INCONTRI SONORI – di Simone Bellini, Laura Casati, Laura Galgani
I rumori,
maledetti rumori, sono la sua ossessione da quando, dopo la laurea in fisica,
lavora con impegno e caparbietà nel laboratorio del Gran Sasso. Irene, bella
ragazza della provincia abruzzese, vorrebbe occuparsi del clima e dei suoi
sviluppi futuri, mossa dall’ansia di arrestare l’inquinamento e il
surriscaldamento del pianeta. Il lavoro che svolge presso il laboratorio
scientifico è ripetitivo e frustante: consiste nel raccogliere dati dalle più
svariate strumentazioni, che glieli inviano da tutto il mondo. Purtroppo Irene
ha anche una limitatissima vita sociale, è molto riservata e sobria, sia nel
vestire che nel proporsi. Esce difficilmente, la sera rimane a casa a leggere o
ad ascoltare musica. Tutta la sua riservatezza e sobrietà nascondono forse un
disagio che ancora non ha elaborato? Chissà? Il tic nervoso che l’angustia
forse esprime qualcosa in più sul suo conto? Ultimamente questo inconveniente è
divenuto insopportabile, anche i rumori che provengono dai macchinari del
laboratorio la perseguitano. Il ronzio continuo delle trasmittenti ha preso il
sopravvento su di lei, tanto che i ticchettii l’accompagnano anche quando è a
casa. Irene sente di essere vicina al limite, se non reagisce le sue ossessioni
prenderanno il sopravvento, le impediranno di avere una vita normale, e
all’improvviso ha paura, sa di rischiare un crollo psicologico irrimediabile. Così
una sera smette di piangersi addosso, apre il computer e cerca uno specialista
ben accreditato. Lo trova, è a Milano. Ormai ha deciso, la sua vita corre sul
filo del rasoio: la mattina dopo prende due mesi di aspettativa dal lavoro e si
stabilisce a Milano. Una volta arrivata, presa dal furore che le ha fatto
lasciare il Gran Sasso, si organizza le giornate fra passeggiate, musei, mostre
e concerti, lasciando spazio solo a sedute di terapia. Partecipa anche al
concerto di Tiziano Ferro, che viene aperto dal gruppo “Aforismi ”
con un cantante – si dice – incredibilmente bravo e di grande carisma:
Joshua. Anche per lui è la prima volta a Milano …
Un concerto a Milano! Un sogno che incredibilmente si sta avverando! “Aforismi”,
il gruppo di Joshua, avrebbe aperto il concerto di Tiziano Ferro. Adrenalina a
mille! I battiti del cuore rimbombano nelle orecchie man mano che, con passi
decisi, i musicisti si affrettano nel corridoio che conduce al palco. Il boato
di uno stadio gremito all’inverosimile li accoglie alla loro entrata. Dio che
emozione! Le note partono potenti, ipnotizzando il pubblico che, impazzito,
scandisce il tempo con le mani dalla prima all’ultima canzone.
Quando i componenti della band tornano nei camerini sono ancora increduli
del successo ottenuto.
Joshua deve fumare per scaricare tutta l’adrenalina accumulata. Esce dal
camerino, mentre il concerto di Tiziano Ferro prosegue sul palco, aspira
profondamente, ad occhi chiusi, due boccate di fumo per rilassarsi.
– Mio Dio siete stati incredibili! – dice una voce femminile, facendogli
riaprire gli occhi – grandiosi, meravigliosi! Tu poi, eccezionale, intenso,
trascinante! –
Joshua, travolto da questo impeto, si bea di tutti questi aggettivi,
rimanendo stupito e senza parole. Dopo un attimo di imbarazzato silenzio, lei
prosegue: – Oh, scusa la mia irruenza! – E, porgendogli la mano – Ciao, sono Irene!
– Ciao, Joshua –
Al contatto della sua mano, lei ha un fremito che le percorre tutto il
corpo, finendo con un sensuale morso sul labbro e gli occhi semichiusi.
– Cavolo! – pensa lui – ho fatto proprio colpo! Questa incredibile giornata
potrebbe finire nel migliore dei modi! –
– Oh noo! Questo maledetto tic si manifesta sempre nel momento meno
opportuno! – pensa lei – basta, da domani risolverò la cosa col dottor Gregorio!
–
– Beh, il minimo che possa fare per sdebitarmi di tutti i tuoi complimenti,
è di invitarti a bere qualcosa insieme! –
– Con molto piacere! – annuisce lei, mentre il tic la fa di nuovo fremere
tutta.
All’indomani, Irene si sta
avvicinando a via Leonardo da Vinci 88, dove Gregorio, il suo terapeuta, riceve
i pazienti, quando i rumori che l’avevano ossessionata al laboratorio deflagrano
di nuovo nella sua testa, coprendo i ricordi della bella serata passata con
Joshua … Oggi avverte
i suoni in modo più violento del solito, le auto che corrono veloci
sull’asfalto sono stilettate nella testa, lo sferragliare del tram e il suo
tintinnio divengono una minaccia. Finalmente è arrivata, suona il campanello ma
la pesantezza del portone sembra respingerla, conquista a fatica una piccola
apertura ed entra, il tonfo del portone è l’ultima ferita sonora che deve
subire. La quiete della corte interna le dona un po’ di sollievo: tutto è
ovattato, il pavimento lastricato, in pietra lavorata da appuntiti scalpelli,
sembra assorbire i rumori e renderli vani. Un glicine centenario si arrampica
su per il muro del cortile, e si stende con i suoi rami generosi, quasi ad
accarezzare i balconi adiacenti.
Le scale si offrono appena passato il
cortile, a destra. Da un androne, illuminato da un grande lucernario posto sul
tetto e da belle vetrate al secondo piano, si dipana una scalinata in pietra
serena, larga, dai gradini bassi e non troppo ripidi, che si salgono con
facilità, formando come una larga chiocciola. La ringhiera è in ferro battuto,
e fiori e ghirigori si rincorrono fin su, al settimo piano.
Su ogni pianerottolo si aprono quattro porte,
di legno color miele, una per appartamento. I campanelli sono di ottone,
lucidi, e su ognuno è intagliato con eleganza un cognome.
Al terzo piano c’è l’appartamento dello
psicoterapeuta. Una targhetta sulla porta, sempre in ottone, lo annuncia
chiaramente: “EasyMind”, studio psicoterapico.
L’ascensore, incastrato nella tromba delle
scale, la invita ad entrare in un’elegante gabbia di ferro battuto. Il rumore
fluido della cabina che sale l’accompagna al terzo piano. Mentre Irene si concentra sull’apertura
delle porte, si apre anche la porta dello studio, ed appare Gregorio. Ha quarant’anni, ed è un
bell’uomo. Di quelli che hanno fascino, e lo sanno. Naturalmente è alto, magro,
ben fatto, ha la pelle chiara, gli occhi azzurri, i capelli castani già un po’
brizzolati. Li porta lunghi, a sfiorargli le spalle, perché sono morbidi,
formano dei boccoli
sbarazzini. Eppure è uno psicoterapeuta abbastanza conosciuto, e lei lo sa. Irene,
alla vista di Gregorio, rimane colpita dalla sua rassicurante imponenza, che
trapela dal suo atteggiamento più che dalle sue parole; lui le porge la mano e
la invita ad entrare. Di nuovo al contatto fisico il tic si ripresenta con
tutta la sua sensuale veemenza. Gregorio, benché abituato alle reazioni più
strane, interpreta il comportamento di Irene come un compiacimento verso la sua
persona. Irene entra e Gregorio affabilmente le mostra la stanza dove si
svolgono i colloqui. Lei nota che il pavimento è di legno, un parquet di rovere
chiaro, color miele, lucido, come andava di moda negli anni ’70, con tasselli
piccoli montati a spina di pesce. Le porte sono di legno massello, bianche, le
pareti sono colorate: color albicocca per quella dei colloqui, azzurro chiaro nella
stanza al cui ingresso c’è scritto “Sand Therapy”. “Qui accanto c’è la stanza
della sabbia” dice Gregorio. Un’espressione di stupore si dipinge sul volto di
Irene. “E’ per creare le storie, puoi
inventare quello che vuoi! È il tuo spazio di libertà, fra questi ci sono i
personaggi della tua vita, li puoi mettere in scena.” “Posso mettere in scena
anche i miei tic?” “Certo, demoliscili!”
La terapia continua per circa due mesi. Irene trova le sedute
interessanti, le piace smontare e rimontare la sua vita affondando le mani nel
contenitore con la sabbia dal fondo blu, nel quale ogni volta crea situazioni
diverse con i personaggi e gli elementi che prende istintivamente, senza pensarci
troppo, dagli scaffali sui quali sono allineati in perfetto ordine piccoli
animali, edifici, persone, mezzi di trasporto, piante, oggetti, cibi…un
campionario di tutto ciò che esiste! Oltre a questo però, Irene si trova a suo
agio anche per la capacità empatica di Gregorio: sembra infatti che
lui non desideri altro che ascoltare chi ha davanti. Il suo sguardo profondo
non si distrae mai, non cerca vie di fuga perché si annoia. Anzi, fa un sacco
di domande. E lei si lascia andare e parla, parla come non aveva mai fatto con
nessuno. Da parte sua, ad ogni seduta Gregorio è sempre più affascinato dalle potenzialità di Irene;
via via che i tic si diradano, lui è sempre più intrigato dalla sua personalità
poliedrica. Quasi quasi, pur sapendo di andare contro la deontologia
professionale, è tentato di invitarla a bere qualcosa dopo la seduta. Tutte le
volte rimanda, sperando che sia lei a dargli modo di varcare il confine, e invece
niente, l’occasione non si presenta.
Consumato da questo conflitto
interno, un pomeriggio, una volta uscita Irene, Gregorio affida le sue pene ad
una sigaretta fumata sul balcone.
Si affaccia, lo sguardo assente si
focalizza su una giovane coppia abbracciata proprio davanti al pesante portone
d’ingresso. I due si stanno baciando appassionatamente, e Gregorio non riesce a
distogliere lo sguardo; il suo cuore ha un sussulto quando riconosce Irene
abbracciata ad un bel ragazzo biondo con la chitarra a tracolla. I due si
avviano ora verso un furgone, sul quale è riportata la scritta “AFORISMI”. Gregorio
spegne con rabbia la cicca sul pavimento del balcone, pestandola forte con la
punta del piede.
Stavolta Narciso ha ricevuto davvero
una “sonora” sconfitta!
Il soffio del tempo –di Vanna Bigazzi, Mirella Calvelli, Luca Di Volo, Roberta Morandi
Lo spettacolo era grandioso.
Come un’aquila posata sul suo nido inaccessibile,
l’Abbazia coronava lo sperone roccioso che la sosteneva, affondando l’agile campanile nel cielo azzurro pallido
del primo mattino.
