Acqua che viene e che va – di Stefania Bonanni, Patrizia Fusi, Rossella Gallori

Rumore c’è sempre, in sottofondo.
Quando arrivano i ragazzi, i nuotatori, le mamme, quel rumore va cercato, si ritrova solo con attenzione, un blablabla come di acqua in bocca, sputata con lentezza in un lavandino.
È acqua che viene, acqua che se ne va, che ritorna pulita, che gorgoglia da sola, che esce da tubi, da rubinetti, da docce, e se ne va borbottando, risucchiata da misteriose idrovore.
Quando la piscina torna deserta, allora si sente bene, il ribollire sordo, si vedono bollicine, respirano le tubature. Ci potrebbe vivere una salamandra mimetica, che si nascondesse di giorno, ed occupasse gli spazi lasciati vuoti, di notte. Potrebbe nuotare, tuffarsi, vivere una pacifica vita d’acqua. Troverebbe anche cibo, nei residui di merende sbriciolate sugli scalini.
Pulisce in piscina, Sofia. Non è altissima, ma ha gambe lunghe e magre, così magre che sembrano rami, con ginocchia appuntite, legnose. Sembra un animaletto, un piccolo cerbiatto. Non le mostra mai, le gambe, porta sempre pantaloni, o gonne lunghe fino ai piedi.
Ha un viso di forma ovale, regolare, dolce, con lineamenti anonimi. I colori no, quelli sono decisi. Gli occhi piccoli e distanti sono nerissimi. Le sopracciglia perfette, ad arco, li riparano e li esaltano. Le ciglia di visone, lucide e lunghissime, sbattono come ali. Anche i capelli sono nerissimi, grossi e lucidi, impossibile renderli lisci. Anche le tecniche più pazienti e tenaci di stiramento si arrendono in pochi minuti al risorgere dei ricci naturali. Porta i capelli lunghi, come tutte. Fanno comodo, così lunghi. Possono essere tenuti liberi e spettinati, e poi facilmente ricomposti in quelle lunghe trecce che portano tutte le donne di casa sua.
La sua bocca ha labbra sottili, che sorridendo lasciano brillare denti bianchissimi. Tanti denti, sembrano di più di quelli che stanno nelle bocche degli altri.
Anche le sue sorelle sono belline. I fratelli, tutti e tre, troppo scuri. La sua è una grande famiglia, sette figli. Lei, la più piccola, ha 16 anni, il più grande dei suoi fratelli 26.
Lavora in piscina da quando aveva 14 anni. La lasciarono entrare in una mattina freddissima. Gli scalini all’ingresso erano ghiacciati, ed era stato liberato solo lo spazio al centro, utile per passare. Lei si era rannicchiata in un angolo, ed aveva tanto freddo che il solito gesto imparato di tendere la mano, era doloroso. Qualcuno si accorse di lei. La accompagnò dentro, al caldo. Per un po’ di tempo rimase lì, con la mano tesa. Poi ci furono proteste, non la volevano, doveva smettere. Chiese di lavorare. Così cominciò a pulire i bagni. Il custode le dava qualcosa ogni volta, lei tornava a casa con quei soldini che le prendevano subito, e andò avanti così. Quest’anno ha compiuto 16 anni ed è stata regolarmente assunta come “aiutante dell’addetto alle pulizie dei servizi igienici, senza accesso alle vasche” È stata molto fiera di tutto questo, in casa sua nessuno ha contratti di lavoro. Non ha deciso, come si comporterà con i suoi in futuro, ma per ora non ha detto nulla a nessuno. Prende lo stipendio, a fine mese, ma tiene tutto nella borsetta dalla quale non si separa mai, e dà alla madre ogni sera qualcosa. Per ora, va bene così.
Aveva fatto molto tardi Armando, era tornato “a giorno”. Il cigolio dei banchi che raggiungevano la postazione su grosse ruote traballanti, il vocio dei macellai che scaricavano carne e il rumore sordo delle cassette della frutta vuote lo avevano accompagnato in via Ginori…dove il silenzio faceva ancor più rumore. Con una piccola doccia e il solito bagno schiuma San Laurent aveva tolto le ultime viscide carezze, il parlare affannato del suo cliente era stato più pesante del solito….il “cachet “ generoso aveva cancellato solo in parte la sua voglia di dire BASTA ….
