva dato vita a  nuove morbide armonie.
Quando si incontravano nell’ateneo  non mancavano di intrattenersi da buoni amici.
L’amore  era  chiuso in lui  come in uno scrigno  ma la giovane intuiva che trovata la chiave, avrebbe potuto con stupore liberarlo sperando di  lasciarsi avvolgere.
Lui però sembrava non volersi  lasciar andare a troppo sentimento, mentre le sue mani calde e coinvolgenti parlavano un altro linguaggio e la ragazza lo aveva percepito.

L’incidente dell’amica con  la sua conseguente degenza in ospedale aveva  reso giornalieri i loro appuntamenti.
Alessio si recava in ginecologia, senza  fare domande per non turbare Sara , anche se non capiva cosa le avesse provocato l’incidente  da  giustificare la sua permanenza in quel reparto.
L’aveva vista soffrire, poi riprendersi e così avevano potuto godere delle rilassanti passeggiate nel parco dell’ospedale. Immersi nella natura, tra  gli scalpiccii dei loro passi e  i fruscii delle fronde sopra le loro teste erano aleggiate confidenze profonde.
Sentiva crescere nei suoi confronti un sentimento che aveva pensato scaturire come sempre dal suo istinto protettivo; si sentiva confuso, forse si stava innamorando o forse la situazione di sofferenza fisica, l’ospedale con le lettighe cigolanti, i passi ovattati delle infermiere, i gemiti , i sospiri  delle donne, i loro racconti sommessi lo avevano reso vulnerabile.
In camera della ragazza aveva spesso incrociato un ginecologo, Pierantonio, questo il nome che aveva sfoderato insieme al suo sorriso, con il quale si era intrattenuto a parlare gradevolmente. Non che lo temesse come rivale perché, nonostante si pavoneggiasse, mostrava un leggero inizio di stempiatura ed un addome non propriamente ad  effetto tartaruga come il suo; insomma era più giovane e si considerava più adatto all’attraente convalescente.
Certo il fascino del dottore non era da sottovalutare.

CURARE O CURARSI

Pierantonio si incammina veloce nel corridoio del reparto, naturalmente guardando il suo riflesso nello specchio di ogni vetro e non dimenticando le sue ormai mitiche occhiate mielose alle giovani infermiere che apprezzano con orgoglio.

Il pomeriggio ama trattenersi in reparto e dedicarsi allo studio dei casi più impegnativi.  Si concentra meglio perché i suoni sono meno caotici del mattino.

Il chiacchierio delle infermiere è relegato nelle loro stanze dove c’è la macchinetta del caffè.  Il carrello dei medicinali arriva sempre quando c’è il riposo pomeridiano e sembra voler farsi sentire appena; quello del tè comporta voci e suoni in più ma sempre lievi, come se il pomeriggio volesse compensare e assolvere il mattino.

Per questo Pierantonio in quel momento ama ancora di più il suo lavoro.
Sa che per curare occorre prima conoscere la paziente, comprenderne i disagi, le preoccupazioni, curarne la mente oltre che il corpo. Per fare questo occorre tempo e il pomeriggio  questo tempo lo trova.

Si reca spesso a visitare Sara, la biondina prosperosa della camera 22, che aveva già conosciuto precedentemente in biblioteca,  sia perché sa che la sua presenza la rassicura, ma anche perché spesso trova in visita Alessio, un tranquillo ragazzone con cui si trova stranamente a suo agio.

Non ha legato molto con i suoi coetanei maschi, i suoi amici d’infanzia e adolescenza li ha lasciati tutti al di là dell’oceano.

A diciassette anni in un Paese nuovo anche se natio, è più facile conoscere compagni di divertimenti che veri amici. Si era sempre sentito come in bilico sul filo spinato, senza capire all’inizio l’ironia dei fiorentini e con la difficoltà a sentirsi accolto; difficoltà  che naturalmente non aveva con l’universo femminile. Era   ben accettato, anche troppo. Per questo si era dedicato totalmente alle donne, anche in campo professionale.

Con Alessio aveva la sensazione di essere ben  accolto. Questo lo turbava, perché era abituato a essere rivale degli uomini  e  a  stare  sempre  in  guardia.
Desiderava  abbracciarlo, ma non lo faceva per paura di essere frainteso.

Erano   sentimenti   nuovi   a   cui   non   era   abituato   e   che   lo distoglievano,   almeno   momentaneamente,   dal   suo   femminile   chiodo   fisso.       

Sapeva   che   era   un  innocuo  bisogno di amicizia,  nulla di più.

Certo!  Cosa poteva essere se non quello?  Lui, Pierantonio, le tombeur de femmes di Ponte a Niccheri!     

Solo un bisogno di amicizia. Niente  di più.

Ma intanto la notte si girava e rigirava nel letto.

VOLERE E NON VOLERE

Sara è in piedi davanti alla grande finestra della sua stanza d’ospedale. Guarda il paesaggio: il boschetto di lecci sulla collina di fronte, inframmezzato da cipressi, tra i quali fanno capolino ora un capriolo, ora un cinghiale. Ascolta il richiamo di una faraona nascosta chissà dove e quello di un fagiano che mostra il suo splendore lungo il prato di confine.

Dopo tanto tempo sente risorgere la vita che dà  segnali della sua presenza: il corpo le risponde quando si stiracchia al mattino, quando cammina, quando si piega a raccogliere un libro caduto a terra, quando abbraccia gli amici che la vengono a trovare. Le è tornata la voglia di esserci,  senza sentirsi preda di interventi e riabilitazioni che si erano impossessati di lei.
 Alessio, che la viene a trovare regolarmente, e Pierantonio, con la sua presenza continua in reparto, la stanno aiutando a tornare quella di prima. Con loro  riesce a scherzare su quel che le è capitato e sulla nuova” origine del mondo” che si ritrova fra le gambe. Stando con loro fa di nuovo capolino in lei quel ruzzo rimasto sepolto troppo a lungo sotto flebo, pasticche e dolori vari.

Le hanno detto che la dimettono, non sta più nella pelle e fantastica sul suo ritorno. Non sente nostalgia per il personale del reparto, per le compagne di degenza che si sono alternate nella stanza.

