Per la serie: Alchimia di storie a più mani

Il soffio del tempo – di Vanna Bigazzi, Mirella Calvelli, Luca Di Volo, Roberta Morandi

 Lo spettacolo era grandioso.

Come un’aquila posata sul suo nido inaccessibile, l’Abbazia coronava lo sperone roccioso che la sosteneva, affondando  l’agile campanile nel cielo azzurro pallido del primo mattino.

La severa architettura romanica, appena ingentilita da qualche ornamento o scultura meno minimalista, proclamava l’unicità della salvezza e nel contempo ammoniva il mondo mostrando la concreta immagine del luogo in cui trovarla.

Una cerchia di mura poderose però tracciava un solco invalicabile, quasi a proclamare il confine materiale tra l’umano, peccatore e blasfemo e un universo, pallida ma suggestiva evocazione della Gerusalemme celeste.

La funzione del Mattutino era appena finita e l’alba stava cominciando ad indorare le statue che decoravano il portale della chiesa abbaziale con ombre affascinanti e terribilmente evocative, per chi avesse saputo leggerle.

Nell’immenso scriptorium un monaco novizio, appena uscito dalla liturgia, sedeva un po’ rannicchiato sul suo sgabello. Era la sua settimana di turno come copista e miniatore, un’attività che lui attendeva sempre con piacere. In effetti era l’unica attività del monastero che lo entusiasmasse veramente, a parte la preghiera e il lavoro nell’orto. Prendeva molto seriamente la severa regola Benedettina dell’ora et labora…

In quel momento, però, impiegava oziosamente il tempo scribacchiando sull’orlo della preziosa pergamena sciocchi indovinelli e insulse sciarade, solo per il piacere di sentire la penna che graffiando il foglio ruvido rimandava uno scricchiolio, quasi a dire che tutto funzionava bene.

Quella volta il suo lavoro consisteva nel restauro di un’opera unica e rara: nientemeno che un incunabolo contenente il “De rerum Natura” di Lucrezio. Uno strano autore che, dicevano i contemporanei, scriveva “per intervalla insaniae”, cioè solo nei momenti lucidi, tra una crisi e l’altra. Lotario, questo il nome del novizio, era affascinato da quella teoria degli atomi: tutto era fatto di atomi, anche la luce…E chissà quali erano gli atomi che componevano quella creatura di luce che a volte raggiungeva l’Abbazia nei giorni di mercato.

Intanto………

Quell’appellativo, l’aveva fatta sempre sorridere: La Maga delle Erbe!!!

Certo è che quando c’era lei in casa e soprattutto in cucina era difficile concentrarsi.

Commentava ad alta voce, spostava e traeva conclusioni, anche su cose di cui non conosceva assolutamente nulla.

Ecco perché, molto spesso, per sfuggire all’inquisizione della sorella, si rifugiava all’Abbazia in cima alla collina.

Era una consuetudine per gran parte degli abitanti del villaggio raggiungere quel luogo “divino”.

Ma il suo legame con l’antico maniero era davvero speciale.

Fin da piccola, grazie alla compiacenza dei frati e alla zia Marta, le era permesso correre attraverso l’immensa cucina, nascondersi dietro la madia o giocare nell’acquaio di pietra serena con le sue paperelle colorate.

Là tutto aveva dimensioni importanti e anche adesso che non era più una bambina, tutto richiamava all’incontro con l’Altissimo.

La cosa curiosa era che anche quando non c’era nessuno, la cucina sembrava vivesse. Respirava, raccoglieva rumori antichi di sandali o di vecchi scarponi infangati che l’avevano percorsa per le motivazioni più disparate.

Qui riusciva, però a  concentrarsi, ad approfondire a sperimentare, con l’ausilio di testi antichissimi e  con l’esperienza di frate Bernardo, grande conoscitore di erbe e radici..

Lui si che sapeva trasformare un semplice miscuglio erbaceo in pozioni medicamentose!! Conosceva l’essenza del rimedio o del danno.

Le finestre alte sopra l’acquaio, facevano filtrare la luce del sole attraverso le sbarre, luce che andava a rischiarare, come una meridiana il grande tavolo in marmo, riuscendo a scaldarlo in un punto preciso a seconda delle ore e della stagione.

