Una piccola piantina, dall’aspetto insignificante, ci fu
regalata diversi anni fa. Ricordo vagamente che il dono fu accompagnato da
parole che ne esaltavano delle proprietà che allora ritenni generiche e degne
di scarsa importanza. La piantina fu messa in un vaso con del terriccio, non
richiedeva particolari cure, tra giugno e luglio faceva dei fiori di un rosa
pallido non particolarmente attraenti, con i primi freddi perdeva tutte le
foglie, scompariva del tutto in inverno per tornare viva e vegeta in primavera.
Tutti gli anni così; è rimasta nel suo vaso quasi dimenticata. Quando
frequentavo la banda musicale di Impruneta conobbi il dottor Sergio Balatri,
che se non sbaglio suonava il trombone. La sera di un mercoledì, sera di prove,
mentre aspettavamo gli altri suonatori il dottor Balatri, e qui il ricordo si
fa nebuloso, prese a parlare dell’erba della Madonna. Dalla descrizione fatta
riconobbi quella piantina che da anni faceva vita solitaria in mezzo a altri
vasi di fiori. Il dottor Sergio Balatri, medico in pensione, per più di
trent’anni era stato aiuto chirurgo al pronto soccorso di San Giovanni di Dio.
Negli anni settanta del secolo scorso i pronto soccorso a Firenze erano due:
Santa Maria Nuova e San Giovanni di Dio. Un calzolaio si era ferito al pollice
della mano sinistra con la lesina. Una brutta ferita che lo vide costretto a
rivolgersi all’ospedale di Santa Maria Nuova. I sanitari nel prescrivere
antibiotici fecero presente al ciabattino che se la cura non si dimostrava efficace
si vedevano costretti a amputare la falange. Il pover’uomo, dopo alcuni giorni
di trattamento vedendo che la ferita non migliorava, prima di sottoporsi
all’intervento volle sentire il parere di un altro ospedale. Si recò al pronto
soccorso di San Giovanni di Dio. Quel giorno medico di guardia era il dottor
Balatri. Ascoltato il paziente e ritenendo giusto ciò che avevano fatto i
colleghi fu colpito dalla disperazione dell’artigiano; per lui l’amputazione
della falange del pollice voleva dire compromettere il proseguimento della sua
attività. A quel punto il dottore si ricordò che da piccolo era stato
tormentato da un giradito e la mamma lo aveva curato con l’erba della Madonna.
Suggerì al calzolaio di fare un estremo tentativo applicando sulla ferita tutti
i giorni una foglia, liberata della pellicola della faccia inferiore, di questa
piantina grassa. L’effetto fu prodigioso: dopo dieci giorni la ferita era
completamente rimarginata. Come al dottor Balatri fosse venuto in mente di
ricorrere a questa terapia alternativa credo che a tutt’oggi se lo stia ancora
chiedendo. Di certo come medico volle andare a fondo della faccenda. Da quel
giorno si aprì un nuovo campo di ricerca su l’erba della Madonna, nome
scientifico Sedum Telephium, furono coinvolti esperti in farmacologia,
l’erba della Madonna e le sue proprietà divennero argomento di tesi di laurea,
nel nuovo ospedale di San Giovanni di Dio un’area verde fu destinata alla
coltivazione di questo miracoloso vegetale. Da allora anche la piantina nel
giardino gode di premurosa attenzione.
Un mercoledì tra le erbe con Tina Conti e con Mirella Calvelli, Gabriella Crisafulli, Emma Rotini e …..molto pubblico.
La magia non è solo delle streghe
gli acquarelli di Tina
gli acquarelli di Tina
le erbe di Tina
L’acqua
di San Giovanni – di Tina Conti
Mi sono preparata in tempo, ho invitato amici e
familiari ad una cena per la festa del patrono di Firenze, San Giovanni, con
il “rito dell’acquetta”, dando
indicazioni vaghe e accattivanti sui poteri di questa pozione magica
tradizionale che avrei loro offerto.
Ho scelto il catino di terracotta, cercato nei
campi le varie erbe e fiori, letto storie e ricette per compiere un rito così
delizioso.
Tutto era pronto ero consapevole e decisa ,avevo
coinvolto le bambine di casa nella ricerca dei fiori e progettato in
grande .
Tutto era sistemato su un tavolo in giardino
pronto per essere disposto.
La sera fatidica, però, sono uscita con mio
marito a passeggio per la città in giro con glli amici, poi il gelato e
le chiacchiere, insomma abbiamo tirato tardi.
A casa stanca morta, mi sono infilata
velocemente nel letto.
Ho fatto un balzo quando ad un tratto mi è
venuto in mente il rituale che mi ero proposta di fare. Che figura
avrei fatto con gli invitati il giorno dopo per sperimentare l’acqua
miracolosa?
Sono uscita in giardino precipitosamente. Era
buio pesto, mi ha risvegliata la brezza e il fresco della notte.
Ho osservato un cielo incantato, luminoso,
magico.
il vento di tramontana aveva spazzato
impurità e nuvole, non vi posso descrivere la luna, mi è sembrata gioiosa,
grande e di una luminosità sconosciuta.
Ho aggiunto ai fiori già pronti le ultime
corolle di rosa, strappate dalle piante più vicine prese a tentoni,
le foglie di menta e melissa profumatissime, ho.aggiunto acqua di
pozzo fresca e dissetante e infine è fondamentale l’erba delle streghe:
l’iperico.
Sentivo alzarsi gli aromi e
,inondare la notte di un profumo inaspettato, ho immerso le mani e
accomodato le erbe, la magia aveva inizio i miei sensi si stavano
risvegliando, mi sentivo avvolta in una cosa misteriosa, nonostante il sonno
avrei voluto non finisse mai.
La luna, la rugiada della notte avrebbero
compiuto la loro parte.
Al mattino ci saremmo potuti lavare con questa
acqua magica, capace di scacciare il malocchio, la malasorte, preservare dalle
malattie, rendere la pelle morbida e purificata.
Tutti sono venuti, da otto invitati siamo
diventati sedici, tutti avevano un cruccio o un malanno da sanare, chi un
esame da superare, chi un desiderio nascosto da raccomandare.
La cena è stata leggera e animata, sono stati
aggiunti posti a tavola e sedie per tutti.
Per gli assenti sono stati riempiti
barattoli del preparato che si poteva con riservatezza usare in un angolo
tranquillo e appositamente attrezzato.
La magia si è avverata, quella della vita,
dell’amore di stare insieme, ascoltarsi, condividere, vivere insieme.
Grazie San Giovanni! Al prossimo!
La mamma della “Maga delle erbe” – di Mirella Calvelli
Fedora era il suo nome, un nome dolce, come quello del dolce
che rappresenta.
Un morbido pan di spagna, leggermente bagnato, un ripieno
pannoso ammantato da una fragilissima sfoglia al cioccolato.
Stesse caratteristiche, che le calzavano a pennello: era
morbida, dolce, tenerissima e fragile.
Ma aveva un dono, conosceva il nome di tante erbe e sapeva
trattarle per il suo diletto o per la cucina.
Il padre, il nonno Beppe, lavorava la terra e anche lui
conosceva migliaia di fili d’erba e piccole piantine, che raccoglieva e
coltivava, là!!… sopra al cimitero, lungo il Borro (l’Isone), dove aveva il
suo piccolo orto e dove si rifugiava per gran parte della giornata.
Aveva una gobba prominente, cresciuta negli anni di lavoro,
gobba che gli causava scherni e risa.
Ma lui, imperterrito, silenzioso, costretto al suo sguardo
sempre rivolto a terra.
Alla stessa terra che amabilmente curava.
Chissà che sforzo per guardare il cielo!!
Fedora, sua figlia gli assomigliava, non per quell’infelice
protuberanza sulla schiena, ma per la sua riservatezza e capacità manuali
particolari.
Era la terza di tre figli, nata settimina, avuta in età
grande per l’epoca.
Così quando il nonno Beppe se n’è andato lei era ancora molto
giovane.
Il nonno si curava con le erbe che gli hanno permesso,
nonostante la vita dura, di vivere fino a 84 anni senza mai incontrare ospedali
o medici, questo era per lui un gran vanto.
Con la sua andatura stanca e curva erudiva Fedora sulle sue
conoscenze, o almeno così abbiamo sempre pensato.
Essendo settimina, poteva praticare “ l’incantesimo dei
bachi”.
Credo che anche io e mio fratello inconsapevoli ne abbiamo
beneficiato e con noi altri bambini del villaggio.
Quando venivano a bussare per tale esercizio, Fedora si
lavava le mani con dell’olio e sorridendo accoglieva sulle ginocchia il
“malato”.
Gli scopriva il pancino e praticando dei segni incrociati su
l’ombellico, iniziava il suo mantra.
Confesso che non ricordo le parole precise, non me lo ha mai
detto e quando ero in condizione di capirle ho ricordi sporadici e frammenti
che invocano “Gesù, Giuseppe e Maria”.
In seguito ho appreso l’importanza di tale problema, molto
diffuso all’epoca. Ma non è mai stato importante conoscere la parte medica
reale e le probabilità di riuscita o meno dell “esercizio”.
So solo che dava sollievo e a tale pratica non era mai
richiesto un compenso, ma solo l’apposizione di una candela alla Madonna.
Molti anni dopo, quando se n’é andata ho trovato un piccolo
libercolo nero, con le pagine riempite da piccoli segni, probabili candele
offerte. Senza nessun nome o richiamo, solo palucci incerti, segnati con matite
e penne di colori diversi. Ingiallite dal tempo.
Per un attimo ho avuto un flash e dato un’identità a quei
poveri segni e ho visto centinaia di piccoli volti.
Ripeto, non era molto entrante, ma accogliente di sicuro. Le
sue mani grandissime che per anni hanno sfiorato stoffe pregiate ed elaborato
modelli esclusivi con la stessa leggerezza hanno accarezzato i pancini di molti
piccoli concittadini.
Le stesse mani le ha ereditate mio figlio Riccardo, e spero che anche le sue possano accarezzare il mondo e il bello, come per sua nonna.
Lavare e levare la paura – di Ivana Acciaioli
Sono cresciuta in tempi in cui
con l’olio e con parole e gesti sacri e profani si curavano i vermi o si
toglieva il malocchio, responsabile di danni e malanni, o si lavava la paura
con l’acqua fatta con un’erba
che cresce spontaneamente, chiamata volgarmente “erba della paura“, con
la quale si credeva di eliminare tutte
quelle sensazioni di agitazione ed ansia, caratteristiche dopo piccoli o grandi
shock.
La mamma faceva bollire in acqua l’erba con un rametto di foglie
di ulivo, un pizzicotto di sale e un pezzetto di pane; il liquido ottenuto, previo intiepidimento,
serviva a farsi “lavare” la paura. Il lavaggio doveva sempre essere
fatto da una persona e con la stessa mano.
Si procedeva con l’immersione della mano
nell’acqua e si detergeva il viso, il collo davanti e gli orecchi, le braccia comprese
le mani sia dorsi che palmi, le gambe
dalla coscia ai piedi compreso il sottopiede, il tutto ripetuto
complessivamente per tre volte. Mentre
faceva questa operazione la mamma pronunciava queste parole
biascicandole in modo per me incomprensibile
Col nome di Gesù
di Maria
e di tutti i santi
la paura la vada via
e non venga avanti Col nome di Gesù
e di San Pietro la paura
non ritorni indietro
Col nome della Santissima Trinità
vada via senza mai più ritornà
Le abluzioni si ripetevano per tre giorni successivi che non fossero il martedì ed il venerdì, quindi i giorni giusti erano il sabato, la domenica ed il lunedì , cioè i giorni senza la” erre”. Se il liquido assumeva di norma un aspetto “borraccinoso”, come l’acqua di un fiume inquinato allora la “paura c’era”. Diminuiva al secondo lavaggio fino a scomparire con il terzo. Se non era la paura a creare lo stato d ‘alterazione nella persona, allora l’acqua rimaneva limpida fin dal primo lavaggio e allora si doveva trovare altra origine del malessere.
UVA E….BERNOCCOLI – di Ivana Acciaioli
Di fronte a un bel cesto d’uva appena raccolta affiorano i ricordi
di quando, da bambina, durante i giochi nell’aia, sentivo raggiungermi l’odore
della torta d’uva all’anice di mia nonna. Lei custodiva gelosamente la ricetta
ma non disdegnava offrirne delle belle fette a chiunque, un po’ per vanità ma
anche per la sua innata generosità.
Negli ultimi pomeriggi di sole autunnale i giochi si facevano più inquieti,
forse per la consapevolezza che da lì a poco il freddo sarebbe giunto,
costringendoci molte ore in casa, così i piccoli incidenti erano più frequenti
e le testate, con improvvisa comparsa del bernoccolo, ricorrenti. Il gruppo
accompagnava il malcapitato in casa, dove il consueto rimedio spartano e buffo
era atteso da tutti , la procedura consisteva nell’adagiare su un pezzo di
carta gialla , tolta da un incarto del macellaio o del droghiere, un po’ di
lardo e appoggiare il medicamento sul bernoccolo dove, come per magia, si
appiccicava. Il piccolo infortunato tornava ai giochi con quel vistoso
francobollo sulla fronte, ma nessuno osava prenderlo in giro perché ognuno
poteva ricevere, in simile circostanza, lo stesso trattamento. La piccola banda
di soccorritori riceveva magari una bella fetta di torta e se era quella di mia
nonna tutti si leccavano i baffi.
Quando la carta gialla cadeva potevi considerarti fuori pericolo
Le vele di San Pietro – di Mirella Calvelli
Me lo ha raccontato di recente un’amica che ha un grosso
vivaio di piante per la coltivazione dell’orto.
Avendo visto appoggiato al vecchio olivo un bel vaso che
aveva perduto gran parte della sua impagliatura, chiesi a Consuelo se potevo
prenderlo.
Lei voltandosi gridò: No, no…quello no è per le vele di San Pietro!!!
Ovviamente la mia attenzione si catalizzò più su il significato di quella espressione che per il vaso.
Consuelo, mentre legava con grande maestria i mazzetti del
basilico, iniziò a raccontare.
I suoi nonni erano del Nord, credo Lombardi e questa
tradizione era molto in uso, sopratutto nella zona del Lago di Garda.
La notte fra il 28 e il 29 giugno, giorno della festa di San
Pietro e Paolo (fra l’altro patrono anche del nostro comune), viene riempito un
vaso con acqua, preferibilmente di fonte, nella quale viene fatto scivolare
l’albume di un uovo.
Tale vaso, va deposto sotto un albero (l’olivo appunto) e
lasciato lì tutta la notte.
Al mattino, il miracolo!! l’albume ha creato dei filamenti,
simili all’albero di una barca. Infatti San Pietro era un pescatore, e tali
filamenti possono anche estendersi in vere e proprie vele.
L’incantesimo, poi si interrompe verso mezzogiorno, quando il
caldo incombe e scioglie il prodigio.
Il significato di tale alchimia, mi spiegava Consuelo, era la
richiesta al Santo di prevedere eventuali piogge utilissime per il raccolto.
Quindi più alti erano gli alberi e grandi le vele, tali anche
da formare un particolarissimo veliero fantasma, più probabile era l’acqua che
avrebbe irrorato i campi.
In seguito mi sono informata e tale rituale è bene iscritto in manoscritti benedettini del medio evo , che spiegano con cura tale prodigio, aggiungendo alla semplice pratica diretta, interventi del diavolo in persona, che in quella notte appare scatenando spesso anche bufere.
Quindi in luoghi di mare e sopratutto di laghi, si sconsiglia l’uscita con le barche per evitare le eventuali tempeste e sciagure che avrebbero colpito le vittime di pescatori.
Consuelo, dice di non crederci, ma continua a preparare quel vaso, come i suoi nonni e dice che dalla lettura delle vele prevede comunque l’andamento meteorologico dei giorni successivi all’evento.
ETEROCLITO –di Ivana Acciaioli, Gabriella Crisafulli, Carla Faggi
ALESSIO
Affacciato alla finestra della sua camera, di quella casa non propriamente sua, in quella famiglia che spesso sentiva
estranea, Alessio si trovava nella strana
pelle di adolescente non
ancora pronto per la muta.
La tranquilla operosa città di provincia poteva essere un luogo perfetto dove
crescere, sarebbe bastato avere le idee chiare su come voler essere e
diventare.
Era cresciuto in una famiglia dalle idee aperte, atea e di sinistra.
Lui però esprimeva idee diverse, non
sopportava il buonismo dei suoi genitori, l’accettazione incondizionata di tutte le diversità, e considerava la loro ideologia un po’ retrò.
Si poteva pensare che fosse nato in una famiglia sbagliata, vincolato ad un
ruolo che forse non rispecchiava la sua
essenza.
Dietro lo sguardo riflessivo appariva
talvolta una certa insolenza.
Non era il colore dei suoi occhi
normalmente castani, né il taglio a renderli particolari, ma il modo con
cui guardava, da sotto in su, con una profondità come a voler giudicare che
spesso creava imbarazzo.
Il soffio di aria tiepida del pomeriggio conduceva le voci e i lazzi rumorosi di alcuni suoi inoperosi
amici ; quanto gli piaceva il loro bighellonare mentre lui era costretto a
quella scrivania, dalla quale, nell’aria muta, osavano sfidarlo i libri di
scuola.