La severa architettura romanica, appena ingentilita
da qualche ornamento o scultura meno minimalista, proclamava l’unicità della
salvezza e nel contempo ammoniva il mondo mostrando la concreta immagine del
luogo in cui trovarla.
Una cerchia di mura poderose però tracciava un
solco invalicabile, quasi a proclamare il confine materiale tra l’umano, peccatore
e blasfemo e un universo, pallida ma suggestiva evocazione della Gerusalemme
celeste.
La funzione del Mattutino era appena finita e
l’alba stava cominciando ad indorare le statue che decoravano il portale della
chiesa abbaziale con ombre affascinanti e terribilmente evocative, per chi
avesse saputo leggerle.
Nell’immenso scriptorium un monaco novizio, appena uscito
dalla liturgia, sedeva un po’ rannicchiato sul suo sgabello. Era la sua
settimana di turno come copista e miniatore, un’attività che lui attendeva
sempre con piacere. In effetti era l’unica attività del monastero che lo
entusiasmasse veramente, a parte la preghiera e il lavoro nell’orto. Prendeva
molto seriamente la severa regola Benedettina dell’ora et labora…
In quel momento, però, impiegava oziosamente il
tempo scribacchiando sull’orlo della preziosa pergamena sciocchi indovinelli e
insulse sciarade, solo per il piacere di sentire la penna che graffiando il
foglio ruvido rimandava uno scricchiolio, quasi a dire che tutto funzionava
bene.
Quella volta il suo lavoro consisteva nel restauro
di un’opera unica e rara: nientemeno che un incunabolo contenente il “De rerum
Natura” di Lucrezio. Uno strano autore che, dicevano i contemporanei, scriveva
“per intervalla insaniae”, cioè solo nei momenti lucidi, tra una crisi e
l’altra. Lotario, questo il nome del novizio, era affascinato da quella teoria
degli atomi: tutto era fatto di atomi, anche la luce…E chissà quali erano gli
atomi che componevano quella creatura di luce che a volte raggiungeva l’Abbazia
nei giorni di mercato.
Intanto………
Quell’appellativo, l’aveva fatta sempre sorridere: La Maga delle Erbe!!!
Certo
è che quando c’era lei in casa e soprattutto in cucina era difficile
concentrarsi.
Commentava
ad alta voce, spostava e traeva conclusioni, anche su cose di cui non conosceva
assolutamente nulla.
Ecco
perché, molto spesso, per sfuggire all’inquisizione della sorella, si rifugiava
all’Abbazia in cima alla collina.
Era
una consuetudine per gran parte degli abitanti del villaggio raggiungere quel
luogo “divino”.
Ma il
suo legame con l’antico maniero era davvero speciale.
Fin da
piccola, grazie alla compiacenza dei frati e alla zia Marta, le era permesso
correre attraverso l’immensa cucina, nascondersi dietro la madia o giocare
nell’acquaio di pietra serena con le sue paperelle colorate.
Là
tutto aveva dimensioni importanti e anche adesso che non era più una bambina,
tutto richiamava all’incontro con l’Altissimo.
La
cosa curiosa era che anche quando non c’era nessuno, la cucina sembrava
vivesse. Respirava, raccoglieva rumori antichi di sandali o di vecchi scarponi
infangati che l’avevano percorsa per le motivazioni più disparate.
Qui
riusciva, però a concentrarsi, ad
approfondire a sperimentare, con l’ausilio di testi antichissimi e con l’esperienza di frate Bernardo, grande
conoscitore di erbe e radici..
Lui si
che sapeva trasformare un semplice miscuglio erbaceo in pozioni medicamentose!!
Conosceva l’essenza del rimedio o del danno.
Le
finestre alte sopra l’acquaio, facevano filtrare la luce del sole attraverso le
sbarre, luce che andava a rischiarare, come una meridiana il grande tavolo in
marmo, riuscendo a scaldarlo in un punto preciso a seconda delle ore e della
stagione.
Magico
lo era davvero quell’ambiente, aveva vissuto attraverso i secoli, le sue mura
erano impregnate di odori e fumi, avevano ascoltato canti e liturgie, grida e
risa.
Aveva
accolto e sfamato pellegrini e viandanti, rifugiato perseguitati. Si era
avvolta di luci e colori. Udito i colpi di coltelli e mannaie, ospitato le grida fioche di animali nell’ultimo istante
di vita.
Odorava
di fresco l’estate e di caldo umido nelle serate d’inverno, rischiarate dal
fuoco del grande camino e dal suo crepitio.
Il
grande pavimento sconnesso aveva sentito il fruscio delle lunghe vesti e lo
scalpiccio di poveri sandali, adesso viveva sotto i suoi passi leggeri.
Quella
mattina era arrivata di buon’ora all’Abbazia ma
la cucina era stranamente vuota. Frate Bernardo, che abitualmente era
ricurvo sul tavolo ad armeggiare con i suoi intrugli non era li.
Mise su,
allora, il bricco dell’acqua, come faceva di solito,
non appena arrivava in quel luogo, e distrattamente iniziò
a sbirciare e seguire segnali che potessero giustificare quell’assenza
inconsueta. Solo il fischio assordante e il pennacchio fumoso e bianco del
bricco la ricondusse al presente.
Un
leggero soffio, un passaggio veloce e le pagine di pergamena dei libri dello
scriptorium hanno un sussulto, ma niente
di più, tanto sono spesse e ancor più
appesantite dall’inchiostro colorato delle miniature, e come sono belle
con quelle lettere disegnate e colorate con fiori e fregi. Ma Berta non sa chi
è e perché è lì, conosce solo il suo nome, essendo l’ultima
parola che ha sentito di là da dove è venuta,
già ma cosa è “di là” non lo sa
né sa perché è lì in mezzo a tutti quei
libri e a tutti quegli uomini con la testa semipelata.
Vede
tutto ed è riuscita a sapere tutto di
quella gente, li conosce bene, ma non sa niente di sé, neppure conosce il suo
aspetto, sa solo di essere una giovane ragazza e quando passa e fa volare le
cose, loro si agitano e lei si diverte e riprova, e ancora riprova con un gusto
fanciullo, ed ogni volta è diverso.
Sì dice
che se un fantasma riesce a specchiarsi, poi, se vuole, può farsi vedere nelle
forme originali, per cui Berta cerca
disperatamente qualcosa su cui specchiarsi, ma in un monastero benedettino non
è cosa facile.
Berta sa
che dovrebbe essere bella, sente il fruscio dei suoi abiti e talvolta un
leggero tintinnio, forse gioielli.
Oh se
qualcuno di quei fraticelli potesse dirle chi è e perché è lì! Ricorda poco e a
tratti, se vede o sente qualcosa che le par familiare, allora ha dei ricordi,
dei flash back di un passato, quanto lontano non riesce a capire. Ha sempre un
gran caldo che forse qualcosa del suo passato, ed è per questo che non cammina ma svolazza? Le
piace tanto passare sopra le teste dei fraticelli intenti a ricopiare
manoscritti, a volte si sofferma a leggere, già Berta sa leggere molto bene per
essere una femmina.
È curiosa
di tutto e per questo si intrufola ovunque, dalle dispense alla cucina,
dall’orto dei semplici dove coltivano le erbe che lei conosce perfettamente,
adora infilarsi nel locale della
manipolazione e conservazione dei
preparati che servono a curare tutti i malanni. Le piace sbirciare quello che fa il frate farmacista: prova a
mescolare e talvolta si diverte a ingarbugliare le erbe facendole volare, e poi
assistere al disperato tentativo del frate di rimettere le cose a posto. Si si
fa delle matte risate, peccato che nessuno la vede o sente.
È affascinata da tutti quegli odori, ma
soprattutto la incuriosisce l’armadio dove vengono essiccate: è lì che ha avuto
i primi ricordi di sé.
Quegli
ambienti, di solito silenziosi e odorosi, solo appena scossi dal sobbollire dei
pentoli sul fuoco, dal gorgoglio degli alambicchi e di tanto in tanto dal
cigolio dell’armadio essiccatoio che si apre e
chiude, ora sono riempiti quasi per intero da uno scalpiccio nuovo, non
sono i soliti passi di frate Bernardo, quasi un ticchettio un po’ nervoso, a
tratti veloce. Si nasconde, si fa per
dire, dietro l’armadio per sbirciare quei passi così diversi e inusuali in quel
luogo. Ecco, arrivare dal portico, una figura femminile che non aveva mai
visto, svolazzante e leggera in quegli abiti lunghi e colorati, bionda, magra
con un sorriso simpatico e due occhietti vispi e sapienti.
Ecco forse questa mi può vedere! Ehi te, ciao, chi sei? Mi vedi?
Non la
vede, neppure Luisa può vedere Berta
nonostante il suo sbracciarsi e svolazzare intorno, e poi che ci fa
questa nel regno del frate erborista?
Ecco che
Luisa apre l’armadio
Che buon odore di pimpinella lavanda e mentuccia!
Luisa
apre la sua sacca e ne tira fuori delle lenti per leggere meglio le etichette,
d’improvviso una luce taglia la stanza e si riflette nelle lenti e come una
lama attraversa Berta che per un attimo diviene visibile, Luisa che certamente
non si aspetta quella visione ha un sobbalzo, fa un passo indietro e le cadono
di mano sacca e lunette, urta col fianco
il tavolo con gli alambicchi e
con il viso trasfigurato più dallo stupore che dalla paura, cade a sedere in
terra, occhi stralunati e fissi sulla
figura di Berta.
Un attimo,
solo dopo un brevissimo istante di primo stupore echeggia per le stanza una
grande e sonora risata, anzi due e per la prima volta Berta sente la sua voce:
Mi vedi, si mi vedi, oh finalmente! E mi senti
anche? Chi sei, come ti chiami che ci fai qui e cosa cerchi e…
Uhe bimba
calma! una cosa alla volta! certo che ti vedo e ti sento, e ora scendi dall’armadio.
Ma in un
attimo la luce cambia inclinazione e il riflesso scompare nell’eco delle risate.
Fu in
quel preciso momento che Fra’ Gustavo entrò nella cucina e scrutò Luisa come si fa con un cagnolino e poi
con voce accorata le disse che fra’ Bernardo non era lì oggi, non si sentiva
molto bene e stava riposando nella sua cella.
Lì per
lì Luisa si preoccupò, perché quella voce stridula e lo spostare molle della
testa da sinistra a destra le fece presagire niente di buono. Ma in fondo fra’
Gustavo era sempre un po’ melodrammatico, quindi allargò le spalle e si
ripropose di andarlo a trovare poco dopo. Con estrema premura chiese se nel
frattempo poteva scendere nella biblioteca.
Fra’
Gustavo annuì e con passo felino abbandonò la stanza.