A casa sua c’è chi è  andato ad aprire le finestre, a dare una spazzata, a rifornire il frigo. Chiude gli occhi e vede i suoi amici indaffarati dietro al ronzio dell’aspirapolvere, allo sciabordio della lavatrice, allo sbattere delle persiane finalmente inondate dalla luce del sole. Ha voglia di un Martini corroborato da un rinforzino di Gin e di starsene seduta sul divano del suo soggiorno ad ascoltare musica.
Sogna di immergersi in tutti i rumori della casa, dalle fusa del frigorifero, al ticchettio dell’orologio in cucina, dal tarlo che cigola dentro al quinto scalino delle scale, al vento che si intrufola nella canna del camino frusciando arie di volta in volta diverse.

IL DUBBIO

La  parte razionale  aveva sempre impedito ad Alessio di farsi coinvolgere troppo o troppo a lungo nelle storie amorose.
Preferiva lasciare spazio ai progetti sulla vita futura e al desiderio di non chiudersi nel mondo ristretto che temeva potesse imprigionarlo.
Nel frattempo aveva ricevuto un invito  ad uscire dal giovane ginecologo; la proposta lo aveva sorpreso e allo stesso tempo incuriosito.
Il giorno seguente anche Sara lo aveva invitato a casa sua per festeggiare il ritorno  dall’ospedale; fatalità stesso giorno e stessa ora.
Che fare?
Seguire la sua curiosità o dare la precedenza a Sara?

INSOLITA MUSICA

E voilà! Il camice mi dona , è vero! Ma questo spezzato antracite e giallo, con accessori azzurri non mi sta per niente male.

Un po’ azzardati i colori, è vero, ma in fondo io sono così “azzardato”, “fuori dal comune” ma di “buon gusto”!

Ancora un’occhiata di controllo all’ultimissimo specchio disponibile e poi via…a casa di Sara!

L’invito che aveva ricevuto ad andare a prendere un aperitivo da lei lo aveva colto di sorpresa. Non che non se l’aspettasse viste le occhiate molto allusive che lei gli distribuiva.

Ma proprio quel giorno non ci voleva, aveva infatti trovato il coraggio, dopo averci pensato per giorni, di invitare Alessio ad un’uscita tra uomini. Sarebbero andati un po’ in giro, magari in qualche localino, forse sarebbe nata tra loro una bella storia di amicizia.

Pierantonio   ci  aveva   pensato  un  po’,  ci   teneva   proprio  a   vedere   Alessio,   ma   poi…quel   seno rigoglioso…quelle gambe…

– Mi spiace Alessio, un impegno improvviso, faremo per un’altra volta!

Ed ora da Sara!

Il trillo del campanello quasi stona nella tranquilla calma delle case vicine. Nella strada solo il rumore di una bici.

Dalla casa di Sara un sottofondo musicale, la voce di Renato Zero.

“Il triangolo no, non l’avevo considerato..!”

La porta si apre, Sara è bellissima. Sexy da far paura.

“lui chi è..lui chi èèè..

Ma…c’è anche Alessio! Che ci fa qui?

io volevo incontrarti da sola…mentre lui…lui chi èèè?”

Sono un po’ imbarazzato, ed ora? Alessio pure è imbarazzato. Sara assolutamente no!

mi aspettavo lo sai…un rapporto un po’ più normale…”

Sempre un po’ imbarazzato mi metto comodo, anche Alessio si rilassa. Sara si trova perfettamente a suo agio.

“ ti offrirò una serata strana…il pretesto lo sai: quattro dischi, un po’ di whisky”

Il whisky, i dischi, Alessio, Sara, c’è proprio tutto.
Sì, sarà proprio una serata strana!

Per la serie: Alchimia di storie a più mani

Un porto sicuro – di Franco Bellio, Mimma Caravaggi, Patrizia Casati, Nadia Peruzzi

I cinque anni trascorsi a Padova per frequentare l’Istituto d’Arte Modigliani hanno inciso profondamente nella formazione del carattere, dell’indole e soprattutto nelle aspettative di vita di Bruno. Quando si interroga  non riesce mai a definirsi: si sente un montanaro di città, ma anche un cittadino tra le sue cime. Il fascino delle verdi vallate e la spettacolarità dei Monti Pallidi lo ammaliano sempre, ma si sente ugualmente attratto dalla vivacità delle piazze di Padova, dal chiasso gioioso degli studenti, dai classici ritrovi cittadini e dalle immancabili mete dei numerosi turisti, come la Cappella degli Scrovegni con gli affreschi di Giotto e la grande Basilica dalle cupole bizantine. Padova è sempre la sua  seconda patria, simpaticamente ricordata come la città dei “tre senza” , ovvero del “Santo senza nome” perché il patrono Sant’Antonio è per tutti semplicemente “il Santo”  senza bisogno di ulteriori specificazioni. Il secondo “senza è riferito al “prato senza erba”  cioè la più grande piazza cittadina “il Prato della Valle” , il fulcro della vita sociale padovana, di impianto ellittico, circondata da un canale sul cui ciglio troneggia un doppio anello di statue raffiguranti i  busti dei patavini illustri. Ma Padova è anche la città del “caffè senza porte” ovvero dello storico Caffè Pedrocchi, prestigioso punto d’incontro per intellettuali, accademici, uomini politici, che fino ad alcuni anni orsono restava aperto giorno e notte. Bruno infine rimpiange l’immancabile giro con gli amici e la frequentazione delle numerose, caratteristiche osterie per il rito dell’ombretta (classico calice di vino) o dei più aristocratici aperitivi. Ricorda sempre con nostalgia questo peregrinare tra i lcali che è anche l’occasione per un itinerario davvero alternativo nel cuore della città I ricordi di Bruno non si limitano però soltanto ad una carrellata di immagini, ma nella mente gli turbinano, come in un ritmato e suggestivo refrain, suoni rumori e grida di questa città creativa e dinamica che vive nella vivacità dei mercati e delle piazze affollate. Una sonorità a parte è quella che gli arriva dalla memoria degli innumerevoli bar frequentati, nel regno del frizzante Prosecco e dell’immancabile spriz. Ecco, lo assale allora la risonanza di un vortice di bottiglie stappate, un caleidoscopico scoppio simile a gustosi fuochi d’artificio!