Magico lo era davvero quell’ambiente, aveva vissuto attraverso i secoli, le sue mura erano impregnate di odori e fumi, avevano ascoltato canti e liturgie, grida e risa.

Aveva accolto e sfamato pellegrini e viandanti, rifugiato perseguitati. Si era avvolta di luci e colori. Udito i colpi di coltelli e mannaie, ospitato le  grida fioche di animali nell’ultimo istante di vita.

Odorava di fresco l’estate e di caldo umido nelle serate d’inverno, rischiarate dal fuoco del grande camino e dal suo crepitio.

Il grande pavimento sconnesso aveva sentito il fruscio delle lunghe vesti e lo scalpiccio di poveri sandali, adesso viveva sotto i suoi passi leggeri.

Quella mattina era arrivata di buon’ora all’Abbazia ma  la cucina era stranamente vuota. Frate Bernardo, che abitualmente era ricurvo sul tavolo ad armeggiare con i suoi intrugli non era li.

 Mise  su, allora,   il bricco dell’acqua, come faceva di solito, non appena arrivava in quel luogo, e distrattamente   iniziò  a sbirciare e seguire segnali che potessero giustificare quell’assenza inconsueta. Solo il fischio assordante e il pennacchio fumoso e bianco del bricco la ricondusse al presente.

Un leggero soffio, un passaggio veloce e le pagine di pergamena dei libri dello scriptorium hanno un  sussulto, ma niente di più, tanto sono spesse e ancor più  appesantite dall’inchiostro colorato delle miniature, e come sono belle con quelle lettere disegnate e colorate con fiori e fregi. Ma Berta non sa chi è e perché è  lì,  conosce solo il suo nome, essendo l’ultima parola che ha sentito di là  da dove è  venuta,  già ma cosa è  “di là” non lo sa né sa perché è  lì in mezzo a tutti quei libri e a tutti quegli uomini con la testa semipelata.

Vede tutto ed è  riuscita a sapere tutto di quella gente, li conosce bene, ma non sa niente di sé, neppure conosce il suo aspetto, sa solo di essere una giovane ragazza e quando passa e fa volare le cose, loro si agitano e lei si diverte e riprova, e ancora riprova con un gusto fanciullo, ed ogni volta è diverso.

Sì dice che se un fantasma riesce a specchiarsi, poi, se vuole, può farsi vedere nelle forme originali, per cui  Berta cerca disperatamente qualcosa su cui specchiarsi, ma in un monastero benedettino non è  cosa facile.

Berta sa che dovrebbe essere bella, sente il fruscio dei suoi abiti e talvolta un leggero tintinnio, forse gioielli.

Oh se qualcuno di quei fraticelli potesse dirle chi è e perché è lì! Ricorda poco e a tratti, se vede o sente qualcosa che le par familiare, allora ha dei ricordi, dei flash back di un passato, quanto lontano non riesce a capire. Ha sempre un gran caldo che forse qualcosa del suo passato, ed è  per questo che non cammina ma svolazza? Le piace tanto passare sopra le teste dei fraticelli intenti a ricopiare manoscritti, a volte si sofferma a leggere, già Berta sa leggere molto bene per essere una femmina.

È curiosa di tutto e per questo si intrufola ovunque, dalle dispense alla cucina, dall’orto dei semplici dove coltivano le erbe che lei conosce perfettamente, adora infilarsi nel locale della  manipolazione  e conservazione dei preparati che servono a curare tutti i malanni. Le piace sbirciare quello che fa il frate farmacista: prova a mescolare e talvolta si diverte a ingarbugliare le erbe facendole volare, e poi assistere al disperato tentativo del frate di rimettere le cose a posto. Si si fa delle matte risate, peccato che nessuno la vede o sente.
È  affascinata da tutti quegli odori, ma soprattutto la incuriosisce l’armadio dove vengono essiccate: è lì che ha avuto i primi ricordi di sé. 