Anche
la Biblioteca era per lei affascinante, detentrice di tanto sapere. L’odore
della polvere e dell’umidità la contraddistingueva.
Era un
privilegio accedervi, solo pochi estranei vi erano ammessi, lei era una di
questi.
La
scala a chiocciola produceva un morbido scricchiolio ad ogni passo, anche se leggero. Al centro le assi
degli scalini erano consumati, mentre la sinuosa ringhiera era lucida e
splendente. Sicuramente le mani dei fratelli sono sempre state avvinghiate ai loro rosari o
nascoste sotto la stola, tali da non usare il debito appoggio.
La
luce era fioca, ma non tremula, ormai gli antichi candelabri erano
inutilizzati. Le candele nuove svettavano verso l’alto, ma solo come
arredamento, mentre le basi erano
annerite e coperte da strati di secolare
cera.
I
tavoli di castagno erano illuminati solo in alcune postazioni, dove frati
seduti su grandi sedie erano assorti in letture. Qualcuno di loro prendeva
appunti e spostava nervosamente fogli e pagine.
Tutt’intorno
la libreria semicircolare, intervallata da scale semimovibili.
Luisa
cercava quel libro di cui fra’ Bernardo conosceva con cura ogni pagina e ogni
scritto, ma lui non era con lei per aiutarla.
Si
ricordava come Bernardo le avesse letto le prime parole: ”Ego Lhotaris , Dei
servus de sanctae Abatiae Candegghiae …hoc inveni et scripsi, ad maiorem Dei
gloriam….”(Io, Lotario,servo di Dio, della Santa Abbazia di Candeli……questo ho
scoperto e questo scrivo, a maggior gloria di Dio). Lei, pur non conoscendo il
latino, aveva voluto imparare a memoria quelle magiche parole. Fra’ Bernardo
ora le mancava le dava coraggio la sua autorevole presenza. Si accorse di
tremare, ma forse era solo il freddo.
Anche
il respiro si era fatto lento, un leggero fumetto usciva dalla bocca, la stanza
non era proprio caldissima, ma in fondo quegli ambienti erano troppo imponenti
per essere riscaldati a dovere.
Vide
in fondo alla stanza proprio sotto gli scaffali dei libri un novizio
impacciato. Lo aveva visto altre volte, sa che si chiama Lotario, ed è sempre
stato una figura appartata e un po’ misteriosa… In quel momento sta parlando
con un giovane alto e bruno.
Si
avvicina ai due, svicolando tra i grandi tavoli, fra la curiosità e lo stupore
di vedere un “estraneo”.
Infatti
era la prima volta che Fabio entrava in quel luogo santo e nessuno lo aveva mai
visto prima. Lotario lo aveva notato
subito, incantato da quegli occhi scuri profondi e forse pensava di aver
trovato qualcuno con cui poter parlare, ma in modo laico, senza impedimenti
dottrinali e a lui avrebbe potuto fare le domande che desiderava da tanto tempo
porre sul mondo e, perché no…anche sul suo Creatore. Per questo lo aveva
accolto così apertamente e lui si era lasciato abbracciare abbandonandosi al
profumo grezzo della tela di quel saio misterioso.
Fabio era un ragazzone semplice ma molto
riflessivo. Non amava esaltare il suo fisico, sapeva di essere bello ma
sembrava che ciò non lo riguardasse; in lui non c’era il minimo cenno di
vanità. I suoi capelli biondo scuro erano boccoli d’oro, da bambino; amato da
una madre adottiva moderatamente amorevole, saggia e pragmatica, aveva
abbracciato il suo stile. Ma la sua tranquilla sicurezza era vera? Spesso
Fabio se lo era chiesto senza sapersi dare una risposta. Certamente la nascita
del fratellino, figlio vero dei suoi genitori, era stato un grosso colpo per
lui nonostante la capacità adattiva che, data la sua situazione, gli
apparteneva sin dalla prima infanzia. “Nessuno può avere tutto…”
ripeteva a se stesso e questa filosofia lo aiutava ad andare avanti
permettendogli di mantenere un sufficiente equilibrio. Non poteva neanche
immaginare quanto quel tarlo di “incompiutezza” avrebbe potuto
influire nella sua vita futura. La stabilità di cui godeva, raramente subiva
interruzioni se non per alcune nottate insonni in cui assurdi fantasmi
catturavano la sua mente. “Ricordo soltanto ciò che mi è accaduto da
quando sono stato adottato, a sei anni, ma prima? E quando chiedo qualcosa al
riguardo, perché tutti sono evasivi?” L’ansia faceva breccia nella sua
mente, nessun flashback. Quei buchi neri del passato gli causavano un disagio
profondo. Fabio pensava che non avere un passato è come non avere vissuto; il
ricordo è la base dell’identità, “non so chi sono, dunque. Se avessi dei
ricordi potrei anche dimenticarli, ma non averli…cosa posso ricostruire io?
Il non ricordo è un mostro più di un ricordo mostruoso, sono posseduto dalla
non-memoria!” Sfinito da queste ombre, Fabio osservava con insistenza gli
scuri della finestra della sua camera, nella speranza che i primi bagliori di
luce giungessero salvifici, ad annunciare il giorno. In seguito ad una di
queste nottate insonni, prendendo sempre più coscienza dei suoi problemi, aveva
deciso di iniziare a frequentare la
biblioteca dell’Abbazia. Non vi era mai stato, ma quell’ambiente solitario e
misterioso avrebbe potuto essergli utile per raccogliere idee e pensieri e
tentare di rievocare quel passato sconosciuto che sempre più lo
tormentava. Si era incamminato, di primo mattino, per i viottoli
dissestati in mezzo al bosco. Quell’aria fresca e profumata, insieme al
cinguettio degli uccelli, al fruscio delle foglie stropicciate da un robusto
venticello, lo misero di buon umore nella speranza di poter trovare in quel
luogo, sembianze, purché sfumate, del suo ignoto, irrealizzabile passato.
Giunto all’Abbazia, Fabio era entrato in quella biblioteca tutta avvolta in una
bruna e sfumata luce. Gli era parsa immensa: tre colonne in pietra definivano
volte misteriose. Ai lati le bifore alte e strette sembravano insufficienti a
illuminare quell’ambiente cosi vasto. Fra l’una e l’altra, alle pareti, grandi
scaffali, carichi di antichi volumi, che al solo pensiero di toccarli, incutevano
soggezione. Fabio si era seduto ad una delle tante fratine disposte
lateralmente e appoggiando le braccia sul tavolo, aveva abbandonato la testa
fra le mani, aveva socchiuso gli occhi e si era messo in ascolto di quel
silenzio assoluto. In lontananza deboli
armonie di canti liturgici e si era accorto che quell’iniziale diffidenza si
stava trasformando in una sensazione di pace. Cullato da quegli arcani,
indecifrabili echi, Fabio fu scosso da un rumore secco e fioco proveniente da
una zona poco visibile…
Lo
schianto era stato improvviso e molto violento. Avevano sobbalzato
rabbrividendo Luisa e quel ragazzo incerto, diafano, leggero che subito la
guardò e subito si perse negli occhi di lei, sgranati e pieni di stupore. Cosa
poté vedere rimase un mistero ma Luisa si spostò verso di lui, alzò la testa,
tuffandosi in quei grandi occhi scuri e con fare intrigante iniziò una fievole conversazione.
Era
difficile percepire il brusio del loro raccontarsi ma fu una scintilla di
confidenze senza preavviso, una cascata di colori nella stanza buia.
Cominciò
a raccontargli delle erbe, di come le piaceva uscire nel prato per cercarle. Le
raccoglieva con delicatezza, le metteva nel paniere e le portava a casa. Poi le
riadagiava, le spostava, le confrontava, con gli schizzi del quaderno della zia
Marta.
Quando
aveva scoperto il loro nome, il rapporto si faceva più amichevole, fraterno, le
chiamava per nome
“Cicerbita”….sei
dura come una Cicerbita!! Diceva la mia mamma…quindi tenace, amara…….. va
lavata molto bene, poi in abbondante acqua bollente, per aggraziarla e renderla
morbida e gustosa al palato.”
“Tarassaco,
le sue proprietà sono curative, ottime per depurare il fegato. Ma il nome
dell’infanzia è piscialletto, così siamo più intimi, più famigliari”,
raccontava Luisa.
La
conversazione fra i due andava
spostandosi al piano superiore e fra chiacchiere e risatine si ritrovarono nel
bel mezzo della cucina.
Luisa
era orgogliosa di mostrargli il suo rifugio, il suo regno e di condividere il suo sapere.
Fabio
rimase affascinato da quell’esserino dolce e delicato, che con gesticolare
morbido raccontava la sua passione.
Dava
vita ad un mondo sconosciuto e lui non poteva far altro che ascoltarla rapito
ed abbagliato.
Anche
Lotario aveva fatto un salto al cadere del volume per terra e alzando gli occhi
per la vergogna di essere stato il maldestro responsabile, la vide. Era lì, che
mentre volteggiava tra i libri il rumore improvviso l’aveva fatta cadere a
terra, a un passo da Lotario e stranamente lui….. lui l’aveva vista.
Berta!
Urlò senza potersi trattenere….Berta! e incredulo si mise a piangere senza
rendersene conto mentre lei rivide i suoi occhi brillanti che la chiamarono
come da un lontanissimo vortice di sensazioni.
Lotario!
Era lui! Era lui, dunque e allora…..
Tutto
all’improvviso si colorò di presente
Berta ora
ne era certa: c’era un legame con la sua presenza all’abbazia. Era stata da
tempo misteriosamente attratta da quel luogo mentre vagava inquieta nei boschi
dei dintorni e quel suo soffermarsi nelle cucine e in biblioteca come fosse un
luogo amico, il suo riconoscere le erbe e subito sapere a cosa servivano,
quante volte aveva cercato di informare frate Bernardo delle sue conoscenze.
Inutile svolazzare sopra la sua testa, spostare le erbe, spengere i fuochi,
non otteneva nulla: lui pregava e basta.
Ma ora Berta sapeva, ne era certa, era stata una conoscitrice e per questo era
stata definita “malefica” e poi anche strega e fattucchiera, medichessa,
si ecco, ora le tornava in mente che fu arrestata, processata e condannata al
rogo perché conosceva le pratiche di “fare medicine”, ricette di erbe con
la mandragora, la canapa, lo stramonio,
di preparare unguenti, balsami e intrugli e decotti e infusi.
Sì, ora
sapeva che Luisa era una sua discendente, lo aveva intuito quando si erano
viste nella cucina a causa di quel raggio di luce. Gli altri non potevano
vederla, solo la sua lontana discendente “strega” come lei, aveva il
potere di vedere oltre.