Padova spumeggiante ,potremmo dire,come spumeggiante è Maria Luna con le sue bizzarrie e i suoi colpi di testa. Elettrizzante, intrigante e tuttavia pericolosa.

 Maria Luna veste casual, con forti tendenze al bizzarro, le piacciono i colori forti, le sciarpe avvolgenti e braccialetti e orecchini pesanti e vistosi. Di sicuro pensa che piacciano anche a Bruno, quello che secondo lei è il “suo” uomo e che invece detesta anche solo il rumore dei suoi ninnoli. E’ una bella moretta, con un cesto dicap elli ricci molto lunghi con occhi verdi di uno smeraldo molto intenso. Si occupa di computer e contabilità in una Casa Famiglia molto rinomata a Padova che accoglie bambini disadattati, orfani, autistici e altro. E’ nata in India, da genitori italiani e averci vissuto fino a 16 anni l’ha sempre fatta sentire straniera in qualsiasi posto. Bruno è la sua sfida per mettere radici. Lui vive a due passi da lei in quella vecchia serra ottocentesca annessa alla casa principale, che con una sapiente opera di restauro e’ stata trasformata in uno spazio bellissimo e fuori dal comune. Un open space con tutto il necessario, ben disposto: salotto, tinello e cucina in un unico spazio più due camere, uno studio e due bagni, divisi da muri di

piastrelle di vetro spesso, quasi cubici ma che permettono sempre alla luce di penetrare indisturbata senza mostrare l’interno. Tutte le stanze ricevono luce piena e costante senza bisogno di luce artificiale se non , ovviamente, di sera. Lo spettacolo che può risultare da una serra è inimmaginabile poiché il cielo è il protagonista che incombe sopra il tetto di splendide vetrate trasparenti dando l’impressione di risiedere sopra una nuvola con il sole caldo che illumina di giorno e la sera in compagnia della luna e le miriadi di stelle che si possono ancora vedere non essendo in città. La cosa più bella è poter assistere ad un temporale. Un vero spettacolo. I lampi dei fulmini con i tuoni che li annunciano e il ticchettio intermittente della pioggia sulle vetrate del tetto, accompagna questo particolare spettacolo di suoni e luci. Bruno è molto affezionato alla sua serra. Quando rientra dai viaggi ed entra in questo ambiente bello, particolarmente spazioso con una luce immensa che si incrocia con il sole e il verde delle piante tutte intorno, con il profumo dei fiori come le immancabili rose di ogni specie e varietà così come le camelie di un rosa sfumato e rosso carminio. Ed è qui nella serra che una sera di pioggia un po’ malinconica ML e Bruno si sono amati. Si erano ritrovati, come spesso facevano, a fare una passeggiata nel parco seguiti dal canto degli uccelli e qualche sporadico e saltellante scoiattolo in cerca di cibo, Dopo la passeggiata si erano rintanati di corsa nella serra perché stavano arrivando le prime gocce di pioggia che li avrebbe accompagnati per gran parte della serata. L’abbraccio iniziale era arrivato senza quasi se ne accorgessero. Una serata indimenticabile per MariaLuna ma non altrettanto per Bruno che era abituato ad avere compagnie di donne diverse e che non aveva voglia di legarsi con nessuno. Maria Luna invece non faceva che pensare a lui e alla notte passata insieme sotto il ticchettio della pioggia e poi sotto un manto di stelle brillantissime. Cosi inizia a seguire Bruno in ogni dove. Prende a pedinarlo, camuffandosi in modo grottesco e umiliando l’intelligenza di donna gelosa e innamorata. Finché Bruno accetta un lavoro piuttosto impegnativo all’Abbazia di S.Benedetto Po.

Maria Luna e’ disperata. La casa-famiglia in quel periodo diventa la sua oasi di pace. Anche perché lì lavora Paul lo psicologo del centro. Un mare di calma e tranquillità cui far affidamento nei vortici della vita, ma non sufficiente a placare la tempesta della ragazza.

“ Non andare” aveva detto Paul in uno dei suoi pomeriggi disperati in cui lei aveva cercato nello sguardo magnetico di lui ciò che non sapeva raccogliere.

“ Non andare”, le aveva ripetuto fino all’ultimo momento sapendo bene, per come la conosceva, che sarebbe stato inutile trattenerla lontana da San Benedetto Po.

Infatti ci era  arrivata in un giorno gelido, pieno di neve, senza aver ben chiaro cosa dire a Bruno.

Aveva attraversato la piazza quasi senza vederla, eppure era un immenso rettangolo che sembrava non aver fine. Dilagava oltre la linea segnata dall’ingresso monumentale alla chiesa.

 Un punto di vista quasi scenografico, come una finestra sul mondo, l’altro mondo, quello che forse nemmeno c’era nel Mille attorno a quel complesso esageratamente fuori misura segnato dalla storia.

 La piazza e l’abbazia lanciano ogni giorno il loro messaggio ma Maria Luna non era in grado di coglierlo visto che stava inseguendo una ossessione alla luce della quale ogni realtà è sfocata e in sottofondo..

 Sara invece, man mano, lo aveva compreso e ci si era affezionata. Dal suo punto di osservazione, la cassa del piccolo supermercato nel quale lavorava da qualche tempo, le  risultava difficile decidere se era il monastero a far contorno al paese o il contrario. Ma era un dettaglio.

 Si era sentita stretta in ogni luogo frequentato in precedenza. Lì invece, sentiva di aver trovato casa per la prima volta in vita sua.

Le piaceva sopratutto la mattina presto quando la piazza si ripopolava lentamente, dopo la sosta notturna.

Passanti frettolosi, sempre gli stessi, quasi alle stesse ore. Un gran via vai in cui al tic tac dei tacchi della signora Pina, l’edicolante, si sovrapponeva il rumore delle seracinesche dei negozi che si alzavano e le voci e le risa dei bambini che andavano a scuola.

Fu in una mattina di inverno, con la neve a spegnere i rumori e a coprir di pace antica tutto il paese ,che la sua attenzione fu attratta da un tizio che arrancava a fatica verso il negozio. Un tipo che non le era per nulla familiare e stonava pure un po’ in quel paesone di provincia.

Cappello a tesa larga, quasi felliniano, sciarpa bianca portata con eleganza, un lungo cappotto doppio petto decisamente demodé, malgrado fosse di buona fattura.