Indossò il pigiama di seta blu, costoso e freddo che aveva il macabro colore della solitudine, non spense la luce, ormai il sole giocava con la frangia del piccolo abat jour Lalique ….quell’arcobaleno di cristallo, lo avrebbe accompagnato per due….massimo tre ore di sonno….poi, forse sarebbe andato in piscina…forse…
Si svegliò di soprassalto, la domestica e il rumore dell’aspirapolvere erano stati invasivi, ma non aveva voglia di discutere….per cosa poi…aveva fretta di uscire, di andare in acqua, di isolarsi nel cloro, nell’ odore di umido….dove solo lo stridere delle ciabatte di gomma sul bagnato lo avrebbero distratto, con il bagnino ”fuoritaglia” appollaiato sullo sgabello, che manco lo avrebbe salutato, tra uno starnuto e l’ altro, o al massimo, se fosse stato in buona, avrebbe mosso il capo e farfugliato: oh Armà che ci risei?….
Un caffè nemmeno tanto speciale, in via Ŕosina, il vecchio zaino Invicta con il necessario…il costume azzurro, l’accappatoio un po’ sbiadito, il telo della Scala ….erano le uniche cose che aveva conservato della vecchia vita….insieme al piccolo portachiavi con le scarpette mignon da danza.
Raggiunse la piscina comunale, in pochi minuti.
Ogni volta che varcava la soglia si domandava il perché di quella scelta!! Si sarebbe potuto permettere ben altro, qualcosa di più costoso, ben frequentato, con sauna, bagno turco….una vasca con più corsie….
Aveva scelto, invece, la tranquillità dell’anonimato, il ritmo delle docce che perdono gocce rumorose, i phon traballanti e gracchianti, le panche scricchiolanti sotto il peso di pensionati anchilosati. La mancanza di privacy, non gli toglieva niente, anzi gli dava quel senso di “ vita normale” che tanto gli mancava….anche lo schiaffo leggero del costume, sulla pelle bagnata aveva un senso, avrebbe nuotato un’oretta, si sarebbe asciugato sommariamente, avrebbe ceduto il passo alle signore dello spogliatoio femminile…ed avrebbe sorriso a due grosse trecce nere, curve sui gradini…con la speranza di vedere i suoi occhi dalle pupille di ebano, una bimba grande…..illuminata dal sole delle cupole di vetro della vecchia piscina….
Non parlava con nessuno, la ragazzina. Si illuminava solo davanti alla vetrina del piccolo negozio del biondino, all’angolo.
Da tempo Luciano aveva notato che la ragazza che lavorava in piscina, si fermava spesso a guardare gli oggetti che erano in mostra nella piccola vetrina del suo laboratorio, questo gli faceva piacere e lo invogliò a rendere tutto l’ambiente più curato. Sapeva la sua storia, l‘aveva sentita raccontare al bar della piscina, questo lo faceva sentire più vicino a lei, si ricordò delle difficoltà che anche lui aveva avuto con alcuni ragazzi del quartiere quando all’età di tredici anni si era trasferito in città dal piccolo paese di montagna; per ferirlo in modo dispregiativo lo chiamavano “il montanaro” e lui con quanta caparbietà, sofferenza e incertezze aveva faticato a integrarsi, iniziando a giocare al calcio con il gruppo. Con l’aiuto di Marco e Roberto che erano diventati suoi amici era riuscito a superare quel brutto periodo, piccandosi di voler imparare a nuotare, diventando nel nuoto più bravo di alcuni di loro.
Abitava ancora con il nonno che fin da piccolo lo portava con sé nella falegnameria, quando abitavano lassù, in montagna. Quanto gli piaceva vedere come da un semplice pezzo di legno Attilio riusciva a tirar fuori pura magia. Lo stupore che aveva negli occhi faceva sì che il nonno gli insegnasse tutto quello che sapeva.