Tutto era
successo in quella abbazia pure il rogo sulla collinetta, lì aveva curato e salvato un giovane fraticello …oh, se lo
ricordava…Lotario , questo era il suo nome.. L’aveva fatta salire su fin dentro
lo scriptorium a leggere i testi
proibiti e sempre lui le aveva insegnato a leggere e scrivere: studiavano e
sperimentavano insieme medicine, infusi, decotti con cui il frate erborista curava i confratelli, ma
la vera esperta e conoscitrice era lei,
Berta. . Quell’incontro
era stato fatale per tutti e due. Lotario era stato affascinato dalla
conoscenza profonda della natura e nei poteri, di erbe ,radici e foglie che
Berta gli stava dimostrando. Lei ,invece, fu subito stregata da quegli occhi
che parevano scrutare tutto, curiosi attenti alle lezioni che lei gli
impartiva, finché, quando anche lui raggiunse il suo livello, cominciarono a
collaborare, questa volta guidati dallo spirito
intraprendente e curioso di Lotario, che oggi sarebbe stato chiamato un
innovatore. I loro incontri si svolgevano di notte, lui la faceva entrare nelle
mura attraverso un passaggio che una volta l’Abate gli aveva svelato,
attraverso cui perseguitati e pellegrini indesiderati altrove, venivano accolti
in quel luogo santo.
Ora
quasi ogni notte, vi passava Berta per raggiungere il suo compagno di ricerca.
Fu per
loro un periodo meraviglioso, allietato anche da un sentimento molto poco
spirituale ma ugualmente divino: la curiosità era stata galeotta e aveva
generato l’Amore, quello maiuscolo, che pochissimi infelici conoscono.
Ma le
loro ricerche progredivano, e anzi avevano preso un indirizzo che, ad una mente
dottrinale, avrebbe emanato un piccolo odore di eresia.
Comunque
erano andati avanti…sempre più spaventati da quello che andavano scoprendo, finchè
un giorno Lotario si sedette e prendendosi la testa fra le mani e con gli occhi
fissi sul pavimento, non mormorò: ”Basta….Berta, nec plus ultra…può darsi che
il Signore ci metta alla prova..o l’antico serpente ci seduca con la sete della
conoscenza..Dobbiamo fermarci”. E Berta aveva capito: ”Sì, distruggiamo tutto, che
non rimanga nulla..”
“No..,questo
no..lo scriveremo e lo nasconderemo, finchè i nostri lontani discendenti
sapranno cosa significa e come lo si possa utilizzare…” La guardò con un
pallido sorriso.. ”Noi siamo forse andati troppo oltre per il nostro tempo..”
E
così fu: Lotario travasò in un manoscritto tutto quello che avevano scoperto:
dosi, materiali, procedimenti…tutto.
Alla
fine chiuse il documento in un piccolo forziere e conducendo con sé Berta
perché anche lei lo vedesse, lo nascose in un piccolo spazio a prova di
curiosi, ben protetto da un meccanismo segreto..una delle tante cose che aveva
scovato durante le sue passeggiate solitarie nei meandri dell’Abbazia.
Non
appena ebbero finito, alla luce delle torce, si accingevano a tornare
indietro, scorsero altre luci che si
inoltravano nel cunicolo…Spensero le loro e si affrettarono all’uscita…Una
volta arrivati alla sorgente della nuova illuminazione, Lotario si sentì gelare:
non c’erano dubbi sull’identità dei nuovi arrivati, la grande croce bianca
sulle stole nere, i volti severi quasi scheletrici non concedevano
dubbi..quella era l’Inquisizione…In qualche modo loro erano stati scoperti ed ora erano perduti.
Il fraticello fu duramente punito e Berta fu
accusata di stregoneria e bruciata dopo aver portato a termine la gravidanza e
partorito una bimba data poi in adozione ad una famiglia di contadini della zona.
Improvvisamente tutto fu chiaro, la nebbia che per secoli le aveva
offuscato la mente, impedendole di ricordare, si stava diradando, come la bruma
che lenta scende a scoprire valli e prati, quando vede il suo quaderno delle
erbe in mano a Luisa, Berta capisce. Sapeva ora che il tintinnio, il fruscio, gli scricchiolii
e perfino il sibilo del vento sotto il tetto e fra i pertugi delle mura
scalcinate e rotte, tutto quanto non è altro che una scheggia di antico non
reale. Ora sa che deve condividere con gli altri la verità: prima Luisa, la più
giovane e ignara e pur così entusiasta di tutto, e poi quel Fabio, così
particolare, ma fra tutti Lotario, il
suo amato Lotario, per il cui amore era stata bruciata viva, e ancora voleva ricordare..
Mentre il
monaco cerca di ricomporsi ecco Luisa che torna indietro correndo tenendo Fabio
per mano. L’immagine di Berta ora è splendente, a mezz’aria, sollevata dal
pavimento in un atteggiamento di stupore infinito. Doveva. Sì doveva
raccontare la sua storia e quello è il momento.
A poco a poco Berta si accorge degli sguardi
che sono puntati su di lei. Non solo Luisa la sta osservando, ma anche Lotario
e Fabio intrecciano i loro occhi in quelli di lei e ascoltano, ascoltano.
Fu così
che Berta rivisse i momenti del fuoco e del fumo, il dolore, il terrore e la
voglia di vivere che la divorava più di quelle fiamme in cui perse la vita da
strega condannata. Ora il ricordo zampillava sicuro, ora sapeva chi era stata e
dove.
Loro la
vedevano e la potevano ascoltare, anime limpide e capaci di sentire il dolore
degli altri.
Raccontò
della figlia appena nata che le fu strappata
prima di morire, un dolore anche più grande della condanna. Raccontò dei
poteri delle erbe, della magia di guarigione e della luna candida quando si
veste nella notte magica. Tutto quello per cui era stata accusata e uccisa ma
che invece era un potere di gioia e felicità.
Ormai era
quasi sera.
Berta aveva finito di raccontare la sua storia
a quell’uditorio attento. Fabio e Luisa erano emozionati e commossi. Lotario stava
in disparte e in silenzio. Anche Berta l’aveva riconosciuto subito il suo grande
e unico amore. Domandò se avesse saputo della sua orribile fine. Berta guardava
Luisa, sapendo ora con certezza che era
una discendente di quella sua bimba
perduta e che aveva ereditato i poteri che l’avevano dannata. Lievemente, come
sapeva fare da tempo, accarezzò i capelli della giovane maga e le passò in un
attimo di fuoco tutto il potere delle donne, la capacità di guarire le ferite,
morali e fisiche, in un gesto leggero e solenne di cui Luisa percepì soltanto
una vibrazione intensa, come una scossa elettrica. E di lui, Lotario, che ne
era stato nella lunga scia di tempo che li aveva separati?
Come in risposta il monaco le si avvicinò, lei fece
altrettanto, ponendosi al suo fianco. E uniti, si incamminarono fuori
dell’Abbazia, verso il bosco scuro, verso l’infinito, alla luce di un tramonto
infuocato che stava bruciando il cielo.
Anche Luisa e Fabio, dopo un attimo di riflessione,
si mossero dietro a loro, quasi per raggiungerli.
I passi delle due coppie risuonarono nella ghiaia
del viale, un ritmo cadenzato che, lentamente, molto lentamente andava
trasformandosi: i passi si facevano via via più lievi finché quelli della prima
coppia si affievolirono, divennero
eterei, morbidi..fino a mancare del tutto di suono. E anche le loro figure si
allontanavano, bevendo luce su luce…fino
ad annullare i propri contorni, disperdendosi nel barbaglio del sole morente..
Luisa e Fabio
non smisero di camminare…
Ma un vecchio cipresso lì vicino avrebbe detto che
anche i loro passi si stavano facendo sempre più leggeri…come le loro figure,
che andarono piano piano a disperdersi nella bruma.
Acqua che viene e che va – di Stefania Bonanni, Patrizia Fusi, Rossella Gallori
Rumore c’è sempre, in sottofondo.
Quando arrivano i ragazzi, i nuotatori, le mamme, quel rumore va cercato,
si ritrova solo con attenzione, un blablabla come di acqua in bocca, sputata
con lentezza in un lavandino.
È acqua che viene, acqua che se ne va, che ritorna pulita, che gorgoglia da
sola, che esce da tubi, da rubinetti, da docce, e se ne va borbottando,
risucchiata da misteriose idrovore.
Quando la piscina torna deserta, allora si sente bene, il ribollire sordo,
si vedono bollicine, respirano le tubature. Ci potrebbe vivere una salamandra
mimetica, che si nascondesse di giorno, ed occupasse gli spazi lasciati vuoti,
di notte. Potrebbe nuotare, tuffarsi, vivere una pacifica vita d’acqua.
Troverebbe anche cibo, nei residui di merende sbriciolate sugli scalini.
Pulisce in piscina, Sofia. Non è
altissima, ma ha gambe lunghe e magre, così magre che sembrano rami, con
ginocchia appuntite, legnose. Sembra un animaletto, un piccolo cerbiatto. Non
le mostra mai, le gambe, porta sempre pantaloni, o gonne lunghe fino ai piedi.
Ha un viso di forma ovale, regolare, dolce, con lineamenti anonimi. I
colori no, quelli sono decisi. Gli occhi piccoli e distanti sono nerissimi. Le
sopracciglia perfette, ad arco, li riparano e li esaltano. Le ciglia di visone,
lucide e lunghissime, sbattono come ali. Anche i capelli sono nerissimi, grossi
e lucidi, impossibile renderli lisci. Anche le tecniche più pazienti e tenaci di stiramento si arrendono
in pochi minuti al risorgere dei ricci naturali. Porta i capelli lunghi, come
tutte. Fanno comodo, così lunghi. Possono essere tenuti liberi e spettinati, e
poi facilmente ricomposti in quelle lunghe trecce che portano tutte le donne di
casa sua.
La sua bocca ha labbra sottili, che sorridendo lasciano brillare denti
bianchissimi. Tanti denti, sembrano di più di quelli che stanno nelle bocche
degli altri.
Anche le sue sorelle sono belline. I fratelli, tutti e tre, troppo scuri.
La sua è una grande famiglia, sette
figli. Lei, la più piccola, ha 16 anni,
il più grande dei suoi fratelli 26.
Lavora in piscina da quando aveva 14 anni. La lasciarono entrare in una
mattina freddissima. Gli scalini all’ingresso erano ghiacciati, ed era stato
liberato solo lo spazio al centro, utile per passare. Lei si era rannicchiata
in un angolo, ed aveva tanto freddo che il solito gesto imparato di tendere la
mano, era doloroso. Qualcuno si accorse di lei. La accompagnò dentro, al caldo.
Per un po’ di tempo rimase lì, con la mano
tesa. Poi ci furono proteste, non la volevano, doveva smettere. Chiese di
lavorare. Così cominciò a pulire i
bagni. Il custode le dava qualcosa ogni volta, lei tornava a casa con quei soldini
che le prendevano subito, e andò avanti così.