Quegli ambienti, di solito silenziosi e odorosi, solo appena scossi dal sobbollire dei pentoli sul fuoco, dal gorgoglio degli alambicchi e di tanto in tanto dal cigolio dell’armadio essiccatoio che si apre e  chiude, ora sono riempiti quasi per intero da uno scalpiccio nuovo, non sono i soliti passi di frate Bernardo, quasi un ticchettio un po’ nervoso, a tratti veloce.  Si nasconde, si fa per dire, dietro l’armadio per sbirciare quei passi così diversi e inusuali in quel luogo. Ecco, arrivare dal portico, una figura femminile che non aveva mai visto, svolazzante e leggera in quegli abiti lunghi e colorati, bionda, magra con un sorriso simpatico e due occhietti vispi e sapienti.

  • Ecco forse questa mi può vedere!   Ehi te, ciao, chi sei? Mi vedi?

Non la vede, neppure Luisa può vedere Berta  nonostante il suo sbracciarsi e svolazzare intorno, e poi che ci fa questa nel regno del frate erborista?

Ecco che Luisa  apre l’armadio

  • Che buon odore di pimpinella lavanda e mentuccia!

Luisa apre la sua sacca e ne tira fuori delle lenti per leggere meglio le etichette, d’improvviso una luce taglia la stanza e si riflette nelle lenti e come una lama attraversa Berta che per un attimo diviene visibile, Luisa che certamente non si aspetta quella visione ha un sobbalzo, fa un passo indietro e le cadono di mano sacca e lunette, urta col fianco  il tavolo con gli alambicchi  e con il viso trasfigurato più dallo stupore che dalla paura, cade a sedere in terra, occhi stralunati  e fissi sulla figura di Berta.

Un attimo, solo dopo un brevissimo istante di primo stupore echeggia per le stanza una grande e sonora risata, anzi due e per la prima volta Berta sente la sua voce:

  • Mi vedi, si mi vedi, oh finalmente! E mi senti anche? Chi sei, come ti chiami che ci fai qui e cosa cerchi e…
  • Uhe  bimba calma! una cosa alla volta! certo che ti vedo e ti sento, e ora scendi dall’armadio.

Ma in un attimo la luce cambia inclinazione e il riflesso scompare nell’eco delle risate.

Fu in quel preciso momento che Fra’ Gustavo entrò nella cucina e  scrutò Luisa come si fa con un cagnolino e poi con voce accorata le disse che fra’ Bernardo non era lì oggi, non si sentiva molto bene e stava riposando nella sua cella.

Lì per lì Luisa si preoccupò, perché quella voce stridula e lo spostare molle della testa da sinistra a destra le fece presagire niente di buono. Ma in fondo fra’ Gustavo era sempre un po’ melodrammatico, quindi allargò le spalle e si ripropose di andarlo a trovare poco dopo. Con estrema premura chiese se nel frattempo poteva scendere nella biblioteca.

Fra’ Gustavo annuì e con passo felino abbandonò la stanza.

Anche la Biblioteca era per lei affascinante, detentrice di tanto sapere. L’odore della polvere e dell’umidità la contraddistingueva.

Era un privilegio accedervi, solo pochi estranei vi erano ammessi, lei era una di questi.

La scala a chiocciola produceva un morbido scricchiolio ad ogni  passo, anche se leggero. Al centro le assi degli scalini erano consumati, mentre la sinuosa ringhiera era lucida e splendente. Sicuramente le mani dei fratelli sono  sempre state avvinghiate ai loro rosari o nascoste sotto la stola, tali da non usare il debito appoggio.

La luce era fioca, ma non tremula, ormai gli antichi candelabri erano inutilizzati. Le candele nuove svettavano verso l’alto, ma solo come arredamento,  mentre le basi erano annerite e coperte da strati di secolare  cera.

I tavoli di castagno erano illuminati solo in alcune postazioni, dove frati seduti su grandi sedie erano assorti in letture. Qualcuno di loro prendeva appunti e spostava nervosamente fogli e pagine.

Tutt’intorno la libreria semicircolare, intervallata da scale semimovibili.

Luisa cercava quel libro di cui fra’ Bernardo conosceva con cura ogni pagina e ogni scritto, ma lui non era con lei per aiutarla.