Entrò deciso, senza salutare. Aveva capelli brizzolati su un viso da ragazzo, occhi che ardevano di vitalità.

Sara rimase interdetta perché cosi’ da vicino, le sembrò di averlo già visto.

L’uomo si mise a cercare negli scaffali. Non gli ci volle molto a tornare alla cassa con rasoio, schiuma da barba e un deodorante. Sbadatamente non li aveva messi in valigia, le disse.

Le chiese come si accedesse all’Abbazia  visto che il portone della chiesa era ancora sprangato. Era un restauratore d’arte, avrebbe lavorato per un po’ di tempo a San Benedetto Po.

Mentre parlavano lo sguardo di lui da indifferente che era, si accese di interesse.

Qualcosa di remoto lo spinse a chiedere a Sara: “Ci siamo già visti da qualche parte?”

Lei non seppe dir nulla, visto che le sembrava un approccio maldestro e banale di quelli alla così fan tutti e negò.

L’uomo continuava a star lì. C’era qualcosa che lo tratteneva e qualcosa di familiare in quella ragazza.

Il suo lavoro comportava studio e attenzione per i particolari, e questo lo aveva messo in grado di focalizzare anche i più minimi dettagli di una persona che suscitava il suo interesse. Un gesto, un’alzata di sopracciglio, un sorriso, uno sguardo. Ecco, gli venne in mente così.

Quello sguardo lo aveva già incrociato. Una sera di tanti anni prima. Aveva bighellonato per la città senza meta e senza saper cosa fare ed era finito come al solito al Caffé Pedrocchi.

Non c’era gran folla quella sera, pochi i tavoli occupati. Ad uno erano sedute due ragazze che parlottavano fitto fitto fra loro. Ogni tanto lo raggiungeva la voce cristallina di una delle due. La più alta, con una massa di capelli ricci dall’aspetto indomabile, un neo sullo zigomo destro così civettuolo e due occhi da perdercisi dentro.

Bruno aveva iniziato a guardare dalla loro parte. Per un attimo era stato un gioco di occhi negli occhi. Ci aveva scorto curiosità, interesse forse un accenno di promessa. Si era alzato per andare al tavolo delle ragazze proprio mentre stava entrando nel locale una rumorosa comitiva di turisti giapponesi che lo bloccarono.

Quando riuscì a farsi largo, vide le  ragazze sgusciar via veloci. Gli passarono accanto quasi senza vederlo. Non ebbe nemmeno il tempo di lanciare un saluto qualsiasi. Nell’aria era rimasta solo una scia intrigante di profumo fresco e speziato e scampoli di un discorso che accennava a San Benedetto Po. Il fruscio dell’abito di seta che indossava la ragazza era rimasto a lungo nei suoi pensieri.

Eccola qui. Sulla targhetta il suo nome: Sara. Nessun dubbio che fosse lei la ragazza del Pedrocchi.

Un po’ invecchiata, come lo era lui del resto.

La forte attrazione che aveva provato un tempo e per quell’attimo fuggente, tornò a farsi viva e quasi se ne stupì.

A quell’incontro casuale al supermercato ne seguirono altri, cercati, e altri ancora.

Era iniziata così la storia di Bruno e Sara. Quasi per una scommessa col caso e con le sorprese della vita e Maria Luna non aveva potuto far nulla per impedire che accadesse.

“Un ultimo chiarimento” si era detta in quella mattina di inverno e di neve, intabarrata come non mai, quando si era appostata vicino all’hotel dove Bruno alloggiava e aveva deciso di seguirlo fino a quel supermercato, senza che lui se ne accorgesse. Aveva camuffato i suoi tratti con un trucco pesante e con una parrucca del tutto inadatta alla sua persona, che la imbruttiva e la involgariva. Cercava il momento giusto per affrontarlo e parlargli e stava lì appesa al vetro da cui poteva scorgere la sua bella figura che si aggirava nel negozio. Da fuori aveva assistito allo scambio di battute fra Bruno e Sara, le era sembrato banale all’inizio.

Non si aspettava la pugnalata al petto che la colse all’improvviso e la fece barcollare. Gli occhi di Bruno ad un certo punto si erano accesi, vi aveva scorto un fluire di sentimenti che la lasciarono senza fiato. Non l’aveva mai guardata cosi’ il “suo” Bruno, nemmeno dopo quell’unica notte d’amore alla serra .

Era sconvolta. Si giro’ di scatto e quasi travolse una signora che stava per entrare nel negozio. Corse via, cadde più volte scivolando sul ghiaccio in quella piazza che sembrava ora solo  un incubo che non aveva fine per quanto corresse a perdifiato. Perse la parrucca,si bagnò i capelli,il trucco si sciolse in una maschera mista di neve,acqua e lacrime irrefrenabili. Il mondo le stava crollando addosso. Il miraggio che l’aveva sostenuta per molto tempo si era dissolto in un attimo lasciandola straziata .

 Se avessi dato retta a Paul, si disse, mi sarei risparmiata tutto questo.

 Ad un tratto venne distratta da una allegro e chiassoso gruppo di hare krishna che invasero la via in senso contrario al suo cammino; la festosa combriccola  procedeva gioiosamente cantando e ballando e offrendo minuscoli dolcetti agli astanti, ricevendo in risposta le più disparate reazioni: attenzione, curiosità, compiacimento, fastidio, ironia, sarcasmi, improperi. MariaLuna non venne certo condizionata da quella buffa carnevalata, ma automaticamente le ritornarono alla mente scenari della sua infanzia trascorsa in India, dove la pratica induista è largamente diffusa, intesa più come modo di vivere che astrusa religione;  non esiste un vero e proprio sistema di norme da rispettare, ma un insieme di ideali da perseguire. Secondo l’induismo sono i beni materiali a rendere schiavo l’uomo che rischia di perdere sé stesso, mentre con l’aiuto della meditazione e degli esercizi yoga  oltre a ritornare padrone del suo corpo torna in grado di  raggiungere il senso di benessere interiore e di pace  vero toccasana rispetto alle angosce e ai turbini dell’esistere.