Quest’anno ha compiuto 16 anni ed è
stata regolarmente assunta come “aiutante dell’addetto alle pulizie dei servizi
igienici, senza accesso alle vasche” È stata molto fiera di tutto questo,
in casa sua nessuno ha contratti di lavoro. Non ha deciso, come si comporterà
con i suoi in futuro, ma per ora non ha detto nulla a nessuno. Prende lo
stipendio, a fine mese, ma tiene tutto nella borsetta dalla quale non si separa
mai, e dà alla madre ogni sera qualcosa. Per ora, va bene così.
Aveva fatto molto tardi Armando, era tornato “a giorno”. Il cigolio
dei banchi che raggiungevano la postazione su grosse ruote traballanti, il
vocio dei macellai che scaricavano carne e il rumore sordo delle cassette della
frutta vuote lo avevano accompagnato in
via Ginori…dove il silenzio faceva ancor
più rumore. Con una piccola doccia e il solito bagno schiuma
San Laurent aveva tolto le ultime viscide carezze, il parlare affannato del suo
cliente era stato più pesante del solito….il “cachet “ generoso aveva cancellato solo in parte la
sua voglia di dire BASTA ….
Indossò il pigiama di seta blu,
costoso e freddo che aveva il macabro colore della solitudine, non spense la
luce, ormai il sole giocava con la frangia del
piccolo abat jour Lalique
….quell’arcobaleno di cristallo, lo avrebbe accompagnato per due….massimo tre
ore di sonno….poi, forse sarebbe andato in piscina…forse…
Si svegliò di soprassalto, la domestica e il rumore dell’aspirapolvere
erano stati invasivi, ma non aveva voglia di discutere….per cosa poi…aveva
fretta di uscire, di andare in acqua, di isolarsi nel cloro, nell’ odore di
umido….dove solo lo stridere delle ciabatte di gomma sul bagnato lo avrebbero
distratto, con il bagnino ”fuoritaglia” appollaiato sullo sgabello, che manco
lo avrebbe salutato, tra uno starnuto e l’ altro, o al massimo, se fosse stato
in buona, avrebbe mosso il capo e farfugliato:
oh Armà che ci risei?….
Un caffè nemmeno tanto speciale, in via Ŕosina, il vecchio zaino Invicta
con il necessario…il costume azzurro, l’accappatoio
un po’ sbiadito, il telo della Scala ….erano le uniche cose che aveva
conservato della vecchia vita….insieme al piccolo portachiavi con le scarpette
mignon da danza.
Raggiunse la piscina comunale, in pochi minuti.
Ogni volta che varcava la soglia si
domandava il perché di quella scelta!! Si sarebbe potuto permettere ben altro,
qualcosa di più costoso, ben
frequentato, con sauna, bagno turco….una vasca con più corsie….
Aveva scelto, invece, la tranquillità dell’anonimato, il ritmo delle docce
che perdono gocce rumorose, i phon traballanti
e gracchianti, le panche scricchiolanti sotto il peso di pensionati
anchilosati. La mancanza di privacy, non
gli toglieva niente, anzi gli dava quel senso di “ vita normale” che tanto
gli mancava….anche lo schiaffo leggero del costume, sulla pelle bagnata aveva un senso, avrebbe
nuotato un’oretta, si sarebbe asciugato sommariamente, avrebbe ceduto il passo
alle signore dello spogliatoio femminile…ed avrebbe sorriso a due grosse trecce
nere, curve sui gradini…con la
speranza di vedere i suoi occhi dalle
pupille di ebano, una bimba grande…..illuminata dal sole delle cupole di vetro
della vecchia piscina….
Non parlava con nessuno, la ragazzina. Si illuminava solo davanti alla
vetrina del piccolo negozio del biondino, all’angolo.
Da tempo Luciano aveva notato che la ragazza che lavorava in piscina, si
fermava spesso a guardare gli oggetti che erano in mostra nella piccola vetrina
del suo laboratorio, questo gli faceva piacere e lo invogliò a rendere tutto
l’ambiente più curato. Sapeva la sua storia, l‘aveva sentita raccontare al bar
della piscina, questo lo faceva sentire più vicino a lei, si ricordò delle
difficoltà che anche lui aveva avuto con alcuni ragazzi del quartiere quando
all’età di tredici anni si era trasferito in città dal piccolo paese di
montagna; per ferirlo in modo dispregiativo lo chiamavano “il montanaro” e lui
con quanta caparbietà, sofferenza e incertezze aveva faticato a integrarsi,
iniziando a giocare al calcio con il gruppo. Con l’aiuto di Marco e Roberto che
erano diventati suoi amici era riuscito a superare quel brutto periodo, piccandosi
di voler imparare a nuotare, diventando nel nuoto più bravo di alcuni di loro.
Abitava ancora con il nonno che fin da piccolo lo portava con sé nella falegnameria, quando abitavano lassù, in montagna. Quanto gli piaceva vedere come da un semplice pezzo di legno Attilio riusciva a tirar fuori pura magia. Lo stupore che aveva negli occhi faceva sì che il nonno gli insegnasse tutto quello che sapeva.
Luciano cominciò a fabbricare dei piccoli giocattoli, mestoli, piccole
scatole, intagliando sui coperchi dei semplici ornamenti, gli piaceva il legno
lo sentiva una materia viva, l’odore che emanava sempre e che poteva essere
piacevolmente resinoso o di sgradevole
marcescenza.
Quando ancora
piccolo si era trasferito in città aveva scelto come scuola l’istituto
d’arte, settore intarsio e scultura. Il fatto di conoscere i
tipi di legno lo aveva facilitato e lo aveva aiutato a prendere coscienza delle
proprie capacità. Ora aveva il suo piccolo negozio-laboratorio ma capiva le
difficoltà che quella piccola rom doveva affrontare e questo gliela faceva
sentire umanamente più vicina e più simile a lui.
Gli occhi dei due giovani iniziarono a cercarsi, Luciano prese a notare i
lineamenti di lei: quell’ammasso di capelli nerissimi e dai ricci ribelli, la
dolcezza del viso, la profondità dei suoi occhi, e un’espressione tenerissima
le rare volte che sorrideva. Lui aspettava con ansia che lei si fermasse
davanti alla vetrina e quando incrociavano lo sguardo per l’emozione la bocca dello stomaco gli si
stringeva. Una mattina Luciano si fece coraggio e quando lei era davanti alla
vetrina uscì e si presentò, Sara arrossì dall’emozione.
Da quando passava Sofia davanti alla vetrina, il resto del giorno
trascorreva inutile. Poi, arrivava lei.
Una sera lui le fece cenno d’entrare, lei disse no con testa, ma si fermò
seduta sugli scalini della chiesetta all’angolo. Quando lo vide tirare giù Il bando ne, gli si avvicinò e camminò al suo
fianco. Si raccontarono i loro nomi e le età,
poi parlarono della meraviglia di quegli oggetti di legno, Sofia li
chiamava magie. Per molte sere andò così
: prendevano l’autobus, poi camminavano,
camminavano, ridevano, camminavano, mangiavano il gelato. Una sera si trovarono
sotto casa di lui, e le chiese di salire. Le raccontò che viveva con il nonno
che gli aveva insegnato a lavorare il legno, e quanto lo amasse. Fu in quel
preciso istante che le arrivò addosso un macigno. Scosse la testa, rifiutò l’invito di Luciano,
e si allontanò senza girarsi più. E ripensò alla sua, di nonne, che nella
grande famiglia decideva quando si dovessero sposare le nipoti, ed ogni
decisione era un verdetto indiscutibile. La sentenza per lei era arrivata
quando aveva tredici anni. Le avevano trovato un vedovo di quarantacinque anni
che aveva due figli più grandi di lei,
che possedeva le due stanze nelle quali vivevano, in Romania, in campagna. La foto portata dalla nonna mostrava un uomo
con la barba lunga, le guance ciondoloni, grosse borse scure sotto gli occhi,
un sorriso che doveva incoraggiare ed in realtà mostrava un solo dente bianco
in una bocca marcia. Sofia pianse e disse: “Mai, piuttosto mi
ammazzo”, e pianse anche, da allora, tutte le volte che le veniva in
mente. Ed anche tutte le volte che la sua mamma la guardava mormorando:
“Basta abituarsi!”, o che le sue sorelle la chiamavano “la principessa del Galles”. Erano
passati gli anni, ma il macigno era sempre lì,
pronto a schiacciarla.
Fu la vita diversa che aveva toccato, a provocare la frana.
Non sarebbe tornata a casa. Né
quella notte, né mai.
Anche Armando camminava e pensava, quella notte. E ricordava…
Già, lo chiamavano Armando, ma sui
documenti era Concetto Lomanno, e questa era l’unica falsità, Il resto era tutto vero: nato a Roccalumena,
Messina, il 16 maggio del 1968, altezza 1,81, capelli corvini, occhi cobalto.
Forse quel “cobalto” era stata la fantasia dell’impiegata
dell’anagrafe, fulminata da quello sguardo di mare, professione: danzatore….chissà perché
non ballerino….
Schivo, altezzoso, seduttore, era abituato ad avere fama, successo, denaro,
rigido agli affetti ed impotente
all’amore, solcava palcoscenici girando il mondo, schivando affetti, fra un
plié a demì ed un grand plié, riscuoteva applausi e denaro…e si nascondeva
tra i suoi sogni.
Quando alla porta avevano suonato i quaranta, non aveva potuto ignorare la
scampanellata, ed erano arrivati i primi capelli bianchi, qualche chilo, ed un
telefono muto che non annunciava più
tournée. ..ed era cominciata la sua solitudine, la miseria morale e
materiale, un grosso album di velluto avorio aveva sostituito la sbarra, quella
frattura ora si faceva sentire, anche troppo difficile fare gli esercizi con le
articolazioni scricchiolanti.
L’idea gli apparve una notte, quando la fame sostituì Il sonno….Una doccia, la camicia di seta
grigia, i jeans che stringevano nei posti giusti, un buon profumo…e giù per quelle scale: un lampione, un
marciapiede, una macchina di lusso
e e e : “Ciao, QUANTO?”
Fece un po’ di conti Armando, in fretta….sospirò : “Trecento”
E salì verso un mondo squallido e
sommerso….di Concetto non c’era più
nulla, di Armando ancor meno, se non una chioma tinta e due occhi color
mare di Sicilia.