Luciano cominciò a fabbricare dei piccoli giocattoli, mestoli, piccole scatole, intagliando sui coperchi dei semplici ornamenti, gli piaceva il legno lo sentiva una materia viva, l’odore che emanava sempre e che poteva essere piacevolmente resinoso o di sgradevole marcescenza.
Quando ancora piccolo si era trasferito in città aveva scelto come scuola l’istituto d’arte, settore intarsio e scultura. Il fatto di conoscere i tipi di legno lo aveva facilitato e lo aveva aiutato a prendere coscienza delle proprie capacità. Ora aveva il suo piccolo negozio-laboratorio ma capiva le difficoltà che quella piccola rom doveva affrontare e questo gliela faceva sentire umanamente più vicina e più simile a lui.
Gli occhi dei due giovani iniziarono a cercarsi, Luciano prese a notare i lineamenti di lei: quell’ammasso di capelli nerissimi e dai ricci ribelli, la dolcezza del viso, la profondità dei suoi occhi, e un’espressione tenerissima le rare volte che sorrideva. Lui aspettava con ansia che lei si fermasse davanti alla vetrina e quando incrociavano lo sguardo per l’emozione la bocca dello stomaco gli si stringeva. Una mattina Luciano si fece coraggio e quando lei era davanti alla vetrina uscì e si presentò, Sara arrossì dall’emozione.
Da quando passava Sofia davanti alla vetrina, il resto del giorno trascorreva inutile. Poi, arrivava lei.
Una sera lui le fece cenno d’entrare, lei disse no con testa, ma si fermò seduta sugli scalini della chiesetta all’angolo. Quando lo vide tirare giù Il bando ne, gli si avvicinò e camminò al suo fianco. Si raccontarono i loro nomi e le età, poi parlarono della meraviglia di quegli oggetti di legno, Sofia li chiamava magie. Per molte sere andò così : prendevano l’autobus, poi camminavano, camminavano, ridevano, camminavano, mangiavano il gelato. Una sera si trovarono sotto casa di lui, e le chiese di salire. Le raccontò che viveva con il nonno che gli aveva insegnato a lavorare il legno, e quanto lo amasse. Fu in quel preciso istante che le arrivò addosso un macigno. Scosse la testa, rifiutò l’invito di Luciano, e si allontanò senza girarsi più. E ripensò alla sua, di nonne, che nella grande famiglia decideva quando si dovessero sposare le nipoti, ed ogni decisione era un verdetto indiscutibile. La sentenza per lei era arrivata quando aveva tredici anni. Le avevano trovato un vedovo di quarantacinque anni che aveva due figli più grandi di lei, che possedeva le due stanze nelle quali vivevano, in Romania, in campagna. La foto portata dalla nonna mostrava un uomo con la barba lunga, le guance ciondoloni, grosse borse scure sotto gli occhi, un sorriso che doveva incoraggiare ed in realtà mostrava un solo dente bianco in una bocca marcia. Sofia pianse e disse: “Mai, piuttosto mi ammazzo”, e pianse anche, da allora, tutte le volte che le veniva in mente. Ed anche tutte le volte che la sua mamma la guardava mormorando: “Basta abituarsi!”, o che le sue sorelle la chiamavano “la principessa del Galles”. Erano passati gli anni, ma il macigno era sempre lì, pronto a schiacciarla.
Fu la vita diversa che aveva toccato, a provocare la frana.
Non sarebbe tornata a casa. Né quella notte, né mai.
Anche Armando camminava e pensava, quella notte. E ricordava…
Già, lo chiamavano Armando, ma sui documenti era Concetto Lomanno, e questa era l’unica falsità, Il resto era tutto vero: nato a Roccalumena, Messina, il 16 maggio del 1968, altezza 1,81, capelli corvini, occhi cobalto. Forse quel “cobalto” era stata la fantasia dell’impiegata dell’anagrafe, fulminata da quello sguardo di mare, professione: danzatore….chissà perché non ballerino….
Schivo, altezzoso, seduttore, era abituato ad avere fama, successo, denaro, rigido agli affetti ed impotente all’amore, solcava palcoscenici girando il mondo, schivando affetti, fra un plié a demì ed un grand plié, riscuoteva applausi e denaro…e si nascondeva tra i suoi sogni.