Avrebbe dovuto amarli, considerarli una ricchezza, o almeno provare un certo
rispetto, invece non riusciva a capire se veramente gli appartenessero o
fossero arrivati lì, condotti da mani decise alla sua condanna: studiare,
diventare colto, raggiungere una professione.
Il soprannome bulldozer guadagnato alla scuola media dava l’idea della sua
forza e determinatezza eppure ogni cosa della sua vita gli appariva come un
negativo, senza capire se la realtà fosse il bianco o il nero.
Avrebbe voluto uscire dagli schemi, scandalizzare, andare a scuola senza aver
fatto i compiti, arrivare in ritardo, andare al bagno sbattendo la porta senza
aspettare il permesso, rientrare a casa fuori dell’orario stabilito… e allora…se voleva contestare le regole come
spiegarsi perché in quella partita di
calcio dal risultato chiaramente combinato, aveva attaccato a testa bassa
facendo goal non ammessi, spronando i compagni a non accettare la finzione
messa in campo, e quei sordi colpi inferti al pallone con rabbia erano stati
una lezione di onestà per i dirigenti e
per l’allenatore che nello spogliatoio avevano abbassato lo sguardo.
Nel profondo avrebbe desiderato
essere più trasgressivo, ma l’educazione ricevuta lo vincolava e chissà se mai
se ne sarebbe liberato.
Sognava senza essere sognatore, in attesa di qualcosa che accadesse in lui o
fuori di lui, e intanto si vestiva talvolta da provocatore talvolta da solido
ormeggio.
Non aveva combinato niente quel pomeriggio, ormai era tardi anche per uscire,
ma in quell’ultimo sguardo rivolto alla strada era apparsa Sara, una ragazzina
della terza B, che nascondeva la sua
figura dentro abiti troppo abbondanti. Non si erano mai parlati eppure sentiva
simpatia per lei, sempre silenziosa in
mezzo alle compagne ciarliere. Quella biondina apparentemente fragile faceva
emergere il suo istinto protettivo.
Poteva correre fuori con lo skate per raggiungerla. Ma cosa dirle?
Il linguaggio
verbale non era la sua preferenza comunicativa, quello del corpo sì, avrebbe potuto farla sorridere
con qualche numero dei suoi sullo skate o forse sarebbe apparso solo infantile,
meglio rinunciare.
SARA
Capelli
lunghi, lisci, con meches chiare illuminano il viso di Sara, marcato da due grandi sopracciglia scure,
disegnate ad ali di gabbiano sotto la fronte alta.
Di media
statura, con il corpo marcatamente mediterraneo a vita sottile, fianchi tondi e
seno prosperoso, spesso è in difficoltà
a trovare l’abbigliamento adatto perché da una parte risulta stretto e
dall’altra largo, come nel caso delle camicette che si sbottonano sul seno
mentre i pantaloni abbondano in vita.
Da adolescente si era infagottata in grandi maglioni o camicioni extralarge per nascondere un fisico che finalmente cominciava
a esibire con orgoglio.
Timida
e riservata spesso si sente frenata nell’esprimersi e le parole che le vengono
in bocca le restano dentro. Questo essere così riflessiva e prudente, talvolta
le impedisce di comunicare come vorrebbe.
Figlia di
genitori anziani, quando lei era nata i fratelli non l’avevano accolta con
entusiasmo. La tacita ostilità dei gemelli e la severità dei genitori,
l’avevano fatta sentire sola e incompresa in un nucleo familiare apparentemente
molto affettivo, questo le dava insicurezza.
I fratelli erano due fave in un sol guscio tutti presi da loro e fra loro; la
madre viveva proiettata alla realizzazione di un disegno in cui la sua immagine risultasse vincente; il
padre era un donnaiolo, a sua insaputa. Lei lo aveva visto con la sua bella
quando aveva diciassette anni.
L’intrusione provocata dalla sua nascita non era mai stata perdonata, lei ne
era colpevole.
Sara si
sentiva tradita da loro quattro così la sua vitalità la portava ad investire su
amici e conoscenti.
Fin da giovanissima trascorreva molto tempo fuori casa, in circoli, biblioteche, e parrocchie, dove aveva modo di incontrare
persone.
Talvolta si era scontrata col mondo circostante da cui pretendeva adesione ai
suoi ideali.
Il mancato supporto della famiglia non l’aveva accompagnata in una crescita
graduale; così alla grande solarità accompagnava un disincanto che le dava una
sfumatura di tristezza e le faceva corrugare la fronte.
PIERANTONIO
Il Dottor “Tuttamore” lo chiamano così, si guarda allo specchio ed è
soddisfatto.
Alto uno e ottanta, fisico asciutto,
capelli castani chiari tagliati all’ultima moda.
Sì! Si piace proprio!
I grandi occhi color nocciola incantano le femmine nel giusto modo, la bocca carnosa
un po’ imbronciata le conquista del tutto.
Si veste casual ma con accuratezza.
I suoi trentadue anni sono proprio ben
spesi.
Pensare che era stato un bambino difficile, nato ad Avellino da una famiglia benestante,
che si era trasferita, negli Stati Uniti nei dintorni di Los Angeles, quando Pierantonio aveva solo tre anni .
Era rientrato in Italia, esattamente a Firenze, a diciassette anni, appena
in tempo per studiare e laurearsi in Medicina.
Non si sentiva né americano né italiano. La sua identità non definita gli
creava disagio, parlava bene la lingua
italiana ma con forte
accento americano; questo
lo rendeva affascinante agli
occhi femminili, ma creava in lui
un forte senso di non appartenenza.
Sfuggiva ai rapporti seri con l’altro sesso e si limitava alla
soddisfazione della conquista.
Essere medico ospedaliero
con specializzazione in
ginecologia lo gratificava
abbastanza. La scoperta continua
del femminile gli creava soddisfazione e irrequietezza allo stesso tempo.
Nell’universo tenebroso ma
accogliente della natura della donna aveva incentrato tutte le sue paure ed
aspettative.
LE MADONNE NON SONO
BIONDE
La biblioteca scura e polverosa di Ponte a Niccheri, libri vecchi, vecchissimi, uno accanto
all’altro.
L’odore di polvere è la prima sensazione, la seconda è l’oscurità
eccessiva.
Non si vede l’ombra di un libro! Anzi,
solo ombre! Di ogni tipo, lunghe, corte, grassocce e deformi. C’è un silenzio
indefinito, scandito solo da un fruscio di
mani che le toccano, le sfogliano, una cantilena quasi assordante.
Ogni libro ha un suono che ogni mano che
lo sfiora trasforma.
Entrare in una biblioteca è come vivere dentro una bolla di sapone con in
sottofondo una melodia lieve.
Pierantonio non ama questa atmosfera ovattata, non la trova piacevole.
– Ehii, Dottor Antonio, che ci fai qui?- gorgheggia una voce femminile.
Lui sgrana i grandi occhi color nocciola. Si sveglia dal torpore del suo
stato d’animo polveroso ed ombroso e sorride alla ragazza che lo ha chiamato.
Il sorriso però gli rimane rapito sul volto, l’amica della ragazza seduta
accanto a lei è splendida!
È bellissima, pensa. I suoi capelli biondi risplendono nella luminosità
della sala.
I coloratissimi libri ben disposti
sugli scaffali attorno le fanno da cornice.
Sembra una Madonna! Anzi, no! Le
Madonne non sono bionde, sembraaa…una cortigiana del Re Sole!
– Stavo cercando un libro.- balbetta
ancora rapito.
– Vuoi che ti aiuti?- chiede la voce gorgheggiante.
– Beh, sai… qualcosa di
particolare, che mi possa aiutare a capire il mondo, il mio posto nel mondo…perché sono qui ora…perché appena
due ore fa ho aiutato una vita a nascere, e quella vita avrà
uno scopo più
alto della mia,
sicuramente perché non
siamo niente nei
confronti dell’Universo…e…- parla e guarda la splendida bionda.
Ogni fruscio diventa volo d’angelo.
Quella cantilena che prima gli sembrava così assordante diventa musica soave.
Quel sottofondo ovattato si trasforma in melodia.
Lei, Sara, è affascinata da quello splendido uomo.
– Che animo gentile- pensa- che uomo
sensibile e che profondità di pensiero!
UN VOLO SULLE LABBRA
Si era trovata
lì dentro senza rendersene conto.
Quando aprì gli occhi vide che tutto intorno a lei era
verde, luci, oggetti, figure e si domandò
dove fosse capitata. Pensò di essere caduta dentro ad una storia.
Le orecchie le fischiavano in un silenzio che sembrava sovrano se non fosse
stato per quei suoni, che si succedevano
a cadenza regolare.
La bocca era impastata e non riusciva ad emettere nemmeno il fiato.
I pensieri ondeggiavano in un flusso lattiginoso proiettando immagini in forma stenografica.
Correva dietro a loro inseguendoli, ma non riusciva ad acchiapparne nemmeno uno.
L’odore che le penetrava dentro era di Chupa Chups e per
un attimo pensò di averne uno che si
scioglieva in bocca, mentre le pareti ondeggiavano, cedevano su se stesse
convergendo in alto fra loro in una cupola di smeraldo.
Finalmente mise a fuoco figure nebulose che si muovevano intorno a lei a passi
felpati. Non riconosceva nessuno. Un ciuffo di capelli castani e due grandi
occhi nocciola. Un paio di spalle
muscolose. Il berretto di una divisa. Una ciocca di capelli bianchi. Cuffie
verdi e mascherine.
– Allora, com’è andata?
– La lasci stare, non è ancora in grado
di rispondere.
Ogni tanto, poi, spuntavano dal nulla due mani: la sfioravano, la maneggiavano mentre una
fitta penetrante le partiva dalla gola e le arrivava in mezzo alle gambe.
Perché quel dolore?
Provò a fermare lo sguardo sulle luci che si accendevano e spegnevano accanto, a ritmo regolare, emettendo un sibilo
prolungato. Le vedeva riflesse nella finestra davanti a lei. Era uno strano
semaforo a due colori che strideva tra una pausa e l’altra.
– Allora ci può dire com’è andata?- insisteva quello con il berretto nero.
E all’improvviso, sul vetro di fronte, il
rosso della luce divenne il rivolo di sangue che le scendeva caldo fra le gambe
mentre la sirena dell’autoambulanza le entrava nella testa, e il verde della
collina ricoperta di lecci e cipressi divenne il luogo dove era volata, in
alto, sempre più in alto, sbalzata dalla forcella della moto su cui era piombata
a gambe larghe. E ancora una volta perse conoscenza.
MISTERI
IN GINECOLOGIA
Alessio ormai era un giovane uomo: larghe spalle, pochi
timori.
Dava importanza alle cose essenziali. Forse era per il nome che gli avevano
dato che amava proteggere, e ci riusciva infondendo negli altri un senso di
fiducia.
Era freddo e calcolatore? Forse, ma l’immensa generosità nei confronti degli
altri esplodeva sempre in modo totale, facendo intuire la sua tenerezza.
Alessio e Sara si era incontrati in mezzo a un’assordante musica in discoteca ed
in un primo tempo non si erano riconosciuti; poi casualmente avevano frequentato lo stesso seminario
all’università e capitati vicini si erano scambiati sguardi , sorrisi ed infine
parole, scoprendo l’adolescente conoscenza.
Sara aveva notato che i suoi colori di ragazzo raccontavano qualcosa del bambino
biondissimo che era stato e dei capelli gialli che a lui in realtà non piacevano, forse per questo suo rifiuto piano
piano si erano fatti castani, poi era comparsa la barba rossiccia con riflessi
dorati come a ricordargli che non si può completamente dimenticare chi siamo e
da dove veniamo.
Il naso era il suo cruccio, leggermente
storto, con il setto deviato a causa di un incidente sul motorino dei suoi
quindici anni, mentre la cicatrice all’estremità del sopracciglio sinistro era
rimasta a memoria del piercing tanto
voluto e contestato in famiglia.
Alessio pensò che Sara aveva invece
conservato i suoi colori , ma si era fatta donna e il corpo di adolescente
aveva dato vita a nuove morbide armonie.
Quando si incontravano nell’ateneo non
mancavano di intrattenersi da buoni amici.
L’amore era chiuso in lui
come in uno scrigno ma la giovane
intuiva che trovata la chiave, avrebbe potuto con stupore liberarlo sperando
di lasciarsi avvolgere.
Lui però sembrava non volersi lasciar
andare a troppo sentimento, mentre le sue mani calde e coinvolgenti parlavano
un altro linguaggio e la ragazza lo aveva percepito.
L’incidente dell’amica con la sua conseguente degenza in ospedale
aveva reso giornalieri i loro
appuntamenti.
Alessio si recava in ginecologia, senza
fare domande per non turbare Sara , anche se non capiva cosa le avesse
provocato l’incidente da giustificare la sua permanenza in quel
reparto.
L’aveva vista soffrire, poi riprendersi e così avevano potuto godere delle rilassanti
passeggiate nel parco dell’ospedale. Immersi nella natura, tra gli scalpiccii dei loro passi e i fruscii delle fronde sopra le loro teste
erano aleggiate confidenze profonde.
Sentiva crescere nei suoi confronti un sentimento che aveva pensato scaturire
come sempre dal suo istinto protettivo; si sentiva confuso, forse si stava
innamorando o forse la situazione di sofferenza fisica, l’ospedale con le
lettighe cigolanti, i passi ovattati delle infermiere, i gemiti , i
sospiri delle donne, i loro racconti
sommessi lo avevano reso vulnerabile.
In camera della ragazza aveva spesso incrociato un ginecologo, Pierantonio,
questo il nome che aveva sfoderato insieme al suo sorriso, con il quale si era
intrattenuto a parlare gradevolmente. Non che lo temesse come rivale perché, nonostante
si pavoneggiasse, mostrava un leggero inizio di stempiatura ed un addome non
propriamente ad effetto tartaruga come
il suo; insomma era più giovane e si considerava più adatto all’attraente
convalescente.
Certo il fascino del dottore non era da sottovalutare.
CURARE O CURARSI
Pierantonio si incammina veloce nel corridoio del reparto, naturalmente
guardando il suo riflesso nello specchio di ogni vetro e non dimenticando le
sue ormai mitiche occhiate mielose alle giovani infermiere che apprezzano con
orgoglio.
Il pomeriggio ama trattenersi in reparto e dedicarsi allo studio dei casi
più impegnativi. Si concentra meglio
perché i suoni sono meno caotici del mattino.
Il chiacchierio delle infermiere è relegato nelle loro stanze dove c’è la
macchinetta del caffè. Il carrello dei
medicinali arriva sempre quando c’è il riposo pomeridiano e sembra voler farsi
sentire appena; quello del tè comporta voci e suoni in più ma sempre lievi,
come se il pomeriggio volesse compensare e assolvere il mattino.
Per questo Pierantonio in quel momento ama ancora di più il suo lavoro.
Sa che per curare occorre prima conoscere la paziente, comprenderne i disagi,
le preoccupazioni, curarne la mente oltre che il corpo. Per fare questo occorre
tempo e il pomeriggio questo tempo lo
trova.
Si reca spesso a visitare Sara, la biondina prosperosa della camera 22, che
aveva già conosciuto precedentemente in biblioteca, sia perché sa che la sua presenza la
rassicura, ma anche perché spesso trova in visita Alessio, un tranquillo
ragazzone con cui si trova stranamente a suo agio.
Non ha legato molto con i suoi coetanei maschi, i suoi amici d’infanzia e
adolescenza li ha lasciati tutti al di là dell’oceano.
A diciassette anni in un Paese nuovo anche se natio, è più facile conoscere
compagni di divertimenti che veri amici. Si era sempre sentito come in bilico sul
filo spinato, senza capire all’inizio l’ironia dei fiorentini e con la difficoltà
a sentirsi accolto; difficoltà che
naturalmente non aveva con l’universo femminile. Era ben accettato, anche troppo. Per questo si
era dedicato totalmente alle donne, anche in campo professionale.
Con Alessio aveva la sensazione di essere ben accolto. Questo lo turbava, perché era
abituato a essere rivale degli uomini
e a stare
sempre in guardia.
Desiderava abbracciarlo, ma non lo
faceva per paura di essere frainteso.
Erano sentimenti nuovi
a cui non
era abituato e
che lo distoglievano, almeno
momentaneamente, dal suo
femminile chiodo fisso.
Sapeva che era
un innocuo bisogno di amicizia, nulla di più.
Certo! Cosa poteva essere se non
quello? Lui, Pierantonio, le tombeur de
femmes di Ponte a Niccheri!
Solo un bisogno di amicizia. Niente di più.
Ma intanto la notte si girava e rigirava nel letto.
VOLERE
E NON VOLERE
Sara
è in piedi davanti alla grande finestra della sua stanza d’ospedale. Guarda il
paesaggio: il boschetto di lecci sulla collina di fronte, inframmezzato da
cipressi, tra i quali fanno capolino ora un capriolo, ora un cinghiale. Ascolta
il richiamo di una faraona nascosta chissà dove e quello di un fagiano che
mostra il suo splendore lungo il prato di confine.