Gli appartamenti una volta erano comunicanti, anzi era un unico ed immenso 12 locali, per raccontarla da agente immobiliare, posto al secondo piano di via DE’ GINORI al 18 e al 20 due ingressi sontuosi, illuminati da luci calde e morbide….il De Caro aveva preso l’ ala più piccola, l’ altra era rimasta tutta sua, nove stanze, una in fila all’ altra, un piccolo treno di lusso dal quale si vedeva Firenze ed oltre, si percepiva il rumore, l’affollamento, in un silenzio totale…
La sua camera era l’ultima, quasi nascosta, una elegantissima boiserie dove il letto capitonnè rosso rubino troneggiava sulla pedana di palissandro alta quasi trenta centimetri…..una piccola dormeuse di seta color sabbia si appoggiava alla parete più piccola…il comodino era un piccolo inginocchiatoio, restaurato ad arte, mutilato nella sua funzione ed illuminato, da una sospensione De Padova, fredda e costosa…..nell’angolo più buio un applique di cristallo, al lato sinistro della tenda di macramè color champagne, un piccolo putto dorato, proveniente dalla collezione Bruschi, Arezzo fu testimone di una lunga ed estenuante contrattazione…che lasciò soddisfatte entrambe le parti.
Al suo bagno si accedeva da una piccola porta intagliata, il marmo di Verona nascondeva l’utile dando risalto all’inutile, un trionfo di cifre ricamate impreziosiva la biancheria di morbido lino, i verdi si sfumavano fino a diventare quasi blu….
La cucina era enorme, un tavolo ovale di noce appoggiato su potenti “mani di ferro battuto” ospitava una perenne apparecchiatura, una unica sedia toné laccata di blu Francia, occupava uno spazio esiguo, in una superfice quasi sprecata, tra vasellame di pregio e preziose pentole di rame….un tutto mai usato….inutile.
Si accedeva al salotto da un’immensa vetrata arlecchino, frutto di impareggiabili maestri veneti, un rincorrersi di tasselli quadrati, di non più di tre, quattro centimetri di lato, imprigionati da cornicette diverse di piombo glassè. I mobili Chippendal, stranamente non toglievano spazio, anzi impreziosivano l’ambiente con sontuosi ghirigori, piccoli cuscini patchwork di seta panna riempivano gli angoli più intimi di stupende poltrone Fraul …
Nel dedalo dei corridoi dalle alte pareti rivestite di moirée cremisi solo un elegante ed ottocentesco orologio a pendolo, scandiva l’agonia del tempo che sembrava annunciarsi sempre più lento e sfacciato.
Chilometri di casa, metri di tessuto, centimetri di quadri, millimetri di vita, nemmeno un fiore, alcune stanze vuote abbandonate a se stesse….in via De Ginori tra il diciotto e il venti nero…….
Eppure Armando era solo, solo in tutta quella casa di Via Ginori.
Tutto questo pensava, ricordava, riassumeva, Armando, quella notte. I conti
non tornavano, e lui non si decideva a lasciar andare quell’oscurità che lo
accoglieva e lo assorbiva. Solo sui ponti, si può pensare, guardando l’acqua
che scorre: pulita e sporca, nello stesso modo e nella stessa direzione.
Quella notte, su un ponte, le ore erano scandite dallo scorrere
dell’acqua. Lo sciacquio ritmico,
ripetuto all’infinito, era ipnotico.
Sofia guardava fissa quel nero. Non sapeva più ne’ dov’era, ne’ da quanto tempo era lì. Fra poco sarebbe stato giorno, di nuovo. Il
freddo prepotente le era entrato nella carne, fin dentro alle ossa. Anche i
suoi pensieri erano diventati lastre di ghiaccio, scivolavano nella mente,
senza grattare, Apparivano e slittavano via, senza stridere, senza fare male.
Lei non sentiva più nulla. Non udì neanche i passi dell’uomo, che
pure le era arrivato alle spalle. Si scosse quando una mano calda si posò sul suo braccio sinistro. Fu uno sguardo
stupito quello che mise a fuoco gli occhi azzurri di un uomo maturo. Lui
parlò subito, lei non ebbe nemmeno il
tempo di impaurirsi. La voce roca pronunciò
parole lente e tranquille, rotonde di un dialetto che sapeva di mare, la
chiamava “bambina”, diceva che era troppo freddo per stare fuori in
una notte così. Non fece domande, mentre
la prese sottobraccio e camminò con lei lasciandosi il fiume alle spalle.
Lei era come volasse, disposta a cadere, ma fiduciosa, sapeva solo di non
provare paura. Lui aveva raccolto un passerotto, l’avrebbe portato al caldo,
sfamato. Era solo questo. Come in un passo a due su un palco dallo sfondo
scuro, camminavano lievi, proiettavano ombre nitide, non c’erano tensioni.
La condusse davanti al portone di Via De’ Ginori, con naturalezza la fece
entrare, cedendole il passo. Accese tante luci, alzò il riscaldamento. Entrò per primo in cucina, si mise ad armeggiare, poi
la chiamò e le offrì una tazza di latte
caldo. Lei bevve un sorso bollente, e il ghiaccio si sciolse, di colpo. E
cominciò a parlare, non servirono
domande. Raccontò della sua difficile
famiglia, disse che vivacchiavano di elemosine e furtarelli, che avrebbero
voluto questo anche da lei. Raccontò che
puliva in piscina, per l’atto di carità
di una persona buona, ma che le faceva male vedere ragazzi come lei che
sguazzavano, si divertivano spensierati, lei poteva solo guardare, non era vita
per lei. E parlò, parlò, parlò,
con voce calma e chiara, come non avrebbe pensato di saper fare. Disse
anche di Luciano, di aver incrociato gli occhi buoni di quel ragazzo capace di
costruire gli oggetti che lei sognava e basta. Di essersi fermata ogni giorno
davanti a quella vetrina. Di averlo seguito. Di pensare solo a lui, e di aver scoperto
che anche lui diventava rosso come lei, quando i loro sguardi si incrociavano.
L’uomo dagli occhi azzurri la lasciò parlare, senza i nterromperla mai.
Quando lei arrestò quel fiume di parole, con un inconsueto mezzo inchino, le
disse di chiamarsi Armando, di aver vissuto una vita movimentata da balli,
donne, sigarette ed alcool, e di essere solo. Solo.
Questo successe nella notte che cambiò
la loro vita.
Saranno tre anni, mercoledì.
Adesso Sofia è maggiorenne. Si
sposerà, mercoledì. Con Luciano.
Tre anni fa Armando chiese il suo affidamento, la famiglia di Sofia fu felice di dare il
consenso, naturalmente a pagamento. Lei,
Armando lo chiama babbo, lui la chiama bambina. Luciano ha cenato con loro ogni
giovedì ed ogni sabato. Dopocena, il
giovedì giocavano a Monopoli, o a
briscola, tutti e tre. Il sabato andavano al cinema. Nella Camera di Sofia
è arrivato un letto a due piazze.
Saranno in tre, da mercoledì,
nell’appartamento di Via De’ Ginori.
“LE RAGAZZE DI FIRENZE” – Di Elisabetta Brunelleschi, Sandra Conticini, Anna Meli, M.Laura Tripodi
Da qualche anno
l’alluvione aveva lasciato ferite aperte su Firenze che vedeva monumenti,
capolavori e libri danneggiati, insieme a negozi mai più riaperti.
Sul ponte alla Carraia
alle otto, quel mattino, Fiorenza camminava veloce perché voleva fermarsi al bar per la
colazione. Spesso lì incontrava i compagni di scuola e Mario, il barista, che
con la sua velocità nel servire, sbalordiva le ragazze facendo il giocoliere
con piattini, tazzine, bicchieri e, spesso nel frastuono, oltre al tintinnare
delle stoviglie si sentiva anche il rumore dei cocci. In questo ambiente così
movimentato gli occhi spenti di Fiorenza si ravvivavano specialmente quando la
musica del Juke Box, con le canzoni dei
Beatles e dei Rolling Stones, le metteva addosso il ritmo e la voglia di
ballare.
Deve andare a scuola, ma
tutte le mattine è un grosso sacrificio entrare in quell’edificio così buio e
triste, con professori ormai antiquati, materie che non le piacciono, ma deve
raggiungere il suo scopo a denti stretti, arrivando ad ottenere quel pezzo di
carta per poter accedere ad un posto sicuro.
Aspetta a gloria la
domenica pomeriggio per andare in quella sala da ballo sull’Arno dove la musica
e il ballo la inebriano dandole una vitalità infinita, facendola diventare
leggera e armoniosa. Qui ha conosciuto anche diverse persone, ma con due
ragazze Laura e Ginevra, un po’ più grandi di lei, si trova molto bene e, anche
se sono tutte e tre diverse, stanno volentieri insieme.
Laura è una bella ragazza
di 21 anni alta, pelle olivastra, bruna con i capelli morbidamente ricci e
occhi verdi, un po’ cicciottella, ma pazienza, d’altronde è una bongustaia!!!
Veste quasi sempre
sportiva, ha molti amici ed un ragazzo con il quale va in moto, ma la domenica
in estate la lascia andare a ballare, tanto sul loro amore non ci sono nuvole!
Studia giurisprudenza, le
piace molto, dà più esami possibili per laurearsi e poter vedere avverati i
suoi sogni. Quando ha un po’ di tempo libero le piace camminare nei boschi per
riposare la mente infastidita dai rumori della città e scrive qualche poesia.
La discoteca però le mette addosso il brio e l’adrenalina, che le servono per
riuscire a studiare meglio e più in fretta.
Fiorenza e Laura hanno
conosciuto Ginevra per caso, fuori dal rumore assordante della sala da ballo,
le hanno chiesto l’ora e poi si sono messe a parlare forse di cose futili, ma è
così che è sbocciata la loro amicizia, che ormai dura da un po’ più di due
anni.
Ginevra è una ragazza alta
e sbarazzina, con i capelli lunghi e ricciolosi, ogni tanto azzarda a
lisciarseli, ma sono troppo ribelli, quindi spesso rinuncia. Ha due occhi
marroni scuri quasi neri e pungenti come due capocchie di spillo, una bocca a
cuore che sembra dipinta da un pittore, specialmente quando si mette un po’ di
rossetto. Le mani sono lunghe, magre, sempre ben curate con smalto molto
fantasioso. Veste sportiva, ma non esce senza orecchini, spesso vistosi e
colorati e ama portare braccialetti, orologi, anelli, quasi mai collane.
Ha conseguito il diploma
al liceo classico con un buon risultato e ha iniziato l’Università ma, la sua
voglia di indipendenza e il suo senso di responsabilità, l’hanno fatta smettere
e andare a fare la cameriera in un albergo a 5 stelle in Austria. Qui i ritmi
erano serrati e stressanti, le mancavano la famiglia e gli amici, quindi ha
deciso di tornare nella sua amata Firenze dove lavora in ristorante molto
conosciuto. Il suo sogno nel cassetto sarebbe quello di diventare un’attrice
famosa, ma è consapevole che non sia facile.