 Come per una folgorazione MariaLuna finalmente intuì le cause del suo malessere, si rese conto di essere troppo fragile per affrontare le delusioni che le procura la vita nel mondo occidentale e, forse per un inconscio richiamo alla propria infanzia, aprì la sua mente ad una nuova prospettiva, quella di un ritorno in India per trovare finalmente un equilibrio interiore nei rituali sanscriti dell’induismo. Sarà un caso o un segno del destino che a pochi passi nella via che stava percorrendo scoprì l’invitante insegna di una fidata ed attrezzata agenzia di viaggi…

Per la serie: Alchimia di storie a più mani

 MARE  APERTO – Di Chiara Bonechi, Tina Conti, Carmela De Pilla

 “Amelia”

Quando la nonna le aveva suggerito di trascorrere qualche settimana nell’azienda del suo caro amico Lapo, al Cerreto, Amelia fece un po’ di resistenza ma aveva troppo bisogno di staccarsi da Duccio  e doveva allontanarsi al più presto da Firenze.

Arrivata alla villa tutti cercarono di metterla a proprio agio, perfino il vecchio amico della nonna dal carattere un po’ burbero;  gli faceva piacere parlare di Lina, ricordava con nostalgia i tempi in cui gestiva la ” Fattoria Sassano ” in quel piccolo paese del Sud. D’altra parte Amelia assomigliava a sua nonna, fisico asciutto e ben proporzionato, esile e longilineo, tutto sembrava dipinto nella sua figura perfino gli occhi azzurri come il mare della Sicilia.
I lunghi capelli biondi che teneva sciolti nascondevano la sua timidezza e uno strano disagio che percepiva ogni volta che doveva parlare.

-Amelia, non dici nulla? Te ne stai sempre zitta in un angolo!!

Le odiava quelle parole, sempre le stesse, più si sforzava di parlare e più le labbra restavano serrate, i  discorsi rimanevano pensieri chiusi nella mente e tutte le volte ne era delusa.

Era piccola quando si presentò quella balbuzie, tutti ci ridevano sopra e lei inconsapevolmente accentuava ancora di più quei suoni buffi credendo di essere divertente, ma Amelia era cresciuta e non rideva più.
Quel prolungamento di suoni, quelle sillabe ripetute suo malgrado la mettevano a disagio, passava ore chiusa in camera a parlare davanti allo specchio, ma quelle consonanti, sempre le stesse, si bloccavano con forza sulle labbra.
Doveva riuscirci, ma più si sforzava e più la lingua s’irrigidiva, i muscoli della mandibola si appesantivano e il respiro diventava  spezzato.

Quando si sentiva affranta si recava sulla spiaggia ancora deserta e faceva lunghe camminate a piedi nudi, da una parte il mare dall’altra una vegetazione selvaggia. Il corbezzolo e il mirto facevano da padroni, ai piedi la rucola selvatica e i gigli marini con il loro profumo intenso.
Le piaceva passeggiare quando il mare era in tempesta, le onde spandevano nell’aria un suono che si ripeteva con lo stesso ritmo, l’aiutava a ritrovarne uno dentro di sé che spesso era disordinato e caotico. Guidata dalla musica del mare e del vento canticchiava, con voce malinconica, una nenia e via via si placava quella turbolenza che le schiacciava il petto.

Quel giorno era particolarmente spossata, così decise di recarsi al mare per ripetere il solito rito, si guardò intorno e sicura che non ci fosse nessuno cominciò a cantare, prima con voce soffusa poi sempre più forte fino a intonare una canzone a squarciagola.
Si accorse così che le parole scorrevano fluidamente senza impuntarsi o balbettare come se avesse trovato improvvisamente il sentiero per tornare a casa dopo essersi persa, aveva capito che quella musica amica le dava l’equilibrio, tanto cercato, per lanciarsi finalmente nel mondo delle parole.
Aveva registrato la musica del vento e del mare per riascoltarla nelle giornate fredde; si chiudeva in camera e cantava, cantava per sé.

In casa era diventata un’ossessione, ma nell’intimo erano tutti contenti perché quando cantava dimenticava di balbettare. Più felice di tutti era la madre che, vedendola più serena, la iscrisse al coro della parrocchia e fu subito chiaro che Amelia aveva un talento naturale.
In poco tempo diventò la pupilla dell’insegnante che le consigliò di frequentare il conservatorio a Firenze.

Con la mente già si proiettava in quella città bellissima e l’emozione per un’ esperienza che le avrebbe cambiato la vita era molto forte, col cuore trepidava per il timore che la Sicilia, il mare e la famiglia le sarebbero mancati.
Aveva paura, una paura nuova che decise di sconfiggere con la stessa caparbietà con cui aveva affrontato e sconfitto la  balbuzie.

Chi le voleva bene la incoraggiò, la sostenne e Amelia partì.

Firenze le sembrò subito amica, il monolocale che abitava nella zona del Salviatino al piano alto era accogliente e dalla finestra poteva scorgere le colline fiesolane e le fronde dei grandi pini del giardino, perfino il cinguettio dei passerotti e l’ abbaiare dei cani al piano di sotto le facevano compagnia e presto non pensò più al mare della Sicilia.
Aveva la fermata dell’autobus vicina e poteva raggiungere in poco tempo il Conservatorio. Attratta e appassionata dallo studio, avvolta nella comodità della nuova casa, le bastò poco per sentirsi a proprio agio nel  quotidiano. E ancor di più si sentì bene quando, uscendo per buttare la spazzatura, un ragazzo fermò il motorino vicino a lei e le chiese: ”Come ti trovi nella mansarda di mia nonna?”
Fu così che incontrò Duccio.                                                                                                                 

Duccio aveva 23 anni, capelli neri con taglio regolare, occhi scuri e penetranti che colpiscono al primo sguardo e denotano vivacità intellettiva, non era molto alto ma ben proporzionato, pur avendo una corporatura robusta non aveva un filo di grasso e i muscoli delle cosce erano tonici. Vestiva in modo sobrio, semplicemente ma con gusto, indossava jeans e spesso maglioni blu, stile inglese.

Era sempre stato un bambino tranquillo e diligente, in famiglia ricoperto di attenzioni, mai soffocato e con spazi di libertà per le proprie scelte. A scuola e negli ambienti sportivi era riuscito a trovare molti amici, lentamente si era costruito una sana autostima.