Dopo tanto
tempo sente risorgere la vita che dà
segnali della sua presenza: il corpo le risponde quando si stiracchia al
mattino, quando cammina, quando si piega a raccogliere un libro caduto a terra,
quando abbraccia gli amici che la vengono a trovare. Le è tornata la voglia di
esserci, senza sentirsi preda di
interventi e riabilitazioni che si erano impossessati di lei.
Alessio, che la viene a trovare
regolarmente, e Pierantonio, con la sua presenza continua in reparto, la stanno
aiutando a tornare quella di prima. Con loro riesce a scherzare su quel che le è capitato e
sulla nuova” origine del mondo” che si ritrova fra le gambe. Stando
con loro fa di nuovo capolino in lei quel ruzzo rimasto sepolto troppo a lungo
sotto flebo, pasticche e dolori vari.
Le
hanno detto che la dimettono, non sta più nella pelle e fantastica sul suo
ritorno. Non sente nostalgia per il personale del reparto, per le compagne di
degenza che si sono alternate nella stanza.
A casa sua c’è
chi è andato ad aprire le finestre, a dare
una spazzata, a rifornire il frigo. Chiude gli occhi e vede i suoi amici
indaffarati dietro al ronzio dell’aspirapolvere, allo sciabordio della
lavatrice, allo sbattere delle persiane finalmente inondate dalla luce del
sole. Ha voglia di un Martini corroborato da un rinforzino di Gin e di starsene
seduta sul divano del suo soggiorno ad ascoltare musica.
Sogna di immergersi in tutti i rumori della casa, dalle fusa del frigorifero,
al ticchettio dell’orologio in cucina, dal tarlo che cigola dentro al quinto
scalino delle scale, al vento che si intrufola nella canna del camino
frusciando arie di volta in volta diverse.
IL
DUBBIO
La parte razionale
aveva sempre impedito ad Alessio di
farsi coinvolgere troppo o troppo a lungo nelle storie amorose.
Preferiva lasciare spazio ai progetti sulla vita futura e al desiderio di non
chiudersi nel mondo ristretto che temeva potesse imprigionarlo.
Nel frattempo aveva ricevuto un invito
ad uscire dal giovane ginecologo; la proposta lo aveva sorpreso e allo
stesso tempo incuriosito.
Il giorno seguente anche Sara lo aveva invitato a casa sua per festeggiare il ritorno dall’ospedale; fatalità stesso giorno e
stessa ora.
Che fare?
Seguire la sua curiosità o dare la precedenza a Sara?
INSOLITA MUSICA
E voilà! Il camice mi dona , è vero! Ma questo spezzato antracite e giallo,
con accessori azzurri non mi sta per niente male.
Un po’ azzardati i colori, è vero, ma in fondo io sono così “azzardato”,
“fuori dal comune” ma di “buon gusto”!
Ancora un’occhiata di controllo all’ultimissimo specchio disponibile e poi
via…a casa di Sara!
L’invito che aveva ricevuto ad andare a prendere un aperitivo da lei lo
aveva colto di sorpresa. Non che non se l’aspettasse viste le occhiate molto
allusive che lei gli distribuiva.
Ma proprio quel giorno non ci voleva, aveva infatti trovato il coraggio,
dopo averci pensato per giorni, di invitare Alessio ad un’uscita tra uomini.
Sarebbero andati un po’ in giro, magari in qualche localino, forse sarebbe nata
tra loro una bella storia di amicizia.
Pierantonio ci aveva
pensato un po’,
ci teneva proprio
a vedere Alessio,
ma poi…quel seno rigoglioso…quelle gambe…
– Mi spiace Alessio, un impegno improvviso, faremo per un’altra volta!
Ed ora da Sara!
Il trillo del campanello quasi stona nella tranquilla calma delle case
vicine. Nella strada solo il rumore di una bici.
Dalla casa di Sara un sottofondo musicale, la voce di Renato Zero.
“Il triangolo no, non l’avevo considerato..!”
La porta si apre, Sara è bellissima. Sexy da far paura.
“lui chi è..lui chi èèè..”
Ma…c’è anche Alessio! Che ci fa qui?
“ io volevo incontrarti da sola…mentre lui…lui chi èèè?”
Sono un po’ imbarazzato, ed ora? Alessio pure è imbarazzato. Sara
assolutamente no!
“mi aspettavo lo sai…un
rapporto un po’ più normale…”
Sempre un po’ imbarazzato mi metto comodo, anche Alessio si rilassa. Sara
si trova perfettamente a suo agio.
“ ti offrirò una serata strana…il pretesto lo sai: quattro dischi, un po’ di whisky”
Il whisky, i dischi, Alessio, Sara, c’è proprio tutto. Sì, sarà proprio una serata strana!
Un porto sicuro – di Franco Bellio, Mimma Caravaggi, Patrizia Casati, Nadia Peruzzi
I cinque anni trascorsi a Padova per frequentare l’Istituto d’Arte Modigliani hanno inciso profondamente nella formazione del carattere, dell’indole e soprattutto nelle aspettative di vita di Bruno. Quando si interroga non riesce mai a definirsi: si sente un montanaro di città, ma anche un cittadino tra le sue cime. Il fascino delle verdi vallate e la spettacolarità dei Monti Pallidi lo ammaliano sempre, ma si sente ugualmente attratto dalla vivacità delle piazze di Padova, dal chiasso gioioso degli studenti, dai classici ritrovi cittadini e dalle immancabili mete dei numerosi turisti, come la Cappella degli Scrovegni con gli affreschi di Giotto e la grande Basilica dalle cupole bizantine. Padova è sempre la sua seconda patria, simpaticamente ricordata come la città dei “tre senza” , ovvero del “Santo senza nome” perché il patrono Sant’Antonio è per tutti semplicemente “il Santo” senza bisogno di ulteriori specificazioni. Il secondo “senza è riferito al “prato senza erba” cioè la più grande piazza cittadina “il Prato della Valle” , il fulcro della vita sociale padovana, di impianto ellittico, circondata da un canale sul cui ciglio troneggia un doppio anello di statue raffiguranti i busti dei patavini illustri. Ma Padova è anche la città del “caffè senza porte” ovvero dello storico Caffè Pedrocchi, prestigioso punto d’incontro per intellettuali, accademici, uomini politici, che fino ad alcuni anni orsono restava aperto giorno e notte. Bruno infine rimpiange l’immancabile giro con gli amici e la frequentazione delle numerose, caratteristiche osterie per il rito dell’ombretta (classico calice di vino) o dei più aristocratici aperitivi. Ricorda sempre con nostalgia questo peregrinare tra i lcali che è anche l’occasione per un itinerario davvero alternativo nel cuore della città I ricordi di Bruno non si limitano però soltanto ad una carrellata di immagini, ma nella mente gli turbinano, come in un ritmato e suggestivo refrain, suoni rumori e grida di questa città creativa e dinamica che vive nella vivacità dei mercati e delle piazze affollate. Una sonorità a parte è quella che gli arriva dalla memoria degli innumerevoli bar frequentati, nel regno del frizzante Prosecco e dell’immancabile spriz. Ecco, lo assale allora la risonanza di un vortice di bottiglie stappate, un caleidoscopico scoppio simile a gustosi fuochi d’artificio!
Padova spumeggiante ,potremmo dire,come
spumeggiante è Maria Luna con le sue bizzarrie e i suoi colpi di testa. Elettrizzante,
intrigante e tuttavia pericolosa.
Maria Luna veste casual, con forti tendenze al bizzarro, le piacciono i colori forti, le sciarpe avvolgenti e braccialetti e orecchini pesanti e vistosi. Di sicuro pensa che piacciano anche a Bruno, quello che secondo lei è il “suo” uomo e che invece detesta anche solo il rumore dei suoi ninnoli. E’ una bella moretta, con un cesto dicap elli ricci molto lunghi con occhi verdi di uno smeraldo molto intenso. Si occupa di computer e contabilità in una Casa Famiglia molto rinomata a Padova che accoglie bambini disadattati, orfani, autistici e altro. E’ nata in India, da genitori italiani e averci vissuto fino a 16 anni l’ha sempre fatta sentire straniera in qualsiasi posto. Bruno è la sua sfida per mettere radici. Lui vive a due passi da lei in quella vecchia serra ottocentesca annessa alla casa principale, che con una sapiente opera di restauro e’ stata trasformata in uno spazio bellissimo e fuori dal comune. Un open space con tutto il necessario, ben disposto: salotto, tinello e cucina in un unico spazio più due camere, uno studio e due bagni, divisi da muri di
piastrelle di vetro spesso, quasi cubici ma che permettono sempre alla luce di penetrare indisturbata senza mostrare l’interno. Tutte le stanze ricevono luce piena e costante senza bisogno di luce artificiale se non , ovviamente, di sera. Lo spettacolo che può risultare da una serra è inimmaginabile poiché il cielo è il protagonista che incombe sopra il tetto di splendide vetrate trasparenti dando l’impressione di risiedere sopra una nuvola con il sole caldo che illumina di giorno e la sera in compagnia della luna e le miriadi di stelle che si possono ancora vedere non essendo in città. La cosa più bella è poter assistere ad un temporale. Un vero spettacolo. I lampi dei fulmini con i tuoni che li annunciano e il ticchettio intermittente della pioggia sulle vetrate del tetto, accompagna questo particolare spettacolo di suoni e luci. Bruno è molto affezionato alla sua serra. Quando rientra dai viaggi ed entra in questo ambiente bello, particolarmente spazioso con una luce immensa che si incrocia con il sole e il verde delle piante tutte intorno, con il profumo dei fiori come le immancabili rose di ogni specie e varietà così come le camelie di un rosa sfumato e rosso carminio. Ed è qui nella serra che una sera di pioggia un po’ malinconica ML e Bruno si sono amati. Si erano ritrovati, come spesso facevano, a fare una passeggiata nel parco seguiti dal canto degli uccelli e qualche sporadico e saltellante scoiattolo in cerca di cibo, Dopo la passeggiata si erano rintanati di corsa nella serra perché stavano arrivando le prime gocce di pioggia che li avrebbe accompagnati per gran parte della serata. L’abbraccio iniziale era arrivato senza quasi se ne accorgessero. Una serata indimenticabile per MariaLuna ma non altrettanto per Bruno che era abituato ad avere compagnie di donne diverse e che non aveva voglia di legarsi con nessuno. Maria Luna invece non faceva che pensare a lui e alla notte passata insieme sotto il ticchettio della pioggia e poi sotto un manto di stelle brillantissime. Cosi inizia a seguire Bruno in ogni dove. Prende a pedinarlo, camuffandosi in modo grottesco e umiliando l’intelligenza di donna gelosa e innamorata. Finché Bruno accetta un lavoro piuttosto impegnativo all’Abbazia di S.Benedetto Po.
Maria Luna e’ disperata. La casa-famiglia in quel periodo diventa la sua oasi di pace. Anche perché lì lavora Paul lo psicologo del centro. Un mare di calma e tranquillità cui far affidamento nei vortici della vita, ma non sufficiente a placare la tempesta della ragazza.
“ Non andare”
aveva detto Paul in uno dei suoi pomeriggi disperati in cui lei aveva cercato
nello sguardo magnetico di lui ciò che non sapeva raccogliere.
“ Non andare”, le aveva ripetuto fino all’ultimo momento sapendo bene, per come la conosceva, che sarebbe stato inutile trattenerla lontana da San Benedetto Po.
Infatti ci era arrivata in un giorno gelido, pieno di neve, senza aver ben chiaro cosa dire a Bruno.
Aveva attraversato la piazza quasi senza vederla, eppure era un immenso rettangolo che sembrava non aver fine. Dilagava oltre la linea segnata dall’ingresso monumentale alla chiesa.
Un punto di vista quasi scenografico, come una finestra sul mondo, l’altro mondo, quello che forse nemmeno c’era nel Mille attorno a quel complesso esageratamente fuori misura segnato dalla storia.
La piazza e l’abbazia lanciano ogni giorno il
loro messaggio ma Maria Luna non era in grado di coglierlo visto che stava
inseguendo una ossessione alla luce della quale ogni realtà è sfocata e in
sottofondo..
Sara invece, man mano, lo aveva compreso e ci si era affezionata. Dal suo punto di osservazione, la cassa del piccolo supermercato nel quale lavorava da qualche tempo, le risultava difficile decidere se era il monastero a far contorno al paese o il contrario. Ma era un dettaglio.
Si era sentita stretta in ogni luogo frequentato in precedenza. Lì invece, sentiva di aver trovato casa per la prima volta in vita sua.
Le piaceva sopratutto la mattina presto quando la piazza si ripopolava lentamente, dopo la sosta notturna.
Passanti frettolosi, sempre gli stessi, quasi alle stesse ore. Un gran via vai in cui al tic tac dei tacchi della signora Pina, l’edicolante, si sovrapponeva il rumore delle seracinesche dei negozi che si alzavano e le voci e le risa dei bambini che andavano a scuola.
Fu in una mattina di inverno, con la neve a spegnere i rumori e a coprir di pace antica tutto il paese ,che la sua attenzione fu attratta da un tizio che arrancava a fatica verso il negozio. Un tipo che non le era per nulla familiare e stonava pure un po’ in quel paesone di provincia.
Cappello a tesa larga, quasi felliniano, sciarpa bianca portata con eleganza, un lungo cappotto doppio petto decisamente demodé, malgrado fosse di buona fattura.
Entrò deciso, senza salutare. Aveva capelli brizzolati su un viso da ragazzo, occhi che ardevano di vitalità.
Sara rimase interdetta perché cosi’ da vicino, le sembrò di
averlo già visto.
L’uomo si mise a cercare negli scaffali. Non gli ci volle molto a tornare alla cassa con rasoio, schiuma da barba e un deodorante. Sbadatamente non li aveva messi in valigia, le disse.
Le chiese come si accedesse all’Abbazia visto che il
portone della chiesa era ancora sprangato. Era un restauratore d’arte, avrebbe
lavorato per un po’ di tempo a San Benedetto Po.
Mentre parlavano lo sguardo di lui da indifferente che era, si accese di interesse.
Qualcosa di remoto lo spinse a chiedere a Sara: “Ci siamo
già visti da qualche parte?”
Lei non seppe dir nulla, visto che le sembrava un approccio maldestro e banale di quelli alla così fan tutti e negò.
L’uomo continuava a star lì. C’era qualcosa che lo tratteneva e qualcosa di familiare in quella ragazza.
Il suo lavoro comportava studio e attenzione per i particolari, e questo lo aveva messo in grado di focalizzare anche i più minimi dettagli di una persona che suscitava il suo interesse. Un gesto, un’alzata di sopracciglio, un sorriso, uno sguardo. Ecco, gli venne in mente così.
Quello sguardo lo aveva già incrociato. Una sera di tanti anni prima. Aveva bighellonato per la città senza meta e senza saper cosa fare ed era finito come al solito al Caffé Pedrocchi.
Non c’era gran folla quella sera, pochi i tavoli occupati. Ad uno erano sedute due ragazze che parlottavano fitto fitto fra loro. Ogni tanto lo raggiungeva la voce cristallina di una delle due. La più alta, con una massa di capelli ricci dall’aspetto indomabile, un neo sullo zigomo destro così civettuolo e due occhi da perdercisi dentro.
Bruno aveva iniziato a guardare dalla loro parte. Per un attimo era stato un gioco di occhi negli occhi. Ci aveva scorto curiosità, interesse forse un accenno di promessa. Si era alzato per andare al tavolo delle ragazze proprio mentre stava entrando nel locale una rumorosa comitiva di turisti giapponesi che lo bloccarono.
Quando riuscì a farsi largo, vide le ragazze sgusciar via veloci. Gli passarono accanto quasi senza vederlo. Non ebbe nemmeno il tempo di lanciare un saluto qualsiasi. Nell’aria era rimasta solo una scia intrigante di profumo fresco e speziato e scampoli di un discorso che accennava a San Benedetto Po. Il fruscio dell’abito di seta che indossava la ragazza era rimasto a lungo nei suoi pensieri.
Eccola qui. Sulla targhetta il suo nome: Sara. Nessun dubbio
che fosse lei la ragazza del Pedrocchi.
Un po’ invecchiata, come lo era lui del resto.
La forte attrazione che aveva provato un tempo e per quell’attimo fuggente, tornò a farsi viva e quasi se ne stupì.
A quell’incontro casuale al supermercato ne seguirono altri, cercati, e altri ancora.
Era iniziata così la storia di Bruno e Sara. Quasi per una scommessa col caso e con le sorprese della vita e Maria Luna non aveva potuto far nulla per impedire che accadesse.
“Un ultimo chiarimento” si era detta in quella mattina di inverno e di neve, intabarrata come non mai, quando si era appostata vicino all’hotel dove Bruno alloggiava e aveva deciso di seguirlo fino a quel supermercato, senza che lui se ne accorgesse. Aveva camuffato i suoi tratti con un trucco pesante e con una parrucca del tutto inadatta alla sua persona, che la imbruttiva e la involgariva. Cercava il momento giusto per affrontarlo e parlargli e stava lì appesa al vetro da cui poteva scorgere la sua bella figura che si aggirava nel negozio. Da fuori aveva assistito allo scambio di battute fra Bruno e Sara, le era sembrato banale all’inizio.