Spesso la domenica sera,
dopo aver ballato, le tre amiche mangiano insieme e vanno a casa di Ginevra che abita lì vicino, nella casa
della nonna costruita negli anni 30. La strada dove si trova è molto
silenziosa, ogni tanto passano qualche macchina e pochi motorini. Solo nel
giugno del ’69 in occasione della vittoria dello scudetto della Fiorentina in
questa strada, che ancora oggi sembra dimenticata da tutti, si formò un grosso
ingorgo, fu invasa da FIAT 500, giardinette, multiple con lo strombazzare dei
clacson, trombette, cori, persone a piedi e tutto era di un unico colore viola.
Per la sua famiglia quella
casa è molto importante, perché è stata costruita dal babbo e dal fratello della
nonna… pietra su pietra.
Nonostante la casa sia
ormai vecchia, lei riesce a sentire l’odore del sacrificio, perché in quegli
anni costruire una casa di tre piani era un lavoro molto duro, e anche l’odore
della paura di aver vissuto gli anni della guerra fa venire ancora la pelle
d’oca. Praticamente la famiglia della nonna viveva nel sottosuolo con le
finestre tappate dai sacchi di sabbia e ogni volta che veniva sganciata qualche
bomba dagli aerei, sembrava che la casa fosse stata abbattuta e invece anche quella
volta, per fortuna, erano tutti sopravvissuti. C’è anche l’odore del fango,
della nafta e il dispiacere di aver perso tutto quando a Firenze venne
l’alluvione, ma per fortuna c’è anche l’odore della gioventù, della
spensieratezza e dell’amore e anche l’odore e le grida dei bambini. Perché è li
che la nonna e sua sorella abitarono dopo il matrimonio.
Per Laura e Fiorenza, che
abitano in case moderne, quella casa ha un fascino perciò quando sanno che
Ginevra è libera dal lavoro, vanno a trovarla e, insieme a un po’ di musica,
organizzano qualche escursione, da fare insieme.
Laura spesso propone di
andare nella vecchia casa colonica di famiglia verso San Miniato al Tedesco.
Quando da piccola arrivava a quella casa, a metà della salita, le sembrava la
casa di Biancaneve con quelle finestrine e quelle tendine bianche di trinato e
i ciclamini rosa che facevano da padroni con il loro delicato ma deciso colore
e profumo. Appena arrivati i ragazzi si mettevano a correre, saltare e giocare
sull’aia fatta di pietre sconnesse, inframezzate da un’erba sempre verde. Sotto
il caratteristico loggiato c’era il portoncino che immetteva in un corridoio
sul quale si aprivano un salottino e le camere, tutto era pavimentato in cotto
e arredato con mobili di massello scuri e severi. In fondo una grande cucina
accogliente e luminosa, con un bel camino dal quale penzolava una catena
affumicata con un nero paiolo che ricordava tutte le varie feste e ricorrenze
trascorse intorno a quel tavolo vecchio e pieno di segni. C’era ancora la
vecchia madia per il pane, rassicurante, gli armadini bianchi e diverse sedie
impagliate. Dalla porta finestra della cucina si usciva su uno spiazzo e
scendendo tre scalini sulla destra c’era la cantina, dove si poteva trovare di
tutto, ma soprattutto l’occorrente per fare il vinello leggero per tutta la
famiglia
Da lì si poteva ammirare
un bel panorama: San Miniato Basso con le sue case piccole e ammucchiate, il
verde della campagna e i terreni coltivati, i comignoli fumanti, ma si
sentivano anche il canto degli uccelli, l’abbaiare di un cane in lontananza, il
trattore che trainava l’aratro, qualche voce nel vento e il fruscio del salice
piangente vicino al fosso.
Una mattina Laura,
Fiorenza e Ginevra erano nel bar perse davanti agli equilibrismi di Mario, a un
tratto, si guardarono e quasi all’unisono esclamarono: -Domenica a San
Miniato!-
Dopo una risata, si
accordano per gli orari e i mezzi. Sarebbero partite alle nove. Laura metteva a
disposizione la propria Cinquecento. A San Miniato c’era una sagra e nel
pomeriggio, nella piazza si ballava!!
Parcheggiano vicino alle
antiche mura e imboccano il viale che dopo pochi metri si immette nell’ampio
spazio occupato per l’occasione da bancarelle, tavoli e un palco dove già erano
disposti gli strumenti del complesso che avrebbe animato le danze. Un
arcobaleno di colori abbellisce le pareti degli edifici: a ognuno corrisponde
un rione.
Dalle finestre dei severi
palazzi seicenteschi sventolano le bandiere rosso-bianche del Leoncini di
Sotto, sulle facciate delle case medioevali ci sono i lunghi striscioni verdi e
gialli dei Santi di Sopra; mentre i lunghi caseggiati ottocenteschi mostrano i
drappi turchini dei Fontanari.
Sono appena le undici del
mattino e la piazza già pullula di gente pronta per i primi posti agli stand
gastronomici dai quali già si diffondono aromi di ragù e arrosti.
Le ragazze si guardano
attorno stupite e contente poi camminano verso la fontana, vogliono immergere
le mani nell’acqua delle vasche perché,
racconta Laura, bagnarsi le palme delle mani prima di mezzogiorno porta
speranze d’amore.
Il gorgoglio delle acque
per un attimo annulla il vocio della folla, le ragazze si avvicina no,
appoggiano la palme delle mani sulla superficie del trasparente liquido e, in
segreto, pensano a qualcuno. Restano immobili anche quando il vento porta sui
loro volti gli spruzzi che dai delfini scendeno nelle vasche. Finalmente
tolgono le mani dall’acqua.
Fiorenza intanto osserva
le formelle murate tutto intorno alle vasche ci sono stemmi, fiori, teste di
leoni, cavalli e poi:
-No! guardate cosa c’è
scritto!- Su una formella è raffigurata una lingua stretta da una tenaglia
sormontata dall’iscrizione:”no male-dicere”.
Ah, lingue pettegole! E si
divertono a immaginare le donne di San Miniato intente a attingere acqua e
notizie piccanti riguardanti amori, tradimenti, inganni e poi chissà quanti
incontri furtivi, sguardi nascosti.
Ginevra alza lo sguardo
verso la palazzina a tre piani che occupa il lato più stretto della piazza: da
una delle finestre si affaccia una signora di mezza età.
Anche le amiche si voltano
dalla stessa parte, Laura la riconosce immediatamente.
Quella donna è Giulietta,
non il diminutivo di Giulia, lei si chiama proprio così, ed è l’ultima erede di
una vecchia famiglia di San Miniato, vive sola in quella grande casa, che al
suo interno nasconde arredi antichi e uno splendido giardino.
Si avvicinano parlottando
e giunte al portone si trovano davanti Giulietta, è lì ferma come stesse
aspettandole. Le saluta con un vivace buongiorno e le invita a visitare il
giardino:
-Oggi è giorno di festa e
io apro il cancello, venite!-
Pochi passi e le ragazze
entrano in un’oasi di verde, dove i rumori sono cancellati e alle orecchie
giungono solo fruscii di rami e lievi frulli d’ali d’uccelli che fuggono al
loro avvicinarsi.
Piante dalle chiome
maestose coprono le loro teste e intricate siepi d’alloro e di bosso nascondono
tavolini, sedili in pietra e, in fondo, quasi addossata al muro di cinta, una
vasca rotonda con un putto di terracotta.
. Giulietta spiega:
– Vedete, questo è l’unico
giardino superstite dei tanti che c’erano a San Miniato.-
Le ragazze sono
affascinate, si sentono catapultate in un altro mondo, in un’altra epoca!
-Voi siete la gioventù,
dovete imparare a amare quello che sta intorno a voi, per proteggerlo!-
Giulietta in paese non ha
molti amici, vive un po’ appartata, ma tutti sanno chi è. Ogni mattina se ne
esce, sempre elegante con quel suo stile all’inglese e va verso la banca dove
lavora come cassiera. Un impiego che non le piace e quel suo modo di camminare
dritta, con lo sguardo fisso che, secondo alcuni, le dà un che di altezzoso, le
permette, in verità, di non pensare al disagio di quei giorni uguali tra conti,
bonifici, distinte, …
È felice quando può
ritirarsi nelle sue stanze e immergersi nell’ascolto di Mozart. Adora il fluire
leggero delle sue note che alla fine però la costringono a sentire il senso più
profondo della vita.
Infatti dalle stanze della
casa giunge l’eco di una musica, starna e sconosciuta alle orecchie delle tre
giovani amiche.
Giulietta capisce che si
sono accorte di quei suoni e domanda:
-Non conoscete Figaro…-
– Chi il gatto di
Geppetto?- Le ragazze ricordano il cartone di Disney.
Giulietta sorride e le fa
avvicinare alla porta-finestra del salone, un canto melodioso parla di un
cappello da guardare e ammirare, fatto da una certa Susanna.
Le tre amiche ascoltano e
poi quasi all’unisono esclamano:
-Ma che cos’è?-
-Un’opera di Mozart,
racconta di un matrimonio, ma voi, lo so, apprezzate altra musica, siete venute
per ballare.-
Era proprio così, in
piazza, sul far del tramonto iniziava il concerto e le ragazze si sarebbero
scatenate .
Giulietta si fa prendere
dai ricordi. Amava andare a ballare, ma ora,
con il passare degli anni, si era appesantita, si sentiva un cassettone
e in mezzo alla piazza non ci si vedeva… ma era proprio vero?Qualcosa si
stava risvegliando in lei.
Un attimo di silenzio, il
fragore degli strumenti invade il giardino e supera la melodia del duetto
mozartiano. Le ragazze, calamitate dai suoni, salutano gioiosamente Giulietta e
si avviano verso la piazza.
Qui tanti ragazzi già si
stanno muovendo a ritmo della musica.
Nessuno si è accorto che
il cielo sta diventando scuro… improvvisamente larghe e pesanti gocce cadono
qua e là bagnando persone e cose: odore di polvere… fuggi fuggi
generale…
Fiorenza, Laura e Ginevra
si scambiano uno sguardo complice e corrono verso la casa di Giulietta. Il
portone è accostato. Entrano rumorosamente. Fatti pochi passi si arrestano,
qualcosa di strano sta accadendo.
Nella casa non
riecheggiano le armonie di Mozart, ma il ritmo scatenato dei Pink Floyd e
Giulietta a piedi nudi si dimena come una teen-ager nella sala da ballo.
Mary Jo era eccitata mentre si stava guardando allo specchio.
Sensazione nuova per lei che non era abituata a quelle situazioni.Con Jumpy Jim quella sera sarebbe andata al Blue Night. Da un po’ si vedeva poco in tiro e decise di darsi una gonfiatina prima di uscire.