Quando alla porta avevano suonato i quaranta, non aveva potuto ignorare la scampanellata, ed erano arrivati i primi capelli bianchi, qualche chilo, ed un telefono muto che non annunciava più tournée. ..ed era cominciata la sua solitudine, la miseria morale e materiale, un grosso album di velluto avorio aveva sostituito la sbarra, quella frattura ora si faceva sentire, anche troppo difficile fare gli esercizi con le articolazioni scricchiolanti.
L’idea gli apparve una notte, quando la fame sostituì Il sonno….Una doccia, la camicia di seta grigia, i jeans che stringevano nei posti giusti, un buon profumo…e giù per quelle scale: un lampione, un marciapiede, una macchina di lusso e e e : “Ciao, QUANTO?” Fece un po’ di conti Armando, in fretta….sospirò : “Trecento”
E salì verso un mondo squallido e sommerso….di Concetto non c’era più nulla, di Armando ancor meno, se non una chioma tinta e due occhi color mare di Sicilia.
Gli appartamenti una volta erano comunicanti, anzi era un unico ed immenso 12 locali, per raccontarla da agente immobiliare, posto al secondo piano di via DE’ GINORI al 18 e al 20 due ingressi sontuosi, illuminati da luci calde e morbide….il De Caro aveva preso l’ ala più piccola, l’ altra era rimasta tutta sua, nove stanze, una in fila all’ altra, un piccolo treno di lusso dal quale si vedeva Firenze ed oltre, si percepiva il rumore, l’affollamento, in un silenzio totale…
La sua camera era l’ultima, quasi nascosta, una elegantissima boiserie dove il letto capitonnè rosso rubino troneggiava sulla pedana di palissandro alta quasi trenta centimetri…..una piccola dormeuse di seta color sabbia si appoggiava alla parete più piccola…il comodino era un piccolo inginocchiatoio, restaurato ad arte, mutilato nella sua funzione ed illuminato, da una sospensione De Padova, fredda e costosa…..nell’angolo più buio un applique di cristallo, al lato sinistro della tenda di macramè color champagne, un piccolo putto dorato, proveniente dalla collezione Bruschi, Arezzo fu testimone di una lunga ed estenuante contrattazione…che lasciò soddisfatte entrambe le parti.
Al suo bagno si accedeva da una piccola porta intagliata, il marmo di Verona nascondeva l’utile dando risalto all’inutile, un trionfo di cifre ricamate impreziosiva la biancheria di morbido lino, i verdi si sfumavano fino a diventare quasi blu….
La cucina era enorme, un tavolo ovale di noce appoggiato su potenti “mani di ferro battuto” ospitava una perenne apparecchiatura, una unica sedia toné laccata di blu Francia, occupava uno spazio esiguo, in una superfice quasi sprecata, tra vasellame di pregio e preziose pentole di rame….un tutto mai usato….inutile.
Si accedeva al salotto da un’immensa vetrata arlecchino, frutto di impareggiabili maestri veneti, un rincorrersi di tasselli quadrati, di non più di tre, quattro centimetri di lato, imprigionati da cornicette diverse di piombo glassè. I mobili Chippendal, stranamente non toglievano spazio, anzi impreziosivano l’ambiente con sontuosi ghirigori, piccoli cuscini patchwork di seta panna riempivano gli angoli più intimi di stupende poltrone Fraul …
Nel dedalo dei corridoi dalle alte pareti rivestite di moirée cremisi solo un elegante ed ottocentesco orologio a pendolo, scandiva l’agonia del tempo che sembrava annunciarsi sempre più lento e sfacciato.
Chilometri di casa, metri di tessuto, centimetri di quadri, millimetri di vita, nemmeno un fiore, alcune stanze vuote abbandonate a se stesse….in via De Ginori tra il diciotto e il venti nero…….
Eppure Armando era solo, solo in tutta quella casa di Via Ginori.