Non si aspettava la pugnalata al petto che la colse all’improvviso e la fece barcollare. Gli occhi di Bruno ad un certo punto si erano accesi, vi aveva scorto un fluire di sentimenti che la lasciarono senza fiato. Non l’aveva mai guardata cosi’ il “suo” Bruno, nemmeno dopo quell’unica notte d’amore alla serra .
Era sconvolta. Si giro’ di scatto e quasi travolse una
signora che stava per entrare nel negozio. Corse via, cadde più volte
scivolando sul ghiaccio in quella piazza che sembrava ora solo un incubo che non aveva fine per quanto
corresse a perdifiato. Perse la parrucca,si bagnò i capelli,il trucco si
sciolse in una maschera mista di neve,acqua e lacrime irrefrenabili. Il mondo
le stava crollando addosso. Il miraggio che l’aveva sostenuta per molto tempo
si era dissolto in un attimo lasciandola straziata .
Se avessi dato retta a Paul, si disse, mi sarei risparmiata tutto questo.
Ad un tratto venne distratta da una allegro e chiassoso gruppo di hare krishna che invasero la via in senso contrario al suo cammino; la festosa combriccola procedeva gioiosamente cantando e ballando e offrendo minuscoli dolcetti agli astanti, ricevendo in risposta le più disparate reazioni: attenzione, curiosità, compiacimento, fastidio, ironia, sarcasmi, improperi. MariaLuna non venne certo condizionata da quella buffa carnevalata, ma automaticamente le ritornarono alla mente scenari della sua infanzia trascorsa in India, dove la pratica induista è largamente diffusa, intesa più come modo di vivere che astrusa religione; non esiste un vero e proprio sistema di norme da rispettare, ma un insieme di ideali da perseguire. Secondo l’induismo sono i beni materiali a rendere schiavo l’uomo che rischia di perdere sé stesso, mentre con l’aiuto della meditazione e degli esercizi yoga oltre a ritornare padrone del suo corpo torna in grado di raggiungere il senso di benessere interiore e di pace vero toccasana rispetto alle angosce e ai turbini dell’esistere.
Come per una folgorazione MariaLuna finalmente
intuì le cause del suo malessere, si rese conto di essere troppo fragile per
affrontare le delusioni che le procura la vita nel mondo occidentale e, forse
per un inconscio richiamo alla propria infanzia, aprì la sua mente ad una nuova
prospettiva, quella di un ritorno in India per trovare finalmente un equilibrio
interiore nei rituali sanscriti dell’induismo. Sarà un caso o un segno del
destino che a pochi passi nella via che stava percorrendo scoprì l’invitante
insegna di una fidata ed attrezzata agenzia di viaggi…
MARE APERTO –Di Chiara Bonechi, Tina Conti, Carmela De Pilla
“Amelia”
Quando la nonna le aveva suggerito di trascorrere qualche settimana nell’azienda del suo caro amico Lapo, al Cerreto, Amelia fece un po’ di resistenza ma aveva troppo bisogno di staccarsi da Duccio e doveva allontanarsi al più presto da Firenze.
Arrivata alla
villa tutti cercarono di metterla a proprio agio, perfino il vecchio amico
della nonna dal carattere un po’ burbero;
gli faceva piacere parlare di Lina, ricordava con nostalgia i tempi in
cui gestiva la ” Fattoria Sassano ” in quel piccolo paese del Sud.
D’altra parte Amelia assomigliava a sua nonna, fisico asciutto e ben
proporzionato, esile e longilineo, tutto sembrava dipinto nella sua figura
perfino gli occhi azzurri come il mare della Sicilia.
I lunghi capelli biondi che teneva sciolti nascondevano la sua timidezza e uno
strano disagio che percepiva ogni volta che doveva parlare.
-Amelia, non
dici nulla? Te ne stai sempre zitta in un angolo!!
Le odiava
quelle parole, sempre le stesse, più si sforzava di parlare e più le labbra
restavano serrate, i discorsi rimanevano
pensieri chiusi nella mente e tutte le volte ne era delusa.
Era piccola
quando si presentò quella balbuzie, tutti ci ridevano sopra e lei
inconsapevolmente accentuava ancora di più quei suoni buffi credendo di essere
divertente, ma Amelia era cresciuta e non rideva più.
Quel prolungamento di suoni, quelle sillabe ripetute suo malgrado la mettevano
a disagio, passava ore chiusa in camera a parlare davanti allo specchio, ma
quelle consonanti, sempre le stesse, si bloccavano con forza sulle labbra.
Doveva riuscirci, ma più si sforzava e più la lingua s’irrigidiva, i muscoli
della mandibola si appesantivano e il respiro diventava spezzato.
Quando si sentiva affranta si recava sulla spiaggia
ancora deserta e faceva lunghe camminate a piedi nudi, da una parte il mare
dall’altra una vegetazione selvaggia. Il corbezzolo e il mirto facevano da
padroni, ai piedi la rucola selvatica e i gigli marini con il loro profumo
intenso.
Le piaceva passeggiare quando il mare era in tempesta, le onde spandevano
nell’aria un suono che si ripeteva con lo stesso ritmo, l’aiutava a ritrovarne
uno dentro di sé che spesso era disordinato e caotico. Guidata dalla musica del mare e del
vento canticchiava, con voce malinconica, una nenia e via via si placava quella
turbolenza che le schiacciava il petto.
Quel giorno era
particolarmente spossata, così decise di recarsi al mare per ripetere il solito
rito, si guardò intorno e sicura che non ci fosse nessuno cominciò a cantare,
prima con voce soffusa poi sempre più forte fino a intonare una canzone a
squarciagola.
Si accorse così che le parole scorrevano fluidamente senza impuntarsi o
balbettare come se avesse trovato improvvisamente il sentiero per tornare a
casa dopo essersi persa, aveva capito che quella musica amica le dava
l’equilibrio, tanto cercato, per lanciarsi finalmente nel mondo delle parole.
Aveva registrato la musica del vento e del mare per riascoltarla nelle giornate
fredde; si chiudeva in camera e cantava, cantava per sé.
In casa era diventata un’ossessione, ma nell’intimo erano
tutti contenti perché quando cantava dimenticava di balbettare. Più felice di
tutti era la madre che, vedendola più serena, la iscrisse al coro della
parrocchia e fu subito chiaro che Amelia aveva un talento naturale.
In poco tempo diventò la pupilla dell’insegnante che le consigliò di
frequentare il conservatorio a Firenze.
Con la mente già si proiettava in quella città bellissima
e l’emozione per un’ esperienza che le avrebbe cambiato la vita era molto
forte, col cuore trepidava per il timore che la Sicilia, il mare e la famiglia
le sarebbero mancati.
Aveva paura, una paura nuova che decise di sconfiggere con la stessa caparbietà
con cui aveva affrontato e sconfitto la
balbuzie.
Chi le voleva bene la incoraggiò, la sostenne e Amelia
partì.
Firenze le sembrò subito amica, il monolocale che abitava nella zona del Salviatino al piano alto era accogliente e dalla finestra poteva scorgere le colline fiesolane e le fronde dei grandi pini del giardino, perfino il cinguettio dei passerotti e l’ abbaiare dei cani al piano di sotto le facevano compagnia e presto non pensò più al mare della Sicilia. Aveva la fermata dell’autobus vicina e poteva raggiungere in poco tempo il Conservatorio. Attratta e appassionata dallo studio, avvolta nella comodità della nuova casa, le bastò poco per sentirsi a proprio agio nel quotidiano. E ancor di più si sentì bene quando, uscendo per buttare la spazzatura, un ragazzo fermò il motorino vicino a lei e le chiese: ”Come ti trovi nella mansarda di mia nonna?” Fu così che incontrò Duccio.
Duccio aveva 23 anni, capelli neri con taglio regolare,
occhi scuri e penetranti che colpiscono al primo sguardo e denotano vivacità
intellettiva, non era molto alto ma ben proporzionato, pur avendo una
corporatura robusta non aveva un filo di grasso e i muscoli delle cosce erano
tonici. Vestiva in modo sobrio, semplicemente ma con gusto, indossava jeans e
spesso maglioni blu, stile inglese.
Era sempre stato un bambino tranquillo e diligente, in
famiglia ricoperto di attenzioni, mai soffocato e con spazi di libertà per le
proprie scelte. A scuola e negli ambienti sportivi era riuscito a trovare molti
amici, lentamente si era costruito una sana autostima.
Duccio studiava ingegneria all’università di Firenze,
amava il gioco di squadra e amò Amelia per diversi anni. Era un ragazzo serio
che sapeva organizzarsi; lei era affascinata per come riusciva a conciliare lo
studio, lo sport, il tempo per lei e per gli amici. Le capacità intellettive e
una famiglia agiata e serena avevano reso la sua vita piuttosto facile, era
portato a parlare di musica e di sport, di mondi sconosciuti, di motori e di
meccanica, di informatica ed elettronica, argomenti su cui era un piacere
sentirlo disquisire.
Durante le loro passeggiate diventate quasi quotidiane,
Amelia aveva scoperto Duccio ed aveva
lasciato che lui la conoscesse, i racconti delle loro vite si susseguivano, si
intrecciavano, divennero una sola cosa e il loro amore durò a lungo.
Poi quella mano che lo teneva stretto nei pomeriggi dopo lo studio, nelle
passeggiate rigeneranti dopo la fatica, piano piano, senza un reale perché, si
allentò fino a sciogliere del tutto la presa e lui si sentì perso, impreparato
ad affrontare il primo vero grande dolore della sua vita.
Lei c’era sempre stata, era sicuro del suo amore.
I loro incontri erano diventati però
veloci, un caffè al bar sotto casa, il racconto degli impegni, un bacio e “a domani”.
Non c’era tempo per i progetti insieme, per programmare qualche fine settimana
lontano da Firenze dove trascorrere ore tranquille. Amelia pensava che forse in
un altro luogo non avrebbe colto nello sguardo di Duccio e nel movimento del
suo corpo la fretta di correre via, forse si sarebbe di nuovo abbandonato a
lei.
Ma questi rimanevano pensieri perché ad ogni sua proposta si sentiva rispondere
“non so, sarà difficile, l’esame si avvicina, ho la partita, meglio più
avanti”.
Cominciò a chiedersi quale fosse il suo ruolo nella vita di Duccio, si volevano molto
bene ma, mentre lei lo aveva sempre
ascoltato, compreso e sostenuto, lui non sembrava accorgersi più dei suoi
bisogni e delle sue passioni, non si rendeva conto che nel fluttuare dei tanti
impegni mancava uno spazio per lei. Gli erano necessari i suoi baci e le
carezze, il contatto con le sue mani sottili e morbide, ma era solo a se stesso
che tutto doveva rifluire. Amelia con lui vicino, respirando profondamente il
calore che si sprigionava dal contatto con la sua pelle, riusciva per brevi
attimi ad essere ancora felice.
Un pomeriggio, allentando la presa delle mani che si
intrecciavano ad ogni loro incontro, lei glielo disse, non voleva stare più con
lui.
Duccio la guardò incredulo, era uno scherzo?
Poi la osservò come non faceva da tempo, vide nel suo uno sguardo gelido,
fermo, triste, e capì che era tutto vero, non avrebbe recuperato con nessuna
promessa quello che stava perdendo e pianse. Pianse per molti giorni, niente
aveva più un contorno nitido e ben definito, si sentì perso e solo.
La sicurezza e la tranquillità che continuava a ricevere in famiglia non lo
sostenevano più, sentiva adesso la necessità di uno spazio suo e il bisogno di
costruirsi una forza che non derivasse da altri ma solo da sé.
Amelia aveva lasciato così il monolocale del Salviatino e era partita per il Cerreto.
“Al Cerreto”
Nonno Lapo
aveva avuto in eredità la bella proprietà
del Cerreto da una zia materna ai primi del novecento. Era
un’azienda molto florida, i poderi erano
ben coltivati e tante famiglie abitavano
nei casolari garantendo buone entrate.
Fresco di studi e ambizioso, il nonno aveva
sperimentato colture nuove e introdotto razze di bovini resistenti alle
malattie. Quando a cavallo si aggirava per i campi in compagnia del fattore,
godeva di quelle distese di foraggio, delle colture di cereali e si
intratteneva volentieri con i contadini.
Era andato a vivere al Cerreto prima di
completare gli studi e la vita di campagna gli consentiva di mettere in pratica
quello che studiava.
Da allora si era sempre interessato
all’andamento dell’azienda ma da quando il figlio ne aveva preso le redini, si
accontentava di esprimere un’opinione o di sostituirlo per le vacanze.
Bernardo, il nipote che tanto aveva atteso,
sicuramente non avrebbe proseguito l’attività, il lavoro a Milano lo assorbiva
completamente.
Ultimamente però la sua passione per l’allevamento delle pecore lo aveva fatto
ricredere.
Notava una trasformazione in lui, adesso passava
molto tempo libero in fattoria e l’idea di trasformare i locali, non più
utilizzati, per un grande laboratorio
artigianale lo avevano sorpreso, si sarebbe davvero stabilito anche lui al
Cerreto?
“Il signorino” così un tempo veniva chiamato in campagna il giovane erede
maschio delle famiglie benestanti e solo gli operai più anziani a volte
chiamavano Bernardo così anche se lui non faceva parte di quella
generazione; era un giovane dinamico
nonostante la sua leggera zoppia, allegro e cordiale con tutti, sicuro di sé,
con un ciuffo ribelle sulla testa che fin da piccolo aveva sfidato a colpi di
spazzola e acqua.
Aveva occhi azzurri, intensi ma delicati che proteggeva con originali occhiali
da sole, un vezzo al quale non rinunciava mai.
Portava capelli lunghi e curati in
inverno, li tagliava drasticamente in primavera insieme alla folta barba.
Amava vestirsi comodo e sportivo anche se per il suo attuale lavoro doveva
essere moderatamente formale; questo però non lo tratteneva dall’indossare gilè
colorati e sciarpe fantasia provenienti dal laboratorio di casa.
Era molto ammirato e seguito dai giovani colleghi di Milano che lo
incoraggiavano chiedendo quegli accessori per il
loro guardaroba.
La lavorazione delle lane prodotte e la
realizzazione dei capi di abbigliamenti iniziata quasi per sfida e
divertimento nelle due stanzette della fattoria, con l’aiuto degli amici nei
momenti liberi, sarebbero potute diventare il suo nuovo lavoro.
Con il padre aveva coltivato la passione per l’allevamento di pecore di una
razza speciale che fornivano lana molto richiesta, insieme avevano dedicato
tempo ed energie per selezionare animali che
davano un prodotto nuovo.
Nuvoletta, un’agnellina che per la sua storia travagliata aveva avuto un
trattamento speciale, si era tanto affezionata a Bernardo che lo seguiva
dappertutto, sentiva la sua macchina arrivare e scalciava per essere liberata.
Quando Bernardo era alla fattoria dormiva nel
sottoscala, nella cuccia del maremmano.
Alle fiere i capi migliori
partecipavano alle esibizioni e tornavano con bei campanacci al collo tutti
infiocchettati.
Il suo sogno era allargare l’attività e nei vecchi magazzini impiantare una
produzione artigianale di manufatti di lana con tecniche innovative per pezzi unici.
Le ferie accumulate negli ultimi due anni gli permisero
di dedicarsi al suo progetto. Ogni giorno un’idea nuova messa su carta e
accompagnata da un bozzetto.
Che energia!
A volte si sentiva così eccitato e contento che faticava anche a dedicarsi al
riposo e agli esercizi per il suo piede.
Appariva in ottima forma, bel colorito, sguardo allegro e disponibile ma aveva
rallentato l’attività fisica e il piede ne risentiva.
Bernardo insisteva con il
padre per uno spazio polifunzionale al posto di una zona solo
commerciale da sfruttare per incontri, conferenze e all’occasione anche per
concerti.
Per prima cosa voleva studiare l’acustica, era convinto che si creasse già una situazione magica in quello che era il granaio e che sarebbe diventato lo spazio di relazione. Quando Nuvoletta entrava nel granaio e si metteva a belare, i suoni salivano e si modulavano come non sentiva da altre parti.
I lavori proseguivano con qualche modifica
data da idee e desideri che sopraggiungevano, nel laboratorio di Giulio si
riparavano le assi per i pavimenti recuperando vecchie botti.
Anche gli arredi accatastati nel
magazzino della casa del nonno
ritrovavano nuova vita.
Bernardo sentiva di non appartenere più al mondo di Milano.
Amelia era arrivata lì di sabato mattina, si
era persa per i poderi del Mugello prima di individuare la tenuta, non le era
dispiaciuto però vagare per quella
campagna fresca e coltivata.
Aveva trovato
un bel fermento al Cerreto, betoniere in movimento, assi, pietre, montagne di sabbia, era tutto un cantiere,
solo il giardino era risparmiato.
Le era venuto incontro, da sotto il grande cedro, un giovane alto e riccioluto, dolce, aggraziato eppure forte e deciso, con il piglio di chi la vita la sa affrontare.