Si ricordava come Bernardo le avesse letto le prime parole: ”Ego Lhotaris , Dei servus de sanctae Abatiae Candegghiae …hoc inveni et scripsi, ad maiorem Dei gloriam….”(Io, Lotario,servo di Dio, della Santa Abbazia di Candeli……questo ho scoperto e questo scrivo, a maggior gloria di Dio). Lei, pur non conoscendo il latino, aveva voluto imparare a memoria quelle magiche parole. Fra’ Bernardo ora le mancava le dava coraggio la sua autorevole presenza. Si accorse di tremare, ma forse era solo il freddo.

Anche il respiro si era fatto lento, un leggero fumetto usciva dalla bocca, la stanza non era proprio caldissima, ma in fondo quegli ambienti erano troppo imponenti per essere riscaldati a dovere.

Vide in fondo alla stanza proprio sotto gli scaffali dei libri un novizio impacciato. Lo aveva visto altre volte, sa che si chiama Lotario, ed è sempre stato una figura appartata e un po’ misteriosa… In quel momento sta parlando con un giovane alto e bruno.

Si avvicina ai due, svicolando tra i grandi tavoli, fra la curiosità e lo stupore di vedere un “estraneo”.

Infatti era la prima volta che Fabio entrava in quel luogo santo e nessuno lo aveva mai visto prima.  Lotario lo aveva notato subito, incantato da quegli occhi scuri profondi e forse pensava di aver trovato qualcuno con cui poter parlare, ma in modo laico, senza impedimenti dottrinali e a lui  avrebbe potuto  fare le domande che desiderava da tanto tempo porre sul mondo e, perché no…anche sul suo Creatore. Per questo lo aveva accolto così apertamente e lui si era lasciato abbracciare abbandonandosi al profumo grezzo della tela di quel saio misterioso.

Fabio era un ragazzone semplice ma molto riflessivo. Non amava esaltare il suo fisico, sapeva di essere bello ma sembrava che ciò non lo riguardasse; in lui non c’era il minimo cenno di vanità. I suoi capelli biondo scuro erano boccoli d’oro, da bambino; amato da una madre adottiva moderatamente amorevole, saggia e pragmatica, aveva abbracciato il suo stile. Ma la sua tranquilla  sicurezza era vera? Spesso Fabio se lo era chiesto senza sapersi dare una risposta. Certamente la nascita del fratellino, figlio vero dei suoi genitori, era stato un grosso colpo per lui nonostante la capacità adattiva che, data la sua situazione, gli apparteneva sin dalla prima infanzia. “Nessuno può avere tutto…” ripeteva a se stesso e questa filosofia lo aiutava ad andare avanti permettendogli di mantenere un sufficiente equilibrio. Non poteva neanche immaginare quanto quel tarlo di “incompiutezza” avrebbe potuto influire nella sua vita futura. La stabilità di cui godeva, raramente subiva interruzioni se non per alcune nottate insonni in cui assurdi fantasmi catturavano la sua mente. “Ricordo soltanto ciò che mi è accaduto da quando sono stato adottato, a sei anni, ma prima? E quando chiedo qualcosa al riguardo, perché tutti sono evasivi?” L’ansia faceva breccia nella sua mente, nessun flashback. Quei buchi neri del passato gli causavano un disagio profondo. Fabio pensava che non avere un passato è come non avere vissuto; il ricordo è la base dell’identità, “non so chi sono, dunque. Se avessi dei ricordi potrei anche dimenticarli, ma non averli…cosa posso ricostruire io? Il non ricordo è un mostro più di un ricordo mostruoso, sono posseduto dalla non-memoria!” Sfinito da queste ombre, Fabio osservava con insistenza gli scuri della finestra della sua camera, nella speranza che i primi bagliori di luce giungessero salvifici, ad annunciare il giorno. In seguito ad una di queste nottate insonni, prendendo sempre più coscienza dei suoi problemi, aveva deciso  di iniziare a frequentare la biblioteca dell’Abbazia. Non vi era mai stato, ma quell’ambiente solitario e misterioso avrebbe potuto essergli utile per raccogliere idee e pensieri e tentare di rievocare quel passato sconosciuto che sempre più lo tormentava.  Si era incamminato, di primo mattino, per i viottoli dissestati in mezzo al bosco. Quell’aria fresca e profumata, insieme al cinguettio degli uccelli, al fruscio delle foglie stropicciate da un robusto venticello, lo misero di buon umore nella speranza di poter trovare in quel luogo, sembianze, purché sfumate, del suo ignoto, irrealizzabile passato. Giunto all’Abbazia, Fabio era entrato in quella biblioteca tutta avvolta in una bruna e sfumata luce. Gli era parsa immensa: tre colonne in pietra definivano volte misteriose. Ai lati le bifore alte e strette sembravano insufficienti a illuminare quell’ambiente cosi vasto. Fra l’una e l’altra, alle pareti, grandi scaffali, carichi di antichi volumi, che al solo pensiero di toccarli, incutevano soggezione. Fabio si era seduto ad una delle tante fratine disposte lateralmente e appoggiando le braccia sul tavolo, aveva abbandonato la testa fra le mani, aveva socchiuso gli occhi e si era messo in ascolto di quel silenzio assoluto. In lontananza  deboli armonie di canti liturgici e si era accorto che quell’iniziale diffidenza si stava trasformando in una sensazione di pace. Cullato da quegli arcani, indecifrabili echi, Fabio fu scosso da un rumore secco e fioco proveniente da una zona poco visibile…   