Duccio studiava ingegneria all’università di Firenze, amava il gioco di squadra e amò Amelia per diversi anni. Era un ragazzo serio che sapeva organizzarsi; lei era affascinata per come riusciva a conciliare lo studio, lo sport, il tempo per lei e per gli amici. Le capacità intellettive e una famiglia agiata e serena avevano reso la sua vita piuttosto facile, era portato a parlare di musica e di sport, di mondi sconosciuti, di motori e di meccanica, di informatica ed elettronica, argomenti su cui era un piacere sentirlo disquisire.

Durante le loro passeggiate diventate quasi quotidiane, Amelia aveva scoperto  Duccio ed aveva lasciato che lui la conoscesse, i racconti delle loro vite si susseguivano, si intrecciavano, divennero una sola cosa e il loro amore durò a lungo.
Poi quella mano che lo teneva stretto nei pomeriggi dopo lo studio, nelle passeggiate rigeneranti dopo la fatica, piano piano, senza un reale perché, si allentò fino a sciogliere del tutto la presa e lui si sentì perso, impreparato ad affrontare il primo vero grande dolore della sua vita.

Lei c’era sempre stata, era sicuro del suo amore.
I loro incontri erano diventati però  veloci, un caffè al bar sotto casa, il racconto degli  impegni, un bacio e “a domani”.
Non c’era tempo per i progetti insieme, per programmare qualche fine settimana lontano da Firenze dove trascorrere ore tranquille. Amelia pensava che forse in un altro luogo non avrebbe colto nello sguardo di Duccio e nel movimento del suo corpo la fretta di correre via, forse si sarebbe di nuovo abbandonato a lei.
Ma questi rimanevano pensieri perché ad ogni sua proposta si sentiva rispondere “non so, sarà difficile, l’esame si avvicina, ho la partita, meglio più avanti”.

Cominciò a chiedersi quale fosse il suo  ruolo nella vita di Duccio, si volevano molto bene ma, mentre lei  lo aveva sempre ascoltato, compreso e sostenuto, lui non sembrava accorgersi più dei suoi bisogni e delle sue passioni, non si rendeva conto che nel fluttuare dei tanti impegni mancava uno spazio per lei. Gli erano necessari i suoi baci e le carezze, il contatto con le sue mani sottili e morbide, ma era solo a se stesso che tutto doveva rifluire. Amelia con lui vicino, respirando profondamente il calore che si sprigionava dal contatto con la sua pelle, riusciva per brevi attimi ad essere ancora felice.

Un pomeriggio, allentando la presa delle mani che si intrecciavano ad ogni loro incontro, lei glielo disse, non voleva stare più con lui.
Duccio la guardò incredulo, era uno scherzo?
Poi la osservò come non faceva da tempo, vide nel suo uno sguardo gelido, fermo, triste, e capì che era tutto vero, non avrebbe recuperato con nessuna promessa quello che stava perdendo e pianse. Pianse per molti giorni, niente aveva più un contorno nitido e ben definito, si sentì perso e solo.
La sicurezza e la tranquillità che continuava a ricevere in famiglia non lo sostenevano più, sentiva adesso la necessità di uno spazio suo e il bisogno di costruirsi una forza che non derivasse da altri ma solo da sé.

Amelia aveva lasciato così il monolocale del Salviatino e era partita per il Cerreto.

 “Al Cerreto”

Nonno Lapo aveva avuto in eredità la bella proprietà  del Cerreto da una zia materna ai primi del novecento. Era un’azienda  molto florida, i poderi erano ben coltivati e tante famiglie  abitavano nei casolari garantendo buone entrate.

Fresco di studi e ambizioso, il nonno aveva sperimentato colture nuove e introdotto razze di bovini resistenti alle malattie. Quando a cavallo si aggirava per i campi in compagnia del fattore, godeva di quelle distese di foraggio, delle colture di cereali e si intratteneva volentieri  con i contadini.

Era andato a vivere al Cerreto prima di completare gli studi e la vita di campagna gli consentiva di mettere in pratica quello che studiava.

Da allora si era sempre interessato all’andamento dell’azienda ma da quando il figlio ne aveva preso le redini, si accontentava di esprimere un’opinione o di sostituirlo per le vacanze.

Bernardo, il nipote che tanto aveva atteso, sicuramente non avrebbe proseguito l’attività, il lavoro a Milano lo assorbiva completamente.

Ultimamente però la sua passione per  l’allevamento delle pecore lo aveva fatto ricredere.

Notava una trasformazione in lui, adesso passava molto tempo libero in fattoria e l’idea di trasformare i locali, non più utilizzati, per un grande laboratorio  artigianale  lo avevano sorpreso,  si sarebbe davvero stabilito anche lui al Cerreto?
“Il signorino” così un tempo veniva chiamato in campagna il giovane erede maschio delle famiglie benestanti e solo gli operai più anziani a volte chiamavano Bernardo così anche se lui non faceva parte di quella generazione;  era un giovane dinamico nonostante la sua leggera zoppia, allegro e cordiale con tutti, sicuro di sé, con un ciuffo ribelle sulla testa che fin da piccolo aveva sfidato a colpi di spazzola e acqua.
Aveva occhi azzurri, intensi ma delicati che proteggeva con originali occhiali da sole, un vezzo al quale non rinunciava mai.
Portava capelli lunghi e curati  in inverno, li tagliava drasticamente in primavera insieme alla folta barba.
Amava vestirsi comodo e sportivo anche se per il suo attuale lavoro doveva essere moderatamente formale; questo però non lo tratteneva dall’indossare gilè colorati e sciarpe fantasia provenienti dal laboratorio di casa.
Era molto ammirato e seguito dai giovani colleghi di Milano che lo incoraggiavano chiedendo quegli accessori per il loro guardaroba.
La lavorazione delle lane prodotte e la realizzazione dei capi di abbigliamenti iniziata quasi per sfida e divertimento nelle due stanzette della fattoria, con l’aiuto degli amici nei momenti liberi, sarebbero potute diventare il suo nuovo lavoro.
Con il padre aveva coltivato la passione per l’allevamento di pecore di una razza speciale che fornivano lana molto richiesta, insieme avevano dedicato tempo ed energie per selezionare animali che davano un prodotto nuovo.
Nuvoletta, un’agnellina che per la sua storia travagliata aveva avuto un trattamento speciale, si era tanto affezionata a Bernardo che lo seguiva dappertutto, sentiva la sua macchina arrivare e scalciava per essere liberata.