Appena si era mosso verso di lei aveva notato quel suo modo di camminare un po’ difficile ma che subito le aveva ispirato tenerezza e simpatia.
Aveva il viso colorito dal sole e i capelli
impolverati con un ciuffetto di lana che dondolava da un lato, frutto delle
coccole che dedicava a Nuvoletta.
Alla luce chiara della campagna lui si era lasciato incantare dal modo di camminare della ragazza e dai colori tenui del completo che indossava.
I capelli lunghi che ondeggiavano la proteggevano e allo stesso tempo la valorizzavano. Lui si era scusato per non aver ancora potuto fare una doccia ma era arrivato un camion con le pietre da Firenzuola e aveva dovuto aiutare a scaricare. Le aveva chiesto se era la nuova collaboratrice di Brigitte, il suo architetto, ma Amelia aveva risposto che era un’ospite del nonno.
Alla fattoria il tempo sembrava essersi
fermato da quando Amelia era arrivata, passavano i giorni e i lavori
procedevano senza intoppi, si cominciavano a vedere ambienti luminosi e
colorati, il granaio poi era diventato uno spazio davvero sorprendente.
Amelia si muoveva con discrezione, osservava
e faceva lunghe camminate per i campi.
I genitori di Bernardo erano
discreti con lei, non indagavano sul suo vissuto, si viveva all’oggi.
Ormai erano molti i momenti che i due giovani
passavano insieme, per conversare sull’arte in Toscana, sulla musica, litigare
su Verdi o Puccini, andare per mercati.
Bernardo aveva fatto accordare il pianoforte per i brani che lei studiava ogni giorno.
La presenza della ragazza siciliana si sentiva ovunque, anche nelle scelte che garbatamente aveva suggerito sull’utilizzo dei vecchi arredi.
“La scoperta”
Quel giorno Amelia entrò nella grande sala con il pavimento di marmo ben lucidato e dove la credenza con intagli floreali metteva in risalto l’antico splendore.
Tre porte di
legno massello con gli stipiti imponenti portavano in altre stanze, i grandi
dipinti alle pareti e la penombra le suscitavano inquietudine così accelerò il
passo, ma la luce proveniente dallo studio di nonno Lapo la spinse a
soffermarsi: una grande libreria, un grammofono ancora giovane appoggiato su un
tavolino intarsiato e una scrivania stile déco.
Girava lo
sguardo dappertutto per non farsi sfuggire nulla poi i suoi occhi si
soffermarono con discrezione su quelle foto, immagini di donne che mostravano
la loro bellezza con grazia e semplicità e di uomini che la scrutavano con aria
severa ma benevola; poi il suo sguardo fu catturato dalla foto di un bambino,
avrà avuto otto o nove mesi, biondo, con le guance paffutelle, sdraiato prono
su un grande letto, sembrava che la guardasse Era la stessa foto che aveva
visto sul comò di nonna Lina, non sapeva chi fosse perché la nonna non amava
parlare di quel bambino, nemmeno il nome si sapeva.
Ma come poteva
essere? Perché la stessa foto stava lì? Una in Sicilia e l’altra in Toscana!
Amelia era
confusa, disorientata, non riusciva a darsi una risposta, prese la foto e
scappò chiudendosi nella sua camera, la riguardò e nel bambino vide gli stessi
occhi di Bernardo: quale connessione c’era tra lui e sua nonna?
Dalla finestra della camera osservò la campagna intorno,
fu invasa dai rumori che per mesi le avevano tenuto compagnia, il belare delle
pecore, l’abbaiare dei cani, il muggito delle mucche, il parlottio e lo
scalpiccio degli operai che andavano e venivano, il tonfo degli attrezzi
riposti sotto i loggiati e pensierosa tenne fra le mani quella lettera, di
nuovo si trovava di fronte ad una scelta. Non avrebbe voluto lasciare il
Mugello, la tranquillità che quel luogo le aveva regalato dopo la separazione
da Duccio, non avrebbe voluto lasciare Bernardo ma quell’amore da poco nato era
presto diventato forse impossibile e lei doveva capire, scoprire la verità.
Aveva ricevuto proprio il giorno prima quella lettera e
forse il destino voleva aiutarla. La lesse di nuovo.
Stava nascendo una scuola di canto a Catania e ne avrebbero affidato la
direzione a lei.
Aveva studiato con profitto, si era laureata al Conservatorio e poteva, anzi doveva accettare quel ruolo che le avrebbe permesso di restituire qualcosa di sé alla sua terra. La parentesi toscana finiva lì. Un lavoro così importante avrebbe giustificato agli occhi di tutti quella partenza improvvisa, non sarebbe stata necessaria nessun’altra spiegazione e anche Bernardo avrebbe capito.
Quando decise di partire aspettò che non ci fosse nessuno da salutare. Osservò per l’ultima volta la campagna complice del suo amore, poi lasciò cadere le lacrime liberamente senza alcun freno. Dietro di sé aveva lasciato una lettera.
Caro Bernardo, in te ho trovato l’amore che ho sognato da sempre, quello che fa parlare il cuore, quello che si legge negli occhi, so che soffrirai per la mia partenza, anch’io ne soffrirò ma devo mettere ordine agli eventi che riguardano la mia vita e forse anche la nostra. Quando saprò la verità tu sarai la prima persona a sapere.
Continua a sognare…se ci crediamo i sogni qualche volta si avverano. Amelia
Impiegò due giorni per raggiungere la Sicilia fermandosi
a dormire in un piccolo paese della Calabria, non voleva arrivare troppo
stanca.
Aveva avvertito i suoi solo qualche ora prima per non sentirsi tempestare di
domande e quando entrò in casa la guardarono con aria interrogativa, lei tirò
fuori la lettera del conservatorio e la lesse, ne furono tutti felici,
orgogliosi e l’abbracciarono con vigore.
Le rimanevano due giorni di tempo prima di prendere servizio,
doveva fare ordine tra la confusione delle ultime cose accadute e trovare il
coraggio di affrontare nonna Lina.
L’occasione si presentò la mattina seguente, la nonna si era alzata come al
solito presto e le aveva preparato il dolce
alle mele, il suo preferito; quando Amelia era andata in cucina per la
colazione l’aveva trovata lì, intenta a fare il caffè.
Non c’era nessun altro in casa e lei era ancora assonnata, non aveva voglia di
affrontare l’argomento ma la nonna le fece subito mille domande sul suo amico,
erano anni che non si vedevano, le chiese come stava di salute, come andavano
le cose nella tenuta, come stava …..sua figlia… voleva sapere tutto.
Sua figlia…??
Il sonno le era passato e tutto le apparve chiaro, scappò
di corsa in camera a prendere la foto che aveva voluto portare con sé e senza
dire una parola gliela mostrò.
Nonna Lina impallidì, la prese e la portò al seno, poi con gli occhi lucidi
guardò la nipote e incominciò a
raccontare in un dialetto siciliano che anche Amelia faceva fatica a capire.
-Ero molto giovane e bella, così dicevano, la mia vita era come quella di tutte
le altre ragazze, ogni giorno uguale a un altro, monotono, noioso. Nel
pomeriggio ci sedevamo sulla soglia di casa a narrare delle poche cose che
succedevano in paese, l’unica nota piacevole era fare lo struscio lungo il
corso nelle serate estive, ma io ero diversa dalle mie amiche, non mi bastava
tutto ciò e quando seppi che la contessa Sassano cercava una ragazza che l’aiutasse
in fattoria mi presentai subito.
Lina si rattristò ancora di più, faceva fatica a parlare
poi si schiarì la voce e continuò:
-Fu lì che conobbi Lapo, il nonno di Bernardo, era alto, bello, sempre allegro,
con la battuta pronta e ci innamorammo subito, fu un amore dolce e profondo,
nessuno dei due poteva fare a meno dell’altro, ma ben presto ci sentimmo
travolti da un triste destino che ci obbligò a rinunciare per sempre al nostro
amore.
Amelia ascoltava la nonna in silenzio, non era arrabbiata
con lei, anzi ora le faceva quasi tenerezza, sembrava che raccontasse la sua
storia.
-Sapevo che era già sposato con una ragazza di Firenze,
ma il nostro amore era più forte di ogni altro legame e quando rimasi incinta
mi portò con sé dicendo a mio padre che sua moglie aveva bisogno di una ragazza
di fiducia. Lei non riusciva ad avere figli perciò quando seppe la nostra
storia ne fu quasi felice, perdonò suo marito e mi propose di adottare il
bambino. Nacque una bellissima bambina che io potei tenere con me solo tre
mesi, dovevo ritornare a casa con il mio dolore.
A questo punto Lina era spossata, respirava con fatica e
piangeva, piangeva senza emettere alcun suono come aveva fatto per tanti anni
nascondendo a tutti il suo segreto.
-Era buono Lapo e innamorato, separarsi fu una grande
sofferenza per tutti e due, erano altri tempi quelli, mio padre mi avrebbe
tolto la parola se gli avessi detto la verità, non potevo entrare con violenza
nella loro mentalità, c’erano delle regole da rispettare. Ho pianto in silenzio
finché non ho avuto più lacrime da versare.
Lapo è stato sempre gentile con me, mi mandava notizie della bambina, sapevo tutto di lei ma non la potevo
abbracciare. Quando nacque Bernardo mi mandò la sua foto che io ho custodito
con amore senza dire mai chi fosse.
Amelia si sentiva lacerata, squarciata dentro non solo
per la triste storia della nonna ma anche per il suo amore impossibile.
Lina era lì davanti a lei, sembrava più piccola del solito, curva su se stessa,
il volto rivolto sul grembo e un forte imbarazzo che le impediva di guardare in
faccia la nipote.
-Non mi giudicare Amelia.
-E chi sono io per giudicare? Non hai sbagliato tu nonna,
erano i tempi sbagliati, ora che so ti voglio ancora più bene.
L’abbracciò con delicatezza e le dette un bacio sulla
guancia bagnata.
Doveva dire a Bernardo la verità, lui avrebbe capito,
erano giovani e il dolore di un amore irrealizzabile si sarebbe pian piano
attenuato.
INCONTRI SONORI – di Simone Bellini, Laura Casati, Laura Galgani
I rumori,
maledetti rumori, sono la sua ossessione da quando, dopo la laurea in fisica,
lavora con impegno e caparbietà nel laboratorio del Gran Sasso. Irene, bella
ragazza della provincia abruzzese, vorrebbe occuparsi del clima e dei suoi
sviluppi futuri, mossa dall’ansia di arrestare l’inquinamento e il
surriscaldamento del pianeta. Il lavoro che svolge presso il laboratorio
scientifico è ripetitivo e frustante: consiste nel raccogliere dati dalle più
svariate strumentazioni, che glieli inviano da tutto il mondo. Purtroppo Irene
ha anche una limitatissima vita sociale, è molto riservata e sobria, sia nel
vestire che nel proporsi. Esce difficilmente, la sera rimane a casa a leggere o
ad ascoltare musica. Tutta la sua riservatezza e sobrietà nascondono forse un
disagio che ancora non ha elaborato? Chissà? Il tic nervoso che l’angustia
forse esprime qualcosa in più sul suo conto? Ultimamente questo inconveniente è
divenuto insopportabile, anche i rumori che provengono dai macchinari del
laboratorio la perseguitano. Il ronzio continuo delle trasmittenti ha preso il
sopravvento su di lei, tanto che i ticchettii l’accompagnano anche quando è a
casa. Irene sente di essere vicina al limite, se non reagisce le sue ossessioni
prenderanno il sopravvento, le impediranno di avere una vita normale, e
all’improvviso ha paura, sa di rischiare un crollo psicologico irrimediabile. Così
una sera smette di piangersi addosso, apre il computer e cerca uno specialista
ben accreditato. Lo trova, è a Milano. Ormai ha deciso, la sua vita corre sul
filo del rasoio: la mattina dopo prende due mesi di aspettativa dal lavoro e si
stabilisce a Milano. Una volta arrivata, presa dal furore che le ha fatto
lasciare il Gran Sasso, si organizza le giornate fra passeggiate, musei, mostre
e concerti, lasciando spazio solo a sedute di terapia. Partecipa anche al
concerto di Tiziano Ferro, che viene aperto dal gruppo “Aforismi ”
con un cantante – si dice – incredibilmente bravo e di grande carisma:
Joshua. Anche per lui è la prima volta a Milano …
Un concerto a Milano! Un sogno che incredibilmente si sta avverando! “Aforismi”,
il gruppo di Joshua, avrebbe aperto il concerto di Tiziano Ferro. Adrenalina a
mille! I battiti del cuore rimbombano nelle orecchie man mano che, con passi
decisi, i musicisti si affrettano nel corridoio che conduce al palco. Il boato
di uno stadio gremito all’inverosimile li accoglie alla loro entrata. Dio che
emozione! Le note partono potenti, ipnotizzando il pubblico che, impazzito,
scandisce il tempo con le mani dalla prima all’ultima canzone.
Quando i componenti della band tornano nei camerini sono ancora increduli
del successo ottenuto.
Joshua deve fumare per scaricare tutta l’adrenalina accumulata. Esce dal
camerino, mentre il concerto di Tiziano Ferro prosegue sul palco, aspira
profondamente, ad occhi chiusi, due boccate di fumo per rilassarsi.
– Mio Dio siete stati incredibili! – dice una voce femminile, facendogli
riaprire gli occhi – grandiosi, meravigliosi! Tu poi, eccezionale, intenso,
trascinante! –
Joshua, travolto da questo impeto, si bea di tutti questi aggettivi,
rimanendo stupito e senza parole. Dopo un attimo di imbarazzato silenzio, lei
prosegue: – Oh, scusa la mia irruenza! – E, porgendogli la mano – Ciao, sono Irene!
– Ciao, Joshua –
Al contatto della sua mano, lei ha un fremito che le percorre tutto il
corpo, finendo con un sensuale morso sul labbro e gli occhi semichiusi.
– Cavolo! – pensa lui – ho fatto proprio colpo! Questa incredibile giornata
potrebbe finire nel migliore dei modi! –
– Oh noo! Questo maledetto tic si manifesta sempre nel momento meno
opportuno! – pensa lei – basta, da domani risolverò la cosa col dottor Gregorio!
–
– Beh, il minimo che possa fare per sdebitarmi di tutti i tuoi complimenti,
è di invitarti a bere qualcosa insieme! –
– Con molto piacere! – annuisce lei, mentre il tic la fa di nuovo fremere
tutta.
All’indomani, Irene si sta
avvicinando a via Leonardo da Vinci 88, dove Gregorio, il suo terapeuta, riceve
i pazienti, quando i rumori che l’avevano ossessionata al laboratorio deflagrano
di nuovo nella sua testa, coprendo i ricordi della bella serata passata con
Joshua … Oggi avverte
i suoni in modo più violento del solito, le auto che corrono veloci
sull’asfalto sono stilettate nella testa, lo sferragliare del tram e il suo
tintinnio divengono una minaccia. Finalmente è arrivata, suona il campanello ma
la pesantezza del portone sembra respingerla, conquista a fatica una piccola
apertura ed entra, il tonfo del portone è l’ultima ferita sonora che deve
subire. La quiete della corte interna le dona un po’ di sollievo: tutto è
ovattato, il pavimento lastricato, in pietra lavorata da appuntiti scalpelli,
sembra assorbire i rumori e renderli vani. Un glicine centenario si arrampica
su per il muro del cortile, e si stende con i suoi rami generosi, quasi ad
accarezzare i balconi adiacenti.
Le scale si offrono appena passato il
cortile, a destra. Da un androne, illuminato da un grande lucernario posto sul
tetto e da belle vetrate al secondo piano, si dipana una scalinata in pietra
serena, larga, dai gradini bassi e non troppo ripidi, che si salgono con
facilità, formando come una larga chiocciola. La ringhiera è in ferro battuto,
e fiori e ghirigori si rincorrono fin su, al settimo piano.
Su ogni pianerottolo si aprono quattro porte,
di legno color miele, una per appartamento. I campanelli sono di ottone,
lucidi, e su ognuno è intagliato con eleganza un cognome.
Al terzo piano c’è l’appartamento dello
psicoterapeuta. Una targhetta sulla porta, sempre in ottone, lo annuncia
chiaramente: “EasyMind”, studio psicoterapico.
L’ascensore, incastrato nella tromba delle
scale, la invita ad entrare in un’elegante gabbia di ferro battuto. Il rumore
fluido della cabina che sale l’accompagna al terzo piano. Mentre Irene si concentra sull’apertura
delle porte, si apre anche la porta dello studio, ed appare Gregorio. Ha quarant’anni, ed è un
bell’uomo. Di quelli che hanno fascino, e lo sanno. Naturalmente è alto, magro,
ben fatto, ha la pelle chiara, gli occhi azzurri, i capelli castani già un po’
brizzolati. Li porta lunghi, a sfiorargli le spalle, perché sono morbidi,
formano dei boccoli
sbarazzini. Eppure è uno psicoterapeuta abbastanza conosciuto, e lei lo sa. Irene,
alla vista di Gregorio, rimane colpita dalla sua rassicurante imponenza, che
trapela dal suo atteggiamento più che dalle sue parole; lui le porge la mano e
la invita ad entrare. Di nuovo al contatto fisico il tic si ripresenta con
tutta la sua sensuale veemenza. Gregorio, benché abituato alle reazioni più
strane, interpreta il comportamento di Irene come un compiacimento verso la sua
persona. Irene entra e Gregorio affabilmente le mostra la stanza dove si
svolgono i colloqui. Lei nota che il pavimento è di legno, un parquet di rovere
chiaro, color miele, lucido, come andava di moda negli anni ’70, con tasselli
piccoli montati a spina di pesce. Le porte sono di legno massello, bianche, le
pareti sono colorate: color albicocca per quella dei colloqui, azzurro chiaro nella
stanza al cui ingresso c’è scritto “Sand Therapy”. “Qui accanto c’è la stanza
della sabbia” dice Gregorio. Un’espressione di stupore si dipinge sul volto di
Irene. “E’ per creare le storie, puoi
inventare quello che vuoi! È il tuo spazio di libertà, fra questi ci sono i
personaggi della tua vita, li puoi mettere in scena.” “Posso mettere in scena
anche i miei tic?” “Certo, demoliscili!”