Lo schianto era stato improvviso e molto violento. Avevano sobbalzato rabbrividendo Luisa e quel ragazzo incerto, diafano, leggero che subito la guardò e subito si perse negli occhi di lei, sgranati e pieni di stupore. Cosa poté vedere rimase un mistero ma Luisa si spostò verso di lui, alzò la testa, tuffandosi in quei grandi occhi scuri e con fare intrigante iniziò una fievole conversazione.

Era difficile percepire il brusio del loro raccontarsi ma fu una scintilla di confidenze senza preavviso, una cascata di colori nella stanza buia.

Cominciò a raccontargli delle erbe, di come le piaceva uscire nel prato per cercarle. Le raccoglieva con delicatezza, le metteva nel paniere e le portava a casa. Poi le riadagiava, le spostava, le confrontava, con gli schizzi del quaderno della zia Marta.

Quando aveva scoperto il loro nome, il rapporto si faceva più amichevole, fraterno, le chiamava per nome

“Cicerbita”….sei dura come una Cicerbita!! Diceva la mia mamma…quindi tenace, amara…….. va lavata molto bene, poi in abbondante acqua bollente, per aggraziarla e renderla morbida e gustosa al palato.”

“Tarassaco, le sue proprietà sono curative, ottime per depurare il fegato. Ma il nome dell’infanzia è piscialletto, così siamo più intimi, più famigliari”, raccontava Luisa.

La conversazione  fra i due andava spostandosi al piano superiore e fra chiacchiere e risatine si ritrovarono nel bel mezzo della cucina.

Luisa era orgogliosa di mostrargli il suo rifugio, il suo regno e di condividere  il suo sapere.

Fabio rimase affascinato da quell’esserino dolce e delicato, che con gesticolare morbido raccontava la sua passione.

Dava vita ad un mondo sconosciuto e lui non poteva far altro che ascoltarla rapito ed abbagliato.

Anche Lotario aveva fatto un salto al cadere del volume per terra e alzando gli occhi per la vergogna di essere stato il maldestro responsabile, la vide. Era lì, che mentre volteggiava tra i libri il rumore improvviso l’aveva fatta cadere a terra, a un passo da Lotario e stranamente lui….. lui l’aveva vista.

Berta! Urlò senza potersi trattenere….Berta! e incredulo si mise a piangere senza rendersene conto mentre lei rivide i suoi occhi brillanti che la chiamarono come da un lontanissimo vortice di sensazioni.

Lotario! Era lui! Era lui, dunque e allora…..

Tutto all’improvviso si colorò di presente

Berta ora ne era certa: c’era un legame con la sua presenza all’abbazia. Era stata da tempo misteriosamente attratta da quel luogo mentre vagava inquieta nei boschi dei dintorni e quel suo soffermarsi nelle cucine e in biblioteca come fosse un luogo amico, il suo riconoscere le erbe e subito sapere a cosa servivano, quante volte aveva cercato di informare frate Bernardo delle sue conoscenze. Inutile svolazzare sopra la sua testa, spostare le erbe, spengere i fuochi, non  otteneva nulla: lui pregava e basta. Ma ora Berta sapeva, ne era certa, era stata una conoscitrice e per questo era stata definita “malefica” e poi anche strega e fattucchiera, medichessa, si ecco, ora le tornava in mente che fu arrestata, processata e condannata al rogo perché conosceva le pratiche di “fare medicine”, ricette di erbe con la mandragora, la canapa, lo stramonio,  di preparare unguenti, balsami e intrugli e decotti e infusi.