Quando Bernardo era alla fattoria dormiva nel sottoscala, nella cuccia del maremmano.

Alle fiere i capi migliori partecipavano alle esibizioni e tornavano con bei campanacci al collo tutti infiocchettati.
Il suo sogno era allargare l’attività e nei vecchi magazzini impiantare una produzione artigianale di manufatti di lana con tecniche innovative per pezzi unici.

Le ferie accumulate negli ultimi due anni gli permisero di dedicarsi al suo progetto. Ogni giorno un’idea nuova messa su carta e accompagnata da un bozzetto.
Che energia!
A volte si sentiva così eccitato e contento che faticava anche a dedicarsi al riposo e agli esercizi per il suo piede.
Appariva in ottima forma, bel colorito, sguardo allegro e disponibile ma aveva rallentato l’attività fisica e il piede ne risentiva.

Bernardo insisteva  con il  padre per uno spazio polifunzionale al posto di una zona solo commerciale da sfruttare per incontri, conferenze e all’occasione anche per concerti.

Per prima cosa voleva studiare l’acustica, era convinto che si creasse già una situazione magica in quello che era il granaio e che sarebbe diventato lo spazio di relazione. Quando Nuvoletta entrava nel granaio e si metteva a belare, i suoni salivano e si modulavano come non sentiva da altre parti.

I lavori proseguivano con qualche modifica data da idee e desideri che sopraggiungevano, nel laboratorio di Giulio si riparavano le assi per i pavimenti recuperando vecchie botti.

Anche gli arredi accatastati nel magazzino  della casa del nonno ritrovavano nuova vita.

Bernardo sentiva di non appartenere più al mondo di Milano.

Amelia era arrivata lì di sabato mattina, si era persa per i poderi del Mugello prima di individuare la tenuta, non le era dispiaciuto  però vagare per quella campagna fresca e coltivata.

Aveva trovato  un bel fermento al Cerreto, betoniere in movimento, assi, pietre,  montagne di sabbia, era tutto un cantiere, solo il giardino era risparmiato.

Le era venuto incontro, da sotto il grande cedro, un giovane alto e riccioluto, dolce, aggraziato eppure forte e deciso, con il piglio di chi la vita la sa affrontare.

Appena si era mosso verso di lei aveva notato quel suo modo di camminare un po’ difficile  ma che subito le aveva ispirato tenerezza e simpatia.

Aveva il viso colorito dal sole e i capelli impolverati con un ciuffetto di lana che dondolava da un lato, frutto delle coccole che dedicava a Nuvoletta.

Alla luce chiara della campagna  lui si era lasciato incantare dal modo di camminare della ragazza e dai colori tenui del completo che indossava.

I capelli lunghi che ondeggiavano la proteggevano  e allo stesso tempo  la valorizzavano. Lui si era scusato per non aver ancora potuto fare una doccia ma era arrivato un camion con le pietre da Firenzuola e aveva dovuto aiutare a scaricare. Le aveva chiesto se era la nuova collaboratrice di Brigitte, il suo architetto, ma Amelia aveva risposto che era un’ospite del nonno.

Alla fattoria il tempo sembrava essersi fermato da quando Amelia era arrivata, passavano i giorni e i lavori procedevano senza intoppi, si cominciavano a vedere ambienti luminosi e colorati, il granaio poi era diventato uno spazio davvero sorprendente.

Amelia si muoveva con discrezione, osservava e faceva lunghe camminate per i campi.

I genitori di Bernardo erano discreti con lei, non indagavano sul suo vissuto, si viveva all’oggi.

Ormai erano molti i momenti che i due giovani passavano insieme, per conversare sull’arte in Toscana, sulla musica, litigare su Verdi o Puccini, andare per mercati.

Bernardo aveva fatto accordare il pianoforte per i brani che lei studiava ogni giorno.

La presenza della ragazza siciliana si sentiva ovunque, anche nelle scelte che  garbatamente aveva suggerito sull’utilizzo dei vecchi arredi.

 “La scoperta”

Quel giorno Amelia entrò nella grande sala con il pavimento di marmo ben lucidato e dove la credenza con intagli floreali metteva in risalto l’antico splendore.

Tre porte di legno massello con gli stipiti imponenti portavano in altre stanze, i grandi dipinti alle pareti e la penombra le suscitavano inquietudine così accelerò il passo, ma la luce proveniente dallo studio di nonno Lapo la spinse a soffermarsi: una grande libreria, un grammofono ancora giovane appoggiato su un tavolino intarsiato e una scrivania stile déco.

Girava lo sguardo dappertutto per non farsi sfuggire nulla poi i suoi occhi si soffermarono con discrezione su quelle foto, immagini di donne che mostravano la loro bellezza con grazia e semplicità e di uomini che la scrutavano con aria severa ma benevola; poi il suo sguardo fu catturato dalla foto di un bambino, avrà avuto otto o nove mesi, biondo, con le guance paffutelle, sdraiato prono su un grande letto, sembrava che la guardasse Era la stessa foto che aveva visto sul comò di nonna Lina, non sapeva chi fosse perché la nonna non amava parlare di quel bambino, nemmeno il nome si sapeva.

Ma come poteva essere? Perché la stessa foto stava lì? Una in Sicilia e l’altra in Toscana!

Amelia era confusa, disorientata, non riusciva a darsi una risposta, prese la foto e scappò chiudendosi nella sua camera, la riguardò e nel bambino vide gli stessi occhi di Bernardo: quale connessione c’era tra lui e sua nonna?

Dalla finestra della camera osservò la campagna intorno, fu invasa dai rumori che per mesi le avevano tenuto compagnia, il belare delle pecore, l’abbaiare dei cani, il muggito delle mucche, il parlottio e lo scalpiccio degli operai che andavano e venivano, il tonfo degli attrezzi riposti sotto i loggiati e pensierosa tenne fra le mani quella lettera, di nuovo si trovava di fronte ad una scelta. Non avrebbe voluto lasciare il Mugello, la tranquillità che quel luogo le aveva regalato dopo la separazione da Duccio, non avrebbe voluto lasciare Bernardo ma quell’amore da poco nato era presto diventato forse impossibile e lei doveva capire, scoprire la verità.