La terapia continua per circa due mesi. Irene trova le sedute
interessanti, le piace smontare e rimontare la sua vita affondando le mani nel
contenitore con la sabbia dal fondo blu, nel quale ogni volta crea situazioni
diverse con i personaggi e gli elementi che prende istintivamente, senza pensarci
troppo, dagli scaffali sui quali sono allineati in perfetto ordine piccoli
animali, edifici, persone, mezzi di trasporto, piante, oggetti, cibi…un
campionario di tutto ciò che esiste! Oltre a questo però, Irene si trova a suo
agio anche per la capacità empatica di Gregorio: sembra infatti che
lui non desideri altro che ascoltare chi ha davanti. Il suo sguardo profondo
non si distrae mai, non cerca vie di fuga perché si annoia. Anzi, fa un sacco
di domande. E lei si lascia andare e parla, parla come non aveva mai fatto con
nessuno. Da parte sua, ad ogni seduta Gregorio è sempre più affascinato dalle potenzialità di Irene;
via via che i tic si diradano, lui è sempre più intrigato dalla sua personalità
poliedrica. Quasi quasi, pur sapendo di andare contro la deontologia
professionale, è tentato di invitarla a bere qualcosa dopo la seduta. Tutte le
volte rimanda, sperando che sia lei a dargli modo di varcare il confine, e invece
niente, l’occasione non si presenta.
Consumato da questo conflitto
interno, un pomeriggio, una volta uscita Irene, Gregorio affida le sue pene ad
una sigaretta fumata sul balcone.
Si affaccia, lo sguardo assente si
focalizza su una giovane coppia abbracciata proprio davanti al pesante portone
d’ingresso. I due si stanno baciando appassionatamente, e Gregorio non riesce a
distogliere lo sguardo; il suo cuore ha un sussulto quando riconosce Irene
abbracciata ad un bel ragazzo biondo con la chitarra a tracolla. I due si
avviano ora verso un furgone, sul quale è riportata la scritta “AFORISMI”. Gregorio
spegne con rabbia la cicca sul pavimento del balcone, pestandola forte con la
punta del piede.
Stavolta Narciso ha ricevuto davvero
una “sonora” sconfitta!
Il soffio del tempo –di Vanna Bigazzi, Mirella Calvelli, Luca Di Volo, Roberta Morandi
Lo spettacolo era grandioso.
Come un’aquila posata sul suo nido inaccessibile,
l’Abbazia coronava lo sperone roccioso che la sosteneva, affondando l’agile campanile nel cielo azzurro pallido
del primo mattino.
La severa architettura romanica, appena ingentilita
da qualche ornamento o scultura meno minimalista, proclamava l’unicità della
salvezza e nel contempo ammoniva il mondo mostrando la concreta immagine del
luogo in cui trovarla.
Una cerchia di mura poderose però tracciava un
solco invalicabile, quasi a proclamare il confine materiale tra l’umano, peccatore
e blasfemo e un universo, pallida ma suggestiva evocazione della Gerusalemme
celeste.
La funzione del Mattutino era appena finita e
l’alba stava cominciando ad indorare le statue che decoravano il portale della
chiesa abbaziale con ombre affascinanti e terribilmente evocative, per chi
avesse saputo leggerle.
Nell’immenso scriptorium un monaco novizio, appena uscito
dalla liturgia, sedeva un po’ rannicchiato sul suo sgabello. Era la sua
settimana di turno come copista e miniatore, un’attività che lui attendeva
sempre con piacere. In effetti era l’unica attività del monastero che lo
entusiasmasse veramente, a parte la preghiera e il lavoro nell’orto. Prendeva
molto seriamente la severa regola Benedettina dell’ora et labora…
In quel momento, però, impiegava oziosamente il
tempo scribacchiando sull’orlo della preziosa pergamena sciocchi indovinelli e
insulse sciarade, solo per il piacere di sentire la penna che graffiando il
foglio ruvido rimandava uno scricchiolio, quasi a dire che tutto funzionava
bene.
Quella volta il suo lavoro consisteva nel restauro
di un’opera unica e rara: nientemeno che un incunabolo contenente il “De rerum
Natura” di Lucrezio. Uno strano autore che, dicevano i contemporanei, scriveva
“per intervalla insaniae”, cioè solo nei momenti lucidi, tra una crisi e
l’altra. Lotario, questo il nome del novizio, era affascinato da quella teoria
degli atomi: tutto era fatto di atomi, anche la luce…E chissà quali erano gli
atomi che componevano quella creatura di luce che a volte raggiungeva l’Abbazia
nei giorni di mercato.
Intanto………
Quell’appellativo, l’aveva fatta sempre sorridere: La Maga delle Erbe!!!
Certo
è che quando c’era lei in casa e soprattutto in cucina era difficile
concentrarsi.
Commentava
ad alta voce, spostava e traeva conclusioni, anche su cose di cui non conosceva
assolutamente nulla.
Ecco
perché, molto spesso, per sfuggire all’inquisizione della sorella, si rifugiava
all’Abbazia in cima alla collina.
Era
una consuetudine per gran parte degli abitanti del villaggio raggiungere quel
luogo “divino”.
Ma il
suo legame con l’antico maniero era davvero speciale.
Fin da
piccola, grazie alla compiacenza dei frati e alla zia Marta, le era permesso
correre attraverso l’immensa cucina, nascondersi dietro la madia o giocare
nell’acquaio di pietra serena con le sue paperelle colorate.
Là
tutto aveva dimensioni importanti e anche adesso che non era più una bambina,
tutto richiamava all’incontro con l’Altissimo.
La
cosa curiosa era che anche quando non c’era nessuno, la cucina sembrava
vivesse. Respirava, raccoglieva rumori antichi di sandali o di vecchi scarponi
infangati che l’avevano percorsa per le motivazioni più disparate.
Qui
riusciva, però a concentrarsi, ad
approfondire a sperimentare, con l’ausilio di testi antichissimi e con l’esperienza di frate Bernardo, grande
conoscitore di erbe e radici..
Lui si
che sapeva trasformare un semplice miscuglio erbaceo in pozioni medicamentose!!
Conosceva l’essenza del rimedio o del danno.
Le
finestre alte sopra l’acquaio, facevano filtrare la luce del sole attraverso le
sbarre, luce che andava a rischiarare, come una meridiana il grande tavolo in
marmo, riuscendo a scaldarlo in un punto preciso a seconda delle ore e della
stagione.
Magico
lo era davvero quell’ambiente, aveva vissuto attraverso i secoli, le sue mura
erano impregnate di odori e fumi, avevano ascoltato canti e liturgie, grida e
risa.
Aveva
accolto e sfamato pellegrini e viandanti, rifugiato perseguitati. Si era
avvolta di luci e colori. Udito i colpi di coltelli e mannaie, ospitato le grida fioche di animali nell’ultimo istante
di vita.
Odorava
di fresco l’estate e di caldo umido nelle serate d’inverno, rischiarate dal
fuoco del grande camino e dal suo crepitio.
Il
grande pavimento sconnesso aveva sentito il fruscio delle lunghe vesti e lo
scalpiccio di poveri sandali, adesso viveva sotto i suoi passi leggeri.
Quella
mattina era arrivata di buon’ora all’Abbazia ma
la cucina era stranamente vuota. Frate Bernardo, che abitualmente era
ricurvo sul tavolo ad armeggiare con i suoi intrugli non era li.
Mise su,
allora, il bricco dell’acqua, come faceva di solito,
non appena arrivava in quel luogo, e distrattamente iniziò
a sbirciare e seguire segnali che potessero giustificare quell’assenza
inconsueta. Solo il fischio assordante e il pennacchio fumoso e bianco del
bricco la ricondusse al presente.
Un
leggero soffio, un passaggio veloce e le pagine di pergamena dei libri dello
scriptorium hanno un sussulto, ma niente
di più, tanto sono spesse e ancor più
appesantite dall’inchiostro colorato delle miniature, e come sono belle
con quelle lettere disegnate e colorate con fiori e fregi. Ma Berta non sa chi
è e perché è lì, conosce solo il suo nome, essendo l’ultima
parola che ha sentito di là da dove è venuta,
già ma cosa è “di là” non lo sa
né sa perché è lì in mezzo a tutti quei
libri e a tutti quegli uomini con la testa semipelata.
Vede
tutto ed è riuscita a sapere tutto di
quella gente, li conosce bene, ma non sa niente di sé, neppure conosce il suo
aspetto, sa solo di essere una giovane ragazza e quando passa e fa volare le
cose, loro si agitano e lei si diverte e riprova, e ancora riprova con un gusto
fanciullo, ed ogni volta è diverso.
Sì dice
che se un fantasma riesce a specchiarsi, poi, se vuole, può farsi vedere nelle
forme originali, per cui Berta cerca
disperatamente qualcosa su cui specchiarsi, ma in un monastero benedettino non
è cosa facile.
Berta sa
che dovrebbe essere bella, sente il fruscio dei suoi abiti e talvolta un
leggero tintinnio, forse gioielli.
Oh se
qualcuno di quei fraticelli potesse dirle chi è e perché è lì! Ricorda poco e a
tratti, se vede o sente qualcosa che le par familiare, allora ha dei ricordi,
dei flash back di un passato, quanto lontano non riesce a capire. Ha sempre un
gran caldo che forse qualcosa del suo passato, ed è per questo che non cammina ma svolazza? Le
piace tanto passare sopra le teste dei fraticelli intenti a ricopiare
manoscritti, a volte si sofferma a leggere, già Berta sa leggere molto bene per
essere una femmina.
È curiosa
di tutto e per questo si intrufola ovunque, dalle dispense alla cucina,
dall’orto dei semplici dove coltivano le erbe che lei conosce perfettamente,
adora infilarsi nel locale della
manipolazione e conservazione dei
preparati che servono a curare tutti i malanni. Le piace sbirciare quello che fa il frate farmacista: prova a
mescolare e talvolta si diverte a ingarbugliare le erbe facendole volare, e poi
assistere al disperato tentativo del frate di rimettere le cose a posto. Si si
fa delle matte risate, peccato che nessuno la vede o sente.
È affascinata da tutti quegli odori, ma
soprattutto la incuriosisce l’armadio dove vengono essiccate: è lì che ha avuto
i primi ricordi di sé.
Quegli
ambienti, di solito silenziosi e odorosi, solo appena scossi dal sobbollire dei
pentoli sul fuoco, dal gorgoglio degli alambicchi e di tanto in tanto dal
cigolio dell’armadio essiccatoio che si apre e
chiude, ora sono riempiti quasi per intero da uno scalpiccio nuovo, non
sono i soliti passi di frate Bernardo, quasi un ticchettio un po’ nervoso, a
tratti veloce. Si nasconde, si fa per
dire, dietro l’armadio per sbirciare quei passi così diversi e inusuali in quel
luogo. Ecco, arrivare dal portico, una figura femminile che non aveva mai
visto, svolazzante e leggera in quegli abiti lunghi e colorati, bionda, magra
con un sorriso simpatico e due occhietti vispi e sapienti.
Ecco forse questa mi può vedere! Ehi te, ciao, chi sei? Mi vedi?
Non la
vede, neppure Luisa può vedere Berta
nonostante il suo sbracciarsi e svolazzare intorno, e poi che ci fa
questa nel regno del frate erborista?
Ecco che
Luisa apre l’armadio
Che buon odore di pimpinella lavanda e mentuccia!
Luisa
apre la sua sacca e ne tira fuori delle lenti per leggere meglio le etichette,
d’improvviso una luce taglia la stanza e si riflette nelle lenti e come una
lama attraversa Berta che per un attimo diviene visibile, Luisa che certamente
non si aspetta quella visione ha un sobbalzo, fa un passo indietro e le cadono
di mano sacca e lunette, urta col fianco
il tavolo con gli alambicchi e
con il viso trasfigurato più dallo stupore che dalla paura, cade a sedere in
terra, occhi stralunati e fissi sulla
figura di Berta.
Un attimo,
solo dopo un brevissimo istante di primo stupore echeggia per le stanza una
grande e sonora risata, anzi due e per la prima volta Berta sente la sua voce:
Mi vedi, si mi vedi, oh finalmente! E mi senti
anche? Chi sei, come ti chiami che ci fai qui e cosa cerchi e…
Uhe bimba
calma! una cosa alla volta! certo che ti vedo e ti sento, e ora scendi dall’armadio.
Ma in un
attimo la luce cambia inclinazione e il riflesso scompare nell’eco delle risate.
Fu in
quel preciso momento che Fra’ Gustavo entrò nella cucina e scrutò Luisa come si fa con un cagnolino e poi
con voce accorata le disse che fra’ Bernardo non era lì oggi, non si sentiva
molto bene e stava riposando nella sua cella.
Lì per
lì Luisa si preoccupò, perché quella voce stridula e lo spostare molle della
testa da sinistra a destra le fece presagire niente di buono. Ma in fondo fra’
Gustavo era sempre un po’ melodrammatico, quindi allargò le spalle e si
ripropose di andarlo a trovare poco dopo. Con estrema premura chiese se nel
frattempo poteva scendere nella biblioteca.
Fra’
Gustavo annuì e con passo felino abbandonò la stanza.
Anche
la Biblioteca era per lei affascinante, detentrice di tanto sapere. L’odore
della polvere e dell’umidità la contraddistingueva.
Era un
privilegio accedervi, solo pochi estranei vi erano ammessi, lei era una di
questi.
La
scala a chiocciola produceva un morbido scricchiolio ad ogni passo, anche se leggero. Al centro le assi
degli scalini erano consumati, mentre la sinuosa ringhiera era lucida e
splendente. Sicuramente le mani dei fratelli sono sempre state avvinghiate ai loro rosari o
nascoste sotto la stola, tali da non usare il debito appoggio.
La
luce era fioca, ma non tremula, ormai gli antichi candelabri erano
inutilizzati. Le candele nuove svettavano verso l’alto, ma solo come
arredamento, mentre le basi erano
annerite e coperte da strati di secolare
cera.
I
tavoli di castagno erano illuminati solo in alcune postazioni, dove frati
seduti su grandi sedie erano assorti in letture. Qualcuno di loro prendeva
appunti e spostava nervosamente fogli e pagine.
Tutt’intorno
la libreria semicircolare, intervallata da scale semimovibili.
Luisa
cercava quel libro di cui fra’ Bernardo conosceva con cura ogni pagina e ogni
scritto, ma lui non era con lei per aiutarla.
Si
ricordava come Bernardo le avesse letto le prime parole: ”Ego Lhotaris , Dei
servus de sanctae Abatiae Candegghiae …hoc inveni et scripsi, ad maiorem Dei
gloriam….”(Io, Lotario,servo di Dio, della Santa Abbazia di Candeli……questo ho
scoperto e questo scrivo, a maggior gloria di Dio). Lei, pur non conoscendo il
latino, aveva voluto imparare a memoria quelle magiche parole. Fra’ Bernardo
ora le mancava le dava coraggio la sua autorevole presenza. Si accorse di
tremare, ma forse era solo il freddo.
Anche
il respiro si era fatto lento, un leggero fumetto usciva dalla bocca, la stanza
non era proprio caldissima, ma in fondo quegli ambienti erano troppo imponenti
per essere riscaldati a dovere.
Vide
in fondo alla stanza proprio sotto gli scaffali dei libri un novizio
impacciato. Lo aveva visto altre volte, sa che si chiama Lotario, ed è sempre
stato una figura appartata e un po’ misteriosa… In quel momento sta parlando
con un giovane alto e bruno.
Si
avvicina ai due, svicolando tra i grandi tavoli, fra la curiosità e lo stupore
di vedere un “estraneo”.
Infatti
era la prima volta che Fabio entrava in quel luogo santo e nessuno lo aveva mai
visto prima. Lotario lo aveva notato
subito, incantato da quegli occhi scuri profondi e forse pensava di aver
trovato qualcuno con cui poter parlare, ma in modo laico, senza impedimenti
dottrinali e a lui avrebbe potuto fare le domande che desiderava da tanto tempo
porre sul mondo e, perché no…anche sul suo Creatore. Per questo lo aveva
accolto così apertamente e lui si era lasciato abbracciare abbandonandosi al
profumo grezzo della tela di quel saio misterioso.