Sì, ora sapeva che Luisa era una sua discendente, lo aveva intuito quando si erano viste nella cucina a causa di quel raggio di luce. Gli altri non potevano vederla, solo la sua lontana discendente “strega” come lei, aveva il potere di vedere oltre.

Tutto era successo in quella abbazia pure il rogo sulla collinetta, lì  aveva curato e  salvato un giovane fraticello …oh, se lo ricordava…Lotario , questo era il suo nome.. L’aveva fatta salire su fin dentro lo scriptorium  a leggere i testi proibiti e sempre lui le aveva insegnato a leggere e scrivere: studiavano e sperimentavano insieme medicine, infusi, decotti con cui  il frate erborista curava i confratelli, ma la vera esperta  e conoscitrice era lei, Berta.  . Quell’incontro era stato fatale per tutti e due. Lotario era stato affascinato dalla conoscenza profonda della natura e nei poteri, di erbe ,radici e foglie che Berta gli stava dimostrando. Lei ,invece, fu subito stregata da quegli occhi che parevano scrutare tutto, curiosi attenti alle lezioni che lei gli impartiva, finché, quando anche lui raggiunse il suo livello, cominciarono a collaborare, questa volta guidati dallo spirito  intraprendente e curioso di Lotario, che oggi sarebbe stato chiamato un innovatore. I loro incontri si svolgevano di notte, lui la faceva entrare nelle mura attraverso un passaggio che una volta l’Abate gli aveva svelato, attraverso cui perseguitati e pellegrini indesiderati altrove, venivano accolti in quel luogo santo.

Ora quasi ogni notte, vi passava Berta per raggiungere il suo compagno di ricerca.

Fu per loro un periodo meraviglioso, allietato anche da un sentimento molto poco spirituale ma ugualmente divino: la curiosità era stata galeotta e aveva generato l’Amore, quello maiuscolo, che pochissimi infelici conoscono.

Ma le loro ricerche progredivano, e anzi avevano preso un indirizzo che, ad una mente dottrinale, avrebbe emanato un piccolo odore di eresia.

Comunque erano andati avanti…sempre più spaventati da quello che andavano scoprendo, finchè un giorno Lotario si sedette e prendendosi la testa fra le mani e con gli occhi fissi sul pavimento, non mormorò: ”Basta….Berta, nec plus ultra…può darsi che il Signore ci metta alla prova..o l’antico serpente ci seduca con la sete della conoscenza..Dobbiamo fermarci”. E Berta aveva capito: ”Sì, distruggiamo tutto, che non rimanga nulla..”

“No..,questo no..lo scriveremo e lo nasconderemo, finchè i nostri lontani discendenti sapranno cosa significa e come lo si possa utilizzare…” La guardò con un pallido sorriso.. ”Noi siamo forse andati troppo oltre per il nostro tempo..”

E così fu: Lotario travasò in un manoscritto tutto quello che avevano scoperto: dosi, materiali, procedimenti…tutto.

Alla fine chiuse il documento in un piccolo forziere e conducendo con sé Berta perché anche lei lo vedesse, lo nascose in un piccolo spazio a prova di curiosi, ben protetto da un meccanismo segreto..una delle tante cose che aveva scovato durante le sue passeggiate solitarie nei meandri dell’Abbazia.

Non appena ebbero finito, alla luce delle torce, si accingevano a tornare indietro,  scorsero altre luci che si inoltravano nel cunicolo…Spensero le loro e si affrettarono all’uscita…Una volta arrivati alla sorgente della nuova illuminazione, Lotario si sentì gelare: non c’erano dubbi sull’identità dei nuovi arrivati, la grande croce bianca sulle stole nere, i volti severi quasi scheletrici non concedevano dubbi..quella era l’Inquisizione…In qualche modo loro  erano stati scoperti ed ora erano perduti.