Aveva ricevuto proprio il giorno prima quella lettera e forse il destino voleva aiutarla. La lesse di nuovo.
Stava nascendo una scuola di canto a Catania e ne avrebbero affidato la direzione a lei.

Aveva studiato con profitto, si era laureata al Conservatorio e poteva, anzi doveva accettare quel ruolo che le avrebbe permesso di restituire qualcosa di sé alla sua terra. La parentesi toscana finiva lì. Un lavoro così importante avrebbe giustificato agli occhi di tutti quella partenza improvvisa, non sarebbe stata necessaria nessun’altra spiegazione e anche Bernardo avrebbe capito.

Quando decise di partire aspettò che non ci fosse nessuno da salutare.
Osservò per l’ultima volta la campagna complice del suo amore, poi lasciò cadere le lacrime liberamente senza alcun freno. Dietro di sé aveva lasciato una lettera.

Caro Bernardo,
in te ho trovato l’amore che ho sognato da sempre, quello che fa parlare il cuore, quello che si legge negli occhi, so che soffrirai per la mia partenza, anch’io ne soffrirò ma devo mettere ordine agli eventi che riguardano la mia vita e forse anche la nostra.
Quando saprò la verità tu sarai la prima persona a sapere.

Continua a sognare…se ci crediamo i sogni qualche volta si avverano.
Amelia

Impiegò due giorni per raggiungere la Sicilia fermandosi a dormire in un piccolo paese della Calabria, non voleva arrivare troppo stanca.
Aveva avvertito i suoi solo qualche ora prima per non sentirsi tempestare di domande e quando entrò in casa la guardarono con aria interrogativa, lei tirò fuori la lettera del conservatorio e la lesse, ne furono tutti felici, orgogliosi e l’abbracciarono con vigore.

Le rimanevano due giorni di tempo prima di prendere servizio, doveva fare ordine tra la confusione delle ultime cose accadute e trovare il coraggio di affrontare nonna Lina.
L’occasione si presentò la mattina seguente, la nonna si era alzata come al solito presto e le aveva preparato il dolce  alle mele, il suo preferito; quando Amelia era andata in cucina per la colazione l’aveva trovata lì, intenta a fare il caffè.
Non c’era nessun altro in casa e lei era ancora assonnata, non aveva voglia di affrontare l’argomento ma la nonna le fece subito mille domande sul suo amico, erano anni che non si vedevano, le chiese come stava di salute, come andavano le cose nella tenuta, come stava …..sua figlia… voleva sapere tutto.

Sua figlia…??

Il sonno le era passato e tutto le apparve chiaro, scappò di corsa in camera a prendere la foto che aveva voluto portare con sé e senza dire una parola gliela mostrò.
Nonna Lina impallidì, la prese e la portò al seno, poi con gli occhi lucidi guardò la nipote e  incominciò a raccontare in un dialetto siciliano che anche Amelia faceva fatica a capire.
-Ero molto giovane e bella, così dicevano, la mia vita era come quella di tutte le altre ragazze, ogni giorno uguale a un altro, monotono, noioso. Nel pomeriggio ci sedevamo sulla soglia di casa a narrare delle poche cose che succedevano in paese, l’unica nota piacevole era fare lo struscio lungo il corso nelle serate estive, ma io ero diversa dalle mie amiche, non mi bastava tutto ciò e quando seppi che la contessa Sassano cercava una ragazza che l’aiutasse in fattoria mi presentai subito.

Lina si rattristò ancora di più, faceva fatica a parlare poi si schiarì la voce e continuò:
-Fu lì che conobbi Lapo, il nonno di Bernardo, era alto, bello, sempre allegro, con la battuta pronta e ci innamorammo subito, fu un amore dolce e profondo, nessuno dei due poteva fare a meno dell’altro, ma ben presto ci sentimmo travolti da un triste destino che ci obbligò a rinunciare per sempre al nostro amore.

Amelia ascoltava la nonna in silenzio, non era arrabbiata con lei, anzi ora le faceva quasi tenerezza, sembrava che raccontasse la sua storia.

-Sapevo che era già sposato con una ragazza di Firenze, ma il nostro amore era più forte di ogni altro legame e quando rimasi incinta mi portò con sé dicendo a mio padre che sua moglie aveva bisogno di una ragazza di fiducia. Lei non riusciva ad avere figli perciò quando seppe la nostra storia ne fu quasi felice, perdonò suo marito e mi propose di adottare il bambino. Nacque una bellissima bambina che io potei tenere con me solo tre mesi, dovevo ritornare a casa con il mio dolore.

A questo punto Lina era spossata, respirava con fatica e piangeva, piangeva senza emettere alcun suono come aveva fatto per tanti anni nascondendo a tutti il suo segreto.

-Era buono Lapo e innamorato, separarsi fu una grande sofferenza per tutti e due, erano altri tempi quelli, mio padre mi avrebbe tolto la parola se gli avessi detto la verità, non potevo entrare con violenza nella loro mentalità, c’erano delle regole da rispettare. Ho pianto in silenzio finché non ho avuto più lacrime da versare.
Lapo è stato sempre gentile con me, mi mandava notizie della bambina,  sapevo tutto di lei ma non la potevo abbracciare. Quando nacque Bernardo mi mandò la sua foto che io ho custodito con amore senza dire mai chi fosse.

Amelia si sentiva lacerata, squarciata dentro non solo per la triste storia della nonna ma anche per il suo amore impossibile.
Lina era lì davanti a lei, sembrava più piccola del solito, curva su se stessa, il volto rivolto sul grembo e un forte imbarazzo che le impediva di guardare in faccia la nipote.

-Non mi giudicare Amelia.

-E chi sono io per giudicare? Non hai sbagliato tu nonna, erano i tempi sbagliati, ora che so ti voglio ancora più bene.

L’abbracciò con delicatezza e le dette un bacio sulla guancia bagnata.

Doveva dire a Bernardo la verità, lui avrebbe capito, erano giovani e il dolore di un amore irrealizzabile si sarebbe pian piano attenuato.