Tutto questo pensava, ricordava, riassumeva, Armando, quella notte. I conti non tornavano, e lui non si decideva a lasciar andare quell’oscurità che lo accoglieva e lo assorbiva. Solo sui ponti, si può pensare, guardando l’acqua che scorre: pulita e sporca, nello stesso modo e nella stessa direzione.
Quella notte, su un ponte, le ore erano scandite dallo scorrere dell’acqua. Lo sciacquio ritmico, ripetuto all’infinito, era ipnotico.
Sofia guardava fissa quel nero. Non sapeva più ne’ dov’era, ne’ da quanto tempo era lì. Fra poco sarebbe stato giorno, di nuovo. Il freddo prepotente le era entrato nella carne, fin dentro alle ossa. Anche i suoi pensieri erano diventati lastre di ghiaccio, scivolavano nella mente, senza grattare, Apparivano e slittavano via, senza stridere, senza fare male. Lei non sentiva più nulla. Non udì neanche i passi dell’uomo, che pure le era arrivato alle spalle. Si scosse quando una mano calda si posò sul suo braccio sinistro. Fu uno sguardo stupito quello che mise a fuoco gli occhi azzurri di un uomo maturo. Lui parlò subito, lei non ebbe nemmeno il tempo di impaurirsi. La voce roca pronunciò parole lente e tranquille, rotonde di un dialetto che sapeva di mare, la chiamava “bambina”, diceva che era troppo freddo per stare fuori in una notte così. Non fece domande, mentre la prese sottobraccio e camminò con lei lasciandosi il fiume alle spalle.
Lei era come volasse, disposta a cadere, ma fiduciosa, sapeva solo di non provare paura. Lui aveva raccolto un passerotto, l’avrebbe portato al caldo, sfamato. Era solo questo. Come in un passo a due su un palco dallo sfondo scuro, camminavano lievi, proiettavano ombre nitide, non c’erano tensioni.
La condusse davanti al portone di Via De’ Ginori, con naturalezza la fece entrare, cedendole il passo. Accese tante luci, alzò il riscaldamento. Entrò per primo in cucina, si mise ad armeggiare, poi la chiamò e le offrì una tazza di latte caldo. Lei bevve un sorso bollente, e il ghiaccio si sciolse, di colpo. E cominciò a parlare, non servirono domande. Raccontò della sua difficile famiglia, disse che vivacchiavano di elemosine e furtarelli, che avrebbero voluto questo anche da lei. Raccontò che puliva in piscina, per l’atto di carità di una persona buona, ma che le faceva male vedere ragazzi come lei che sguazzavano, si divertivano spensierati, lei poteva solo guardare, non era vita per lei. E parlò, parlò, parlò, con voce calma e chiara, come non avrebbe pensato di saper fare. Disse anche di Luciano, di aver incrociato gli occhi buoni di quel ragazzo capace di costruire gli oggetti che lei sognava e basta. Di essersi fermata ogni giorno davanti a quella vetrina. Di averlo seguito. Di pensare solo a lui, e di aver scoperto che anche lui diventava rosso come lei, quando i loro sguardi si incrociavano.
L’uomo dagli occhi azzurri la lasciò parlare, senza i nterromperla mai. Quando lei arrestò quel fiume di parole, con un inconsueto mezzo inchino, le disse di chiamarsi Armando, di aver vissuto una vita movimentata da balli, donne, sigarette ed alcool, e di essere solo. Solo.
Questo successe nella notte che cambiò la loro vita.
Saranno tre anni, mercoledì.
Adesso Sofia è maggiorenne. Si sposerà, mercoledì. Con Luciano.
Tre anni fa Armando chiese il suo affidamento, la famiglia di Sofia fu felice di dare il consenso, naturalmente a pagamento. Lei, Armando lo chiama babbo, lui la chiama bambina. Luciano ha cenato con loro ogni giovedì ed ogni sabato. Dopocena, il giovedì giocavano a Monopoli, o a briscola, tutti e tre. Il sabato andavano al cinema. Nella Camera di Sofia è arrivato un letto a due piazze. Saranno in tre, da mercoledì, nell’appartamento di Via De’ Ginori.
Non saranno mai più soli.
E poi…chissà,… non saremo mai più soli.