Fabio era un ragazzone semplice ma molto
riflessivo. Non amava esaltare il suo fisico, sapeva di essere bello ma
sembrava che ciò non lo riguardasse; in lui non c’era il minimo cenno di
vanità. I suoi capelli biondo scuro erano boccoli d’oro, da bambino; amato da
una madre adottiva moderatamente amorevole, saggia e pragmatica, aveva
abbracciato il suo stile. Ma la sua tranquilla sicurezza era vera? Spesso
Fabio se lo era chiesto senza sapersi dare una risposta. Certamente la nascita
del fratellino, figlio vero dei suoi genitori, era stato un grosso colpo per
lui nonostante la capacità adattiva che, data la sua situazione, gli
apparteneva sin dalla prima infanzia. “Nessuno può avere tutto…”
ripeteva a se stesso e questa filosofia lo aiutava ad andare avanti
permettendogli di mantenere un sufficiente equilibrio. Non poteva neanche
immaginare quanto quel tarlo di “incompiutezza” avrebbe potuto
influire nella sua vita futura. La stabilità di cui godeva, raramente subiva
interruzioni se non per alcune nottate insonni in cui assurdi fantasmi
catturavano la sua mente. “Ricordo soltanto ciò che mi è accaduto da
quando sono stato adottato, a sei anni, ma prima? E quando chiedo qualcosa al
riguardo, perché tutti sono evasivi?” L’ansia faceva breccia nella sua
mente, nessun flashback. Quei buchi neri del passato gli causavano un disagio
profondo. Fabio pensava che non avere un passato è come non avere vissuto; il
ricordo è la base dell’identità, “non so chi sono, dunque. Se avessi dei
ricordi potrei anche dimenticarli, ma non averli…cosa posso ricostruire io?
Il non ricordo è un mostro più di un ricordo mostruoso, sono posseduto dalla
non-memoria!” Sfinito da queste ombre, Fabio osservava con insistenza gli
scuri della finestra della sua camera, nella speranza che i primi bagliori di
luce giungessero salvifici, ad annunciare il giorno. In seguito ad una di
queste nottate insonni, prendendo sempre più coscienza dei suoi problemi, aveva
deciso di iniziare a frequentare la
biblioteca dell’Abbazia. Non vi era mai stato, ma quell’ambiente solitario e
misterioso avrebbe potuto essergli utile per raccogliere idee e pensieri e
tentare di rievocare quel passato sconosciuto che sempre più lo
tormentava. Si era incamminato, di primo mattino, per i viottoli
dissestati in mezzo al bosco. Quell’aria fresca e profumata, insieme al
cinguettio degli uccelli, al fruscio delle foglie stropicciate da un robusto
venticello, lo misero di buon umore nella speranza di poter trovare in quel
luogo, sembianze, purché sfumate, del suo ignoto, irrealizzabile passato.
Giunto all’Abbazia, Fabio era entrato in quella biblioteca tutta avvolta in una
bruna e sfumata luce. Gli era parsa immensa: tre colonne in pietra definivano
volte misteriose. Ai lati le bifore alte e strette sembravano insufficienti a
illuminare quell’ambiente cosi vasto. Fra l’una e l’altra, alle pareti, grandi
scaffali, carichi di antichi volumi, che al solo pensiero di toccarli, incutevano
soggezione. Fabio si era seduto ad una delle tante fratine disposte
lateralmente e appoggiando le braccia sul tavolo, aveva abbandonato la testa
fra le mani, aveva socchiuso gli occhi e si era messo in ascolto di quel
silenzio assoluto. In lontananza deboli
armonie di canti liturgici e si era accorto che quell’iniziale diffidenza si
stava trasformando in una sensazione di pace. Cullato da quegli arcani,
indecifrabili echi, Fabio fu scosso da un rumore secco e fioco proveniente da
una zona poco visibile…
Lo
schianto era stato improvviso e molto violento. Avevano sobbalzato
rabbrividendo Luisa e quel ragazzo incerto, diafano, leggero che subito la
guardò e subito si perse negli occhi di lei, sgranati e pieni di stupore. Cosa
poté vedere rimase un mistero ma Luisa si spostò verso di lui, alzò la testa,
tuffandosi in quei grandi occhi scuri e con fare intrigante iniziò una fievole conversazione.
Era
difficile percepire il brusio del loro raccontarsi ma fu una scintilla di
confidenze senza preavviso, una cascata di colori nella stanza buia.
Cominciò
a raccontargli delle erbe, di come le piaceva uscire nel prato per cercarle. Le
raccoglieva con delicatezza, le metteva nel paniere e le portava a casa. Poi le
riadagiava, le spostava, le confrontava, con gli schizzi del quaderno della zia
Marta.
Quando
aveva scoperto il loro nome, il rapporto si faceva più amichevole, fraterno, le
chiamava per nome
“Cicerbita”….sei
dura come una Cicerbita!! Diceva la mia mamma…quindi tenace, amara…….. va
lavata molto bene, poi in abbondante acqua bollente, per aggraziarla e renderla
morbida e gustosa al palato.”
“Tarassaco,
le sue proprietà sono curative, ottime per depurare il fegato. Ma il nome
dell’infanzia è piscialletto, così siamo più intimi, più famigliari”,
raccontava Luisa.
La
conversazione fra i due andava
spostandosi al piano superiore e fra chiacchiere e risatine si ritrovarono nel
bel mezzo della cucina.
Luisa
era orgogliosa di mostrargli il suo rifugio, il suo regno e di condividere il suo sapere.
Fabio
rimase affascinato da quell’esserino dolce e delicato, che con gesticolare
morbido raccontava la sua passione.
Dava
vita ad un mondo sconosciuto e lui non poteva far altro che ascoltarla rapito
ed abbagliato.
Anche
Lotario aveva fatto un salto al cadere del volume per terra e alzando gli occhi
per la vergogna di essere stato il maldestro responsabile, la vide. Era lì, che
mentre volteggiava tra i libri il rumore improvviso l’aveva fatta cadere a
terra, a un passo da Lotario e stranamente lui….. lui l’aveva vista.
Berta!
Urlò senza potersi trattenere….Berta! e incredulo si mise a piangere senza
rendersene conto mentre lei rivide i suoi occhi brillanti che la chiamarono
come da un lontanissimo vortice di sensazioni.
Lotario!
Era lui! Era lui, dunque e allora…..
Tutto
all’improvviso si colorò di presente
Berta ora
ne era certa: c’era un legame con la sua presenza all’abbazia. Era stata da
tempo misteriosamente attratta da quel luogo mentre vagava inquieta nei boschi
dei dintorni e quel suo soffermarsi nelle cucine e in biblioteca come fosse un
luogo amico, il suo riconoscere le erbe e subito sapere a cosa servivano,
quante volte aveva cercato di informare frate Bernardo delle sue conoscenze.
Inutile svolazzare sopra la sua testa, spostare le erbe, spengere i fuochi,
non otteneva nulla: lui pregava e basta.
Ma ora Berta sapeva, ne era certa, era stata una conoscitrice e per questo era
stata definita “malefica” e poi anche strega e fattucchiera, medichessa,
si ecco, ora le tornava in mente che fu arrestata, processata e condannata al
rogo perché conosceva le pratiche di “fare medicine”, ricette di erbe con
la mandragora, la canapa, lo stramonio,
di preparare unguenti, balsami e intrugli e decotti e infusi.
Sì, ora
sapeva che Luisa era una sua discendente, lo aveva intuito quando si erano
viste nella cucina a causa di quel raggio di luce. Gli altri non potevano
vederla, solo la sua lontana discendente “strega” come lei, aveva il
potere di vedere oltre.
Tutto era
successo in quella abbazia pure il rogo sulla collinetta, lì aveva curato e salvato un giovane fraticello …oh, se lo
ricordava…Lotario , questo era il suo nome.. L’aveva fatta salire su fin dentro
lo scriptorium a leggere i testi
proibiti e sempre lui le aveva insegnato a leggere e scrivere: studiavano e
sperimentavano insieme medicine, infusi, decotti con cui il frate erborista curava i confratelli, ma
la vera esperta e conoscitrice era lei,
Berta. . Quell’incontro
era stato fatale per tutti e due. Lotario era stato affascinato dalla
conoscenza profonda della natura e nei poteri, di erbe ,radici e foglie che
Berta gli stava dimostrando. Lei ,invece, fu subito stregata da quegli occhi
che parevano scrutare tutto, curiosi attenti alle lezioni che lei gli
impartiva, finché, quando anche lui raggiunse il suo livello, cominciarono a
collaborare, questa volta guidati dallo spirito
intraprendente e curioso di Lotario, che oggi sarebbe stato chiamato un
innovatore. I loro incontri si svolgevano di notte, lui la faceva entrare nelle
mura attraverso un passaggio che una volta l’Abate gli aveva svelato,
attraverso cui perseguitati e pellegrini indesiderati altrove, venivano accolti
in quel luogo santo.
Ora
quasi ogni notte, vi passava Berta per raggiungere il suo compagno di ricerca.
Fu per
loro un periodo meraviglioso, allietato anche da un sentimento molto poco
spirituale ma ugualmente divino: la curiosità era stata galeotta e aveva
generato l’Amore, quello maiuscolo, che pochissimi infelici conoscono.
Ma le
loro ricerche progredivano, e anzi avevano preso un indirizzo che, ad una mente
dottrinale, avrebbe emanato un piccolo odore di eresia.
Comunque
erano andati avanti…sempre più spaventati da quello che andavano scoprendo, finchè
un giorno Lotario si sedette e prendendosi la testa fra le mani e con gli occhi
fissi sul pavimento, non mormorò: ”Basta….Berta, nec plus ultra…può darsi che
il Signore ci metta alla prova..o l’antico serpente ci seduca con la sete della
conoscenza..Dobbiamo fermarci”. E Berta aveva capito: ”Sì, distruggiamo tutto, che
non rimanga nulla..”
“No..,questo
no..lo scriveremo e lo nasconderemo, finchè i nostri lontani discendenti
sapranno cosa significa e come lo si possa utilizzare…” La guardò con un
pallido sorriso.. ”Noi siamo forse andati troppo oltre per il nostro tempo..”
E
così fu: Lotario travasò in un manoscritto tutto quello che avevano scoperto:
dosi, materiali, procedimenti…tutto.
Alla
fine chiuse il documento in un piccolo forziere e conducendo con sé Berta
perché anche lei lo vedesse, lo nascose in un piccolo spazio a prova di
curiosi, ben protetto da un meccanismo segreto..una delle tante cose che aveva
scovato durante le sue passeggiate solitarie nei meandri dell’Abbazia.
Non
appena ebbero finito, alla luce delle torce, si accingevano a tornare
indietro, scorsero altre luci che si
inoltravano nel cunicolo…Spensero le loro e si affrettarono all’uscita…Una
volta arrivati alla sorgente della nuova illuminazione, Lotario si sentì gelare:
non c’erano dubbi sull’identità dei nuovi arrivati, la grande croce bianca
sulle stole nere, i volti severi quasi scheletrici non concedevano
dubbi..quella era l’Inquisizione…In qualche modo loro erano stati scoperti ed ora erano perduti.
Il fraticello fu duramente punito e Berta fu
accusata di stregoneria e bruciata dopo aver portato a termine la gravidanza e
partorito una bimba data poi in adozione ad una famiglia di contadini della zona.
Improvvisamente tutto fu chiaro, la nebbia che per secoli le aveva
offuscato la mente, impedendole di ricordare, si stava diradando, come la bruma
che lenta scende a scoprire valli e prati, quando vede il suo quaderno delle
erbe in mano a Luisa, Berta capisce. Sapeva ora che il tintinnio, il fruscio, gli scricchiolii
e perfino il sibilo del vento sotto il tetto e fra i pertugi delle mura
scalcinate e rotte, tutto quanto non è altro che una scheggia di antico non
reale. Ora sa che deve condividere con gli altri la verità: prima Luisa, la più
giovane e ignara e pur così entusiasta di tutto, e poi quel Fabio, così
particolare, ma fra tutti Lotario, il
suo amato Lotario, per il cui amore era stata bruciata viva, e ancora voleva ricordare..
Mentre il
monaco cerca di ricomporsi ecco Luisa che torna indietro correndo tenendo Fabio
per mano. L’immagine di Berta ora è splendente, a mezz’aria, sollevata dal
pavimento in un atteggiamento di stupore infinito. Doveva. Sì doveva
raccontare la sua storia e quello è il momento.
A poco a poco Berta si accorge degli sguardi
che sono puntati su di lei. Non solo Luisa la sta osservando, ma anche Lotario
e Fabio intrecciano i loro occhi in quelli di lei e ascoltano, ascoltano.
Fu così
che Berta rivisse i momenti del fuoco e del fumo, il dolore, il terrore e la
voglia di vivere che la divorava più di quelle fiamme in cui perse la vita da
strega condannata. Ora il ricordo zampillava sicuro, ora sapeva chi era stata e
dove.
Loro la
vedevano e la potevano ascoltare, anime limpide e capaci di sentire il dolore
degli altri.
Raccontò
della figlia appena nata che le fu strappata
prima di morire, un dolore anche più grande della condanna. Raccontò dei
poteri delle erbe, della magia di guarigione e della luna candida quando si
veste nella notte magica. Tutto quello per cui era stata accusata e uccisa ma
che invece era un potere di gioia e felicità.
Ormai era
quasi sera.
Berta aveva finito di raccontare la sua storia
a quell’uditorio attento. Fabio e Luisa erano emozionati e commossi. Lotario stava
in disparte e in silenzio. Anche Berta l’aveva riconosciuto subito il suo grande
e unico amore. Domandò se avesse saputo della sua orribile fine. Berta guardava
Luisa, sapendo ora con certezza che era
una discendente di quella sua bimba
perduta e che aveva ereditato i poteri che l’avevano dannata. Lievemente, come
sapeva fare da tempo, accarezzò i capelli della giovane maga e le passò in un
attimo di fuoco tutto il potere delle donne, la capacità di guarire le ferite,
morali e fisiche, in un gesto leggero e solenne di cui Luisa percepì soltanto
una vibrazione intensa, come una scossa elettrica. E di lui, Lotario, che ne
era stato nella lunga scia di tempo che li aveva separati?
Come in risposta il monaco le si avvicinò, lei fece
altrettanto, ponendosi al suo fianco. E uniti, si incamminarono fuori
dell’Abbazia, verso il bosco scuro, verso l’infinito, alla luce di un tramonto
infuocato che stava bruciando il cielo.
Anche Luisa e Fabio, dopo un attimo di riflessione,
si mossero dietro a loro, quasi per raggiungerli.
I passi delle due coppie risuonarono nella ghiaia
del viale, un ritmo cadenzato che, lentamente, molto lentamente andava
trasformandosi: i passi si facevano via via più lievi finché quelli della prima
coppia si affievolirono, divennero
eterei, morbidi..fino a mancare del tutto di suono. E anche le loro figure si
allontanavano, bevendo luce su luce…fino
ad annullare i propri contorni, disperdendosi nel barbaglio del sole morente..
Luisa e Fabio
non smisero di camminare…
Ma un vecchio cipresso lì vicino avrebbe detto che
anche i loro passi si stavano facendo sempre più leggeri…come le loro figure,
che andarono piano piano a disperdersi nella bruma.
Acqua che viene e che va – di Stefania Bonanni, Patrizia Fusi, Rossella Gallori
Rumore c’è sempre, in sottofondo.
Quando arrivano i ragazzi, i nuotatori, le mamme, quel rumore va cercato,
si ritrova solo con attenzione, un blablabla come di acqua in bocca, sputata
con lentezza in un lavandino.
È acqua che viene, acqua che se ne va, che ritorna pulita, che gorgoglia da
sola, che esce da tubi, da rubinetti, da docce, e se ne va borbottando,
risucchiata da misteriose idrovore.
Quando la piscina torna deserta, allora si sente bene, il ribollire sordo,
si vedono bollicine, respirano le tubature. Ci potrebbe vivere una salamandra
mimetica, che si nascondesse di giorno, ed occupasse gli spazi lasciati vuoti,
di notte. Potrebbe nuotare, tuffarsi, vivere una pacifica vita d’acqua.
Troverebbe anche cibo, nei residui di merende sbriciolate sugli scalini.
Pulisce in piscina, Sofia. Non è
altissima, ma ha gambe lunghe e magre, così magre che sembrano rami, con
ginocchia appuntite, legnose. Sembra un animaletto, un piccolo cerbiatto. Non
le mostra mai, le gambe, porta sempre pantaloni, o gonne lunghe fino ai piedi.
Ha un viso di forma ovale, regolare, dolce, con lineamenti anonimi. I
colori no, quelli sono decisi. Gli occhi piccoli e distanti sono nerissimi. Le
sopracciglia perfette, ad arco, li riparano e li esaltano. Le ciglia di visone,
lucide e lunghissime, sbattono come ali. Anche i capelli sono nerissimi, grossi
e lucidi, impossibile renderli lisci. Anche le tecniche più pazienti e tenaci di stiramento si arrendono
in pochi minuti al risorgere dei ricci naturali. Porta i capelli lunghi, come
tutte. Fanno comodo, così lunghi. Possono essere tenuti liberi e spettinati, e
poi facilmente ricomposti in quelle lunghe trecce che portano tutte le donne di
casa sua.