Sentì un grande sferraglio là fuori e immaginò che Jumpy fosse arrivato. Era a bordo di un bolide con 6 ruote tanto alto che le fu difficile salirvi con le sue gambette. Dovette darsi un po’ di slancio e dopo un salto o due riuscì a prender la mira e ad atterrare sul sedile del passeggero.
Rimase abbagliata dal luccichio accecante che emanava Jumpy. Lui sì che era in tiro. Alto, snodato, lineamenti decisi e scolpiti nel metallo.
Uno splendore di ragazzo: ops di robot, si disse Mary Jo. Diverso da quelli teneri come il burro e soffici come un bombolone ripieno di gomma piuma in mezzo ai quali era stata.
Mary e Jumpy erano figli di una strana epoca in cui, dopo la grande glaciazione, i pochi umani rimasti non riuscivano più a comunicare fra loro parlandosi direttamente e avevano perso man mano anche l’abitudine a sfiorarsi, toccarsi, abbracciarsi. I sentimenti man mano si erano inariditi, i cuori non battevano più per amore e i rapporti fra maschi e femmine si erano fatti più impersonali.
Mary e Jumpy non avevano una mamma e un papà, nascevano assemblati da una catena di montaggio. Per bambole gonfiabili, lei, per robot lui.
Mary era programmata su ruoli precisi, quelli che alcuni uomini avevano sempre attribuito alle femmine. Oggetti di piacere, senza sentimentalismi. Così per fare, quando si pensava di aver voglia e senza complicazioni.
Almeno Jumpy Jim era stato programmato anche per altro. Lavare le macchine, tener pulito e curare un giardino, tuttofare per la casa. Sapeva riparare di tutto e cucinava pure, visto che una delle sue schede conteneva tutte le puntate dei Menù di Benedetta, prelibatezze comprese.
Una sera Mary Jo e Jumpy Jim si ritrovarono sullo stesso furgone, direzione non si sa dove.
Fraternizzarono subito e si misero a fare conversazione .
La voce di Mary era dolce e vellutata. Non poteva essere altrimenti
nascendo dalla massa gommosa e morbidissima da cui era composta.
Quella di Jumpy era tagliente come il metallo che lo avvolgeva tutto. Parlava a scatti perché, per un piccolo difetto di fabbricazione, ogni tanto i circuiti della parola si bloccavano.
Si scoprirono diversissimi e fu una bella scoperta dopo la monotonia del magazzino nel quale erano stati stipati in mezzo a migliaia di cloni di se stessi. Si piacquero, senza sapere perché.
Il furgone li depositò in via delle Camelie. Mary a casa di un grasso e
brutto individuo di nome Red Light che abitava con una madre anziana e
ossessiva.
Jumpy Jim, nella casa vicina, che apparteneva alla famiglia Goblin.
Mary Jo era triste per le cose che la costringeva a fare il signor coso. Aveva sperato che l’avessero scelta per la sua scheda di pregiatissima e fidatissima governante per vecchie signore in difficoltà e invece si ritrovò a dover svolgere il compito al quale teneva di meno. Quello di bambola squillo con big data derivanti da testi sconci e pornografia di basso livello per uomini con turbe sessuali al limite del maniaco e così avari di sentimenti da esser rinsecchiti fino all’impotenza.
A Jumpy le cose andavano meglio. Aveva tanto da fare per rassettare la casa e tenere in ordine il giardino e la piscina. La padrona di casa spesso era fuori per lavoro, quindi le sue prestazioni aggiuntive di robot oggetto si limitavano a una, due volte al mese. Spesso doveva dedicarsi ai bambini, cosa che lo faceva divertire molto.
Si tenevano aggiornati l’una dell’altro quando capitava che si trovassero in giardino. Jumpy vedeva che Mary era triste e ogni giorno più sciupata. Quelle belle curve che aveva notato sul furgone stavano diventando flosce, il colore tendeva allo sbiadito e al palliduccio. Doveva far qualcosa.
Per questo l’aveva invitata al Blue Night. Voleva strapparla dalle grinfie di quel panzone almeno per una sera. Si sentì felice quando la vide salire sul suo bolide: si era truccata ed era allegra.
Praticando gli umani, man mano, avevano imparato e ridere e a piangere, a provare paura e ansia, rabbia e rancore e a avere qualche vaga idea di cosa volessero dire felicità e infelicità.
Sedendo accanto e guardandosi Mary Jo e Jumpy Jim tornarono col pensiero a quel viaggio durante il quale si erano trovati vicini per la prima volta. Si scoprirono diversissimi, ma l’attrazione fra loro era ancora forte come quel primo giorno. Mary quasi cinguettava, mentre Jumpy ogni tanto faceva scintille e qualche sfrigolio per colpa di alcuni fusibili eccessivamente sotto pressione. Si rifugiarono in un posto tranquillo per stare un po’ da soli. Si amarono appassionatamente cercando ispirazione in quelle immagini in bianco e nero che talora vedevano passare in quella scatola rettangolare che i loro padroni chiamavano televisione.
Mary, che di solito era fredda e distaccata e rispondeva solo a comando si sentì coinvolta da questo ragazzone strano con la sua andatura e i suoi gesti un po’ a scatti. Aveva lunghe dita snodate che quando la afferravano alla vita le davano brividi di piacere e le facevano dimenticare il panzone, quella grande arpia di sua mamma e l’armadio pulcioso dove la riponevano la mattina dopo l’uso notturno. Jumpy non aveva idea che un corpo potesse essere così morbido, vellutato, soffice, tenero e accogliente come quello di Mary.
Non voleva più lasciarla.Tanto meno voleva rimetterla nelle mani di quel rozzo e trasandato uomo con quei pantaloni zozzi, quella canottiera tutta grigia, macchiata di sugo e scucita e in balia di quella vecchia cattiva e sdentata che non aveva un briciolo di sentimenti per nessuno.
Convinse la signora Goblin che si sentiva solo e che aveva bisogno di una
compagna. Le disse che lì accanto viveva Mary Jo per la quale aveva cominciato
a provare sensazioni che non aveva mai provato prima.
Lo aveva aiutato quel periodo di frequentazione con gli umani e la vita che scorreva in famiglia. Per qualche motivo il programmatore che aveva lavorato su di lui e Mary aveva deciso di inserire, insieme alle altre, una scheda dei sentimenti e quella piano piano aveva iniziato a funzionare .
Lasciare Mary prigioniera di quella famiglia rozza, grezza e arida di sentimenti lo faceva soffrire. Voleva sposarla. Sarebbe stata una brava collaboratrice per la famiglia, visto che era stata programmata anche come governante e educatrice per i bambini.
La signora Goblin si convinse presto, tanto più che nelle sue lunghe assenze era costretta ad affidarsi a governanti per i bambini con cui non sempre si era trovata bene. Avere Mary in casa insieme a Jumpy, pensò, avrebbe risolto molti problemi.
Si sentì un po’ impacciata e fuori luogo quando suonò alla porta dei vicini
per chiedere la mano di Mary per conto di Jumpy.
Con grande sorpresa di tutti il signor Red Light non oppose alcun rifiuto, anzi fece in modo che la sera stessa Mary si trasferisse dai Goblin.
Non fu perché si era intenerito pensando ai sentimenti che erano in gioco.
Si era semplicemente stancato di Mary e dei suoi giochetti e aveva ordinato una
sua sostituta programmata per cose molto più hard e senza i freni inibitori che
ogni tanto si attivavano nei circuiti di Mary.
Mary e Jumpy si sposarono di lì a una settimana.
Lei aveva rimesso a posto tutte le sue curve e le sue rotondità. Lui era passato da un meccanico per farsi oliare bene le giunture. Aveva fatto anche un passo al laboratorio per vedere se si poteva far qualcosa per correggere quel suo parlare a scatti, ma non ci fu verso. Il circuito era malfatto e non si poteva riparare senza compromettere il resto.
Il suo “Si, lovoglio!” Fu detto con una lunga pausa in mezzo, ma Mary non se ne preoccupò perché conosceva quel difetto, e attese anche il resto senza patemi.
Era raggiante. Labbra a cuore su cui la signora Goblin aveva messo un bel rossetto scarlatto. Aveva scelto un abitino semplice ma elegante che le copriva le gambette che la costringevano a procedere a saltelli come una ballerina classica e accentuavano la flessuosità delle sue forme procaci.
Fu bellissima la prima notte. Mary non dovette attingere alla sua scheda hot e poté finalmente essere se stessa dandosi con passione a Jumpy e perdendosi fra le sue mani e braccia d’acciaio.
Rimase stupita per ciò che il programmatore birichino si era inventato per le parti più segrete del suo Jumpy e che furono una piacevole scoperta dopo il flaccidume privo di vita del signor Red Light, probabilmente castrato da quella madre possessiva e priva di cuore.
La targhetta che rimandava al modello ispiratore recava la scritta “ Rocco Siffredi”. Un nome che a Mary non diceva nulla e tuttavia lei si scoprì ogni volta a ringraziarlo senza farsi sentire da Jumpy che in fondo era solo un clone ben fatto, per non offendere il suo amor proprio di robot maschio possente.
Andarono a vivere vicino al garage dei Goblin in una dependance costruita apposta per loro. Avevano tutto ciò che serviva. La privacy, l’olio per le giunture di Jumpy, gli attrezzi per le piccole riparazioni, la pompa a pressione per riempire le forme rotondeggianti di Mary ogni volta che perdevano smalto.
Le canticchiava felice, lui la guardava rapito e un po’ a scatti le parlava d’amore e di sentimenti. Per fortuna, diceva, i programmatori non erano stati insensibili e si erano inventati il modo di far emergere con il tempo anche in loro sensazioni e sentimenti.
Quell’ammasso di metallo e quella tonda e soffice bambolina, per quanto strani fossero a vedersi, riuscirono a vivere insieme felici per molti anni.
Almeno fino a che, in mezzo alle giunture di Jumpy, la ruggine prese il sopravvento e nessun tipo di olio fu in grado di lubrificarle. Si bloccò pian piano e un brutto giorno Mary lo trovò immoto e inerte.
Lo seppellirono in giardino. Mary volle piantare sulla sua tomba un letto di rose rosse, ricordo dei loro giorni appassionati. Si scoprì devastata da un dolore profondo. Non resse che poco tempo senza il suo Jumpy.
Si lasciò morire un giorno di estate lanciandosi in mezzo alle rose. Mentre sentiva le spine che bucavano senza pietà il suo involucro di bambola gonfiabile e sibili dell’aria che usciva pian piano, riuscì ad aspirare per un ultima volta il profumo intenso delle rose che le riportava un po’ anche del profumo del suo amato Jumpy.
La trovarono la mattina dopo piatta, prosciugata e priva di forme stesa sulla tomba a braccia allargate, quasi a volerlo stringere tutto in un ultimo, tenero e appassionato abbraccio.