 Il fraticello fu duramente punito e Berta fu accusata di stregoneria e bruciata dopo aver portato a termine la gravidanza e partorito una bimba data poi in adozione ad una famiglia di contadini della zona.

Improvvisamente  tutto fu chiaro, la nebbia che per secoli le aveva offuscato la mente, impedendole di ricordare, si stava diradando, come la bruma che lenta scende a scoprire valli e prati, quando vede il suo quaderno delle erbe in mano a Luisa, Berta capisce. Sapeva ora  che il tintinnio, il fruscio, gli scricchiolii e perfino il sibilo del vento sotto il tetto e fra i pertugi delle mura scalcinate e rotte, tutto quanto non è altro che una scheggia di antico non reale. Ora sa che deve condividere con gli altri la verità: prima Luisa, la più giovane e ignara e pur così entusiasta di tutto, e poi quel Fabio, così particolare,  ma fra tutti Lotario, il suo amato Lotario, per il cui amore era stata bruciata viva,  e ancora  voleva ricordare..

Mentre il monaco cerca di ricomporsi ecco Luisa che torna indietro correndo tenendo Fabio per mano. L’immagine di Berta ora è splendente, a mezz’aria, sollevata dal pavimento in un atteggiamento di stupore infinito. Doveva. Sì  doveva  raccontare la sua storia e quello è il momento.

 A poco a poco Berta si accorge degli sguardi che sono puntati su di lei. Non solo Luisa la sta osservando, ma anche Lotario e Fabio intrecciano i loro occhi in quelli di lei e ascoltano, ascoltano.

Fu così che Berta rivisse i momenti del fuoco e del fumo, il dolore, il terrore e la voglia di vivere che la divorava più di quelle fiamme in cui perse la vita da strega condannata. Ora il ricordo zampillava sicuro, ora sapeva chi era stata e dove.

Loro la vedevano e la potevano ascoltare, anime limpide e capaci di sentire il dolore degli altri.

Raccontò della figlia appena nata che le fu strappata  prima di morire, un dolore anche più grande della condanna. Raccontò dei poteri delle erbe, della magia di guarigione e della luna candida quando si veste nella notte magica. Tutto quello per cui era stata accusata e uccisa ma che invece era un potere di gioia e felicità.

Ormai era quasi sera.

  Berta aveva finito di raccontare la sua storia a quell’uditorio attento. Fabio e Luisa erano emozionati e commossi. Lotario stava in disparte e in silenzio. Anche Berta l’aveva riconosciuto subito il suo grande e unico amore. Domandò se avesse saputo della sua orribile fine. Berta guardava Luisa, sapendo ora con certezza  che era una  discendente di quella sua bimba perduta e che aveva ereditato i poteri che l’avevano dannata. Lievemente, come sapeva fare da tempo, accarezzò i capelli della giovane maga e le passò in un attimo di fuoco tutto il potere delle donne, la capacità di guarire le ferite, morali e fisiche, in un gesto leggero e solenne di cui Luisa percepì soltanto una vibrazione intensa, come una scossa elettrica. E di lui, Lotario, che ne era stato nella lunga scia di tempo che li aveva separati?

Come in risposta il monaco le si avvicinò, lei fece altrettanto, ponendosi al suo fianco. E uniti, si incamminarono fuori dell’Abbazia, verso il bosco scuro, verso l’infinito, alla luce di un tramonto infuocato che stava bruciando il cielo.

Anche Luisa e Fabio, dopo un attimo di riflessione, si mossero dietro a loro, quasi per raggiungerli.

I passi delle due coppie risuonarono nella ghiaia del viale, un ritmo cadenzato che, lentamente, molto lentamente andava trasformandosi: i passi si facevano via via più lievi finché quelli della prima coppia  si affievolirono, divennero eterei, morbidi..fino a mancare del tutto di suono. E anche le loro figure si allontanavano, bevendo  luce su luce…fino ad annullare i propri contorni, disperdendosi nel barbaglio del sole morente..

Luisa e Fabio  non smisero di camminare…

Ma un vecchio cipresso lì vicino avrebbe detto che anche i loro passi si stavano facendo sempre più leggeri…come le loro figure, che andarono piano piano a disperdersi nella bruma.

E il resto fu silenzio.

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Autore: lamatitaperscrivereilcielo

Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo. Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni

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