La sua bocca ha labbra sottili, che sorridendo lasciano brillare denti
bianchissimi. Tanti denti, sembrano di più di quelli che stanno nelle bocche
degli altri.
Anche le sue sorelle sono belline. I fratelli, tutti e tre, troppo scuri.
La sua è una grande famiglia, sette
figli. Lei, la più piccola, ha 16 anni,
il più grande dei suoi fratelli 26.
Lavora in piscina da quando aveva 14 anni. La lasciarono entrare in una
mattina freddissima. Gli scalini all’ingresso erano ghiacciati, ed era stato
liberato solo lo spazio al centro, utile per passare. Lei si era rannicchiata
in un angolo, ed aveva tanto freddo che il solito gesto imparato di tendere la
mano, era doloroso. Qualcuno si accorse di lei. La accompagnò dentro, al caldo.
Per un po’ di tempo rimase lì, con la mano
tesa. Poi ci furono proteste, non la volevano, doveva smettere. Chiese di
lavorare. Così cominciò a pulire i
bagni. Il custode le dava qualcosa ogni volta, lei tornava a casa con quei soldini
che le prendevano subito, e andò avanti così.
Quest’anno ha compiuto 16 anni ed è
stata regolarmente assunta come “aiutante dell’addetto alle pulizie dei servizi
igienici, senza accesso alle vasche” È stata molto fiera di tutto questo,
in casa sua nessuno ha contratti di lavoro. Non ha deciso, come si comporterà
con i suoi in futuro, ma per ora non ha detto nulla a nessuno. Prende lo
stipendio, a fine mese, ma tiene tutto nella borsetta dalla quale non si separa
mai, e dà alla madre ogni sera qualcosa. Per ora, va bene così.
Aveva fatto molto tardi Armando, era tornato “a giorno”. Il cigolio
dei banchi che raggiungevano la postazione su grosse ruote traballanti, il
vocio dei macellai che scaricavano carne e il rumore sordo delle cassette della
frutta vuote lo avevano accompagnato in
via Ginori…dove il silenzio faceva ancor
più rumore. Con una piccola doccia e il solito bagno schiuma
San Laurent aveva tolto le ultime viscide carezze, il parlare affannato del suo
cliente era stato più pesante del solito….il “cachet “ generoso aveva cancellato solo in parte la
sua voglia di dire BASTA ….
Indossò il pigiama di seta blu,
costoso e freddo che aveva il macabro colore della solitudine, non spense la
luce, ormai il sole giocava con la frangia del
piccolo abat jour Lalique
….quell’arcobaleno di cristallo, lo avrebbe accompagnato per due….massimo tre
ore di sonno….poi, forse sarebbe andato in piscina…forse…
Si svegliò di soprassalto, la domestica e il rumore dell’aspirapolvere
erano stati invasivi, ma non aveva voglia di discutere….per cosa poi…aveva
fretta di uscire, di andare in acqua, di isolarsi nel cloro, nell’ odore di
umido….dove solo lo stridere delle ciabatte di gomma sul bagnato lo avrebbero
distratto, con il bagnino ”fuoritaglia” appollaiato sullo sgabello, che manco
lo avrebbe salutato, tra uno starnuto e l’ altro, o al massimo, se fosse stato
in buona, avrebbe mosso il capo e farfugliato:
oh Armà che ci risei?….
Un caffè nemmeno tanto speciale, in via Ŕosina, il vecchio zaino Invicta
con il necessario…il costume azzurro, l’accappatoio
un po’ sbiadito, il telo della Scala ….erano le uniche cose che aveva
conservato della vecchia vita….insieme al piccolo portachiavi con le scarpette
mignon da danza.
Raggiunse la piscina comunale, in pochi minuti.
Ogni volta che varcava la soglia si
domandava il perché di quella scelta!! Si sarebbe potuto permettere ben altro,
qualcosa di più costoso, ben
frequentato, con sauna, bagno turco….una vasca con più corsie….
Aveva scelto, invece, la tranquillità dell’anonimato, il ritmo delle docce
che perdono gocce rumorose, i phon traballanti
e gracchianti, le panche scricchiolanti sotto il peso di pensionati
anchilosati. La mancanza di privacy, non
gli toglieva niente, anzi gli dava quel senso di “ vita normale” che tanto
gli mancava….anche lo schiaffo leggero del costume, sulla pelle bagnata aveva un senso, avrebbe
nuotato un’oretta, si sarebbe asciugato sommariamente, avrebbe ceduto il passo
alle signore dello spogliatoio femminile…ed avrebbe sorriso a due grosse trecce
nere, curve sui gradini…con la
speranza di vedere i suoi occhi dalle
pupille di ebano, una bimba grande…..illuminata dal sole delle cupole di vetro
della vecchia piscina….
Non parlava con nessuno, la ragazzina. Si illuminava solo davanti alla
vetrina del piccolo negozio del biondino, all’angolo.
Da tempo Luciano aveva notato che la ragazza che lavorava in piscina, si
fermava spesso a guardare gli oggetti che erano in mostra nella piccola vetrina
del suo laboratorio, questo gli faceva piacere e lo invogliò a rendere tutto
l’ambiente più curato. Sapeva la sua storia, l‘aveva sentita raccontare al bar
della piscina, questo lo faceva sentire più vicino a lei, si ricordò delle
difficoltà che anche lui aveva avuto con alcuni ragazzi del quartiere quando
all’età di tredici anni si era trasferito in città dal piccolo paese di
montagna; per ferirlo in modo dispregiativo lo chiamavano “il montanaro” e lui
con quanta caparbietà, sofferenza e incertezze aveva faticato a integrarsi,
iniziando a giocare al calcio con il gruppo. Con l’aiuto di Marco e Roberto che
erano diventati suoi amici era riuscito a superare quel brutto periodo, piccandosi
di voler imparare a nuotare, diventando nel nuoto più bravo di alcuni di loro.
Abitava ancora con il nonno che fin da piccolo lo portava con sé nella falegnameria, quando abitavano lassù, in montagna. Quanto gli piaceva vedere come da un semplice pezzo di legno Attilio riusciva a tirar fuori pura magia. Lo stupore che aveva negli occhi faceva sì che il nonno gli insegnasse tutto quello che sapeva.
Luciano cominciò a fabbricare dei piccoli giocattoli, mestoli, piccole
scatole, intagliando sui coperchi dei semplici ornamenti, gli piaceva il legno
lo sentiva una materia viva, l’odore che emanava sempre e che poteva essere
piacevolmente resinoso o di sgradevole
marcescenza.
Quando ancora
piccolo si era trasferito in città aveva scelto come scuola l’istituto
d’arte, settore intarsio e scultura. Il fatto di conoscere i
tipi di legno lo aveva facilitato e lo aveva aiutato a prendere coscienza delle
proprie capacità. Ora aveva il suo piccolo negozio-laboratorio ma capiva le
difficoltà che quella piccola rom doveva affrontare e questo gliela faceva
sentire umanamente più vicina e più simile a lui.
Gli occhi dei due giovani iniziarono a cercarsi, Luciano prese a notare i
lineamenti di lei: quell’ammasso di capelli nerissimi e dai ricci ribelli, la
dolcezza del viso, la profondità dei suoi occhi, e un’espressione tenerissima
le rare volte che sorrideva. Lui aspettava con ansia che lei si fermasse
davanti alla vetrina e quando incrociavano lo sguardo per l’emozione la bocca dello stomaco gli si
stringeva. Una mattina Luciano si fece coraggio e quando lei era davanti alla
vetrina uscì e si presentò, Sara arrossì dall’emozione.
Da quando passava Sofia davanti alla vetrina, il resto del giorno
trascorreva inutile. Poi, arrivava lei.
Una sera lui le fece cenno d’entrare, lei disse no con testa, ma si fermò
seduta sugli scalini della chiesetta all’angolo. Quando lo vide tirare giù Il bando ne, gli si avvicinò e camminò al suo
fianco. Si raccontarono i loro nomi e le età,
poi parlarono della meraviglia di quegli oggetti di legno, Sofia li
chiamava magie. Per molte sere andò così
: prendevano l’autobus, poi camminavano,
camminavano, ridevano, camminavano, mangiavano il gelato. Una sera si trovarono
sotto casa di lui, e le chiese di salire. Le raccontò che viveva con il nonno
che gli aveva insegnato a lavorare il legno, e quanto lo amasse. Fu in quel
preciso istante che le arrivò addosso un macigno. Scosse la testa, rifiutò l’invito di Luciano,
e si allontanò senza girarsi più. E ripensò alla sua, di nonne, che nella
grande famiglia decideva quando si dovessero sposare le nipoti, ed ogni
decisione era un verdetto indiscutibile. La sentenza per lei era arrivata
quando aveva tredici anni. Le avevano trovato un vedovo di quarantacinque anni
che aveva due figli più grandi di lei,
che possedeva le due stanze nelle quali vivevano, in Romania, in campagna. La foto portata dalla nonna mostrava un uomo
con la barba lunga, le guance ciondoloni, grosse borse scure sotto gli occhi,
un sorriso che doveva incoraggiare ed in realtà mostrava un solo dente bianco
in una bocca marcia. Sofia pianse e disse: “Mai, piuttosto mi
ammazzo”, e pianse anche, da allora, tutte le volte che le veniva in
mente. Ed anche tutte le volte che la sua mamma la guardava mormorando:
“Basta abituarsi!”, o che le sue sorelle la chiamavano “la principessa del Galles”. Erano
passati gli anni, ma il macigno era sempre lì,
pronto a schiacciarla.
Fu la vita diversa che aveva toccato, a provocare la frana.
Non sarebbe tornata a casa. Né
quella notte, né mai.
Anche Armando camminava e pensava, quella notte. E ricordava…
Già, lo chiamavano Armando, ma sui
documenti era Concetto Lomanno, e questa era l’unica falsità, Il resto era tutto vero: nato a Roccalumena,
Messina, il 16 maggio del 1968, altezza 1,81, capelli corvini, occhi cobalto.
Forse quel “cobalto” era stata la fantasia dell’impiegata
dell’anagrafe, fulminata da quello sguardo di mare, professione: danzatore….chissà perché
non ballerino….
Schivo, altezzoso, seduttore, era abituato ad avere fama, successo, denaro,
rigido agli affetti ed impotente
all’amore, solcava palcoscenici girando il mondo, schivando affetti, fra un
plié a demì ed un grand plié, riscuoteva applausi e denaro…e si nascondeva
tra i suoi sogni.
Quando alla porta avevano suonato i quaranta, non aveva potuto ignorare la
scampanellata, ed erano arrivati i primi capelli bianchi, qualche chilo, ed un
telefono muto che non annunciava più
tournée. ..ed era cominciata la sua solitudine, la miseria morale e
materiale, un grosso album di velluto avorio aveva sostituito la sbarra, quella
frattura ora si faceva sentire, anche troppo difficile fare gli esercizi con le
articolazioni scricchiolanti.
L’idea gli apparve una notte, quando la fame sostituì Il sonno….Una doccia, la camicia di seta
grigia, i jeans che stringevano nei posti giusti, un buon profumo…e giù per quelle scale: un lampione, un
marciapiede, una macchina di lusso
e e e : “Ciao, QUANTO?”
Fece un po’ di conti Armando, in fretta….sospirò : “Trecento”
E salì verso un mondo squallido e
sommerso….di Concetto non c’era più
nulla, di Armando ancor meno, se non una chioma tinta e due occhi color
mare di Sicilia.
Gli appartamenti una volta erano comunicanti, anzi era un unico ed immenso 12 locali, per raccontarla da agente immobiliare, posto al secondo piano di via DE’ GINORI al 18 e al 20 due ingressi sontuosi, illuminati da luci calde e morbide….il De Caro aveva preso l’ ala più piccola, l’ altra era rimasta tutta sua, nove stanze, una in fila all’ altra, un piccolo treno di lusso dal quale si vedeva Firenze ed oltre, si percepiva il rumore, l’affollamento, in un silenzio totale…
La sua camera era l’ultima, quasi nascosta, una elegantissima boiserie dove il letto capitonnè rosso rubino troneggiava sulla pedana di palissandro alta quasi trenta centimetri…..una piccola dormeuse di seta color sabbia si appoggiava alla parete più piccola…il comodino era un piccolo inginocchiatoio, restaurato ad arte, mutilato nella sua funzione ed illuminato, da una sospensione De Padova, fredda e costosa…..nell’angolo più buio un applique di cristallo, al lato sinistro della tenda di macramè color champagne, un piccolo putto dorato, proveniente dalla collezione Bruschi, Arezzo fu testimone di una lunga ed estenuante contrattazione…che lasciò soddisfatte entrambe le parti.
Al suo bagno si accedeva da una piccola porta intagliata, il marmo di Verona nascondeva l’utile dando risalto all’inutile, un trionfo di cifre ricamate impreziosiva la biancheria di morbido lino, i verdi si sfumavano fino a diventare quasi blu….
La cucina era enorme, un tavolo ovale di noce appoggiato su potenti “mani di ferro battuto” ospitava una perenne apparecchiatura, una unica sedia toné laccata di blu Francia, occupava uno spazio esiguo, in una superfice quasi sprecata, tra vasellame di pregio e preziose pentole di rame….un tutto mai usato….inutile.
Si accedeva al salotto da un’immensa vetrata arlecchino, frutto di impareggiabili maestri veneti, un rincorrersi di tasselli quadrati, di non più di tre, quattro centimetri di lato, imprigionati da cornicette diverse di piombo glassè. I mobili Chippendal, stranamente non toglievano spazio, anzi impreziosivano l’ambiente con sontuosi ghirigori, piccoli cuscini patchwork di seta panna riempivano gli angoli più intimi di stupende poltrone Fraul …
Nel dedalo dei corridoi dalle alte pareti rivestite di moirée cremisi solo un elegante ed ottocentesco orologio a pendolo, scandiva l’agonia del tempo che sembrava annunciarsi sempre più lento e sfacciato.
Chilometri di casa, metri di tessuto, centimetri di quadri, millimetri di vita, nemmeno un fiore, alcune stanze vuote abbandonate a se stesse….in via De Ginori tra il diciotto e il venti nero…….
Eppure Armando era solo, solo in tutta quella casa di Via Ginori.
Tutto questo pensava, ricordava, riassumeva, Armando, quella notte. I conti
non tornavano, e lui non si decideva a lasciar andare quell’oscurità che lo
accoglieva e lo assorbiva. Solo sui ponti, si può pensare, guardando l’acqua
che scorre: pulita e sporca, nello stesso modo e nella stessa direzione.
Quella notte, su un ponte, le ore erano scandite dallo scorrere
dell’acqua. Lo sciacquio ritmico,
ripetuto all’infinito, era ipnotico.
Sofia guardava fissa quel nero. Non sapeva più ne’ dov’era, ne’ da quanto tempo era lì. Fra poco sarebbe stato giorno, di nuovo. Il
freddo prepotente le era entrato nella carne, fin dentro alle ossa. Anche i
suoi pensieri erano diventati lastre di ghiaccio, scivolavano nella mente,
senza grattare, Apparivano e slittavano via, senza stridere, senza fare male.
Lei non sentiva più nulla. Non udì neanche i passi dell’uomo, che
pure le era arrivato alle spalle. Si scosse quando una mano calda si posò sul suo braccio sinistro. Fu uno sguardo
stupito quello che mise a fuoco gli occhi azzurri di un uomo maturo. Lui
parlò subito, lei non ebbe nemmeno il
tempo di impaurirsi. La voce roca pronunciò
parole lente e tranquille, rotonde di un dialetto che sapeva di mare, la
chiamava “bambina”, diceva che era troppo freddo per stare fuori in
una notte così. Non fece domande, mentre
la prese sottobraccio e camminò con lei lasciandosi il fiume alle spalle.
Lei era come volasse, disposta a cadere, ma fiduciosa, sapeva solo di non
provare paura. Lui aveva raccolto un passerotto, l’avrebbe portato al caldo,
sfamato. Era solo questo. Come in un passo a due su un palco dallo sfondo
scuro, camminavano lievi, proiettavano ombre nitide, non c’erano tensioni.
La condusse davanti al portone di Via De’ Ginori, con naturalezza la fece
entrare, cedendole il passo. Accese tante luci, alzò il riscaldamento. Entrò per primo in cucina, si mise ad armeggiare, poi
la chiamò e le offrì una tazza di latte
caldo. Lei bevve un sorso bollente, e il ghiaccio si sciolse, di colpo. E
cominciò a parlare, non servirono
domande. Raccontò della sua difficile
famiglia, disse che vivacchiavano di elemosine e furtarelli, che avrebbero
voluto questo anche da lei. Raccontò che
puliva in piscina, per l’atto di carità
di una persona buona, ma che le faceva male vedere ragazzi come lei che
sguazzavano, si divertivano spensierati, lei poteva solo guardare, non era vita
per lei. E parlò, parlò, parlò,
con voce calma e chiara, come non avrebbe pensato di saper fare. Disse
anche di Luciano, di aver incrociato gli occhi buoni di quel ragazzo capace di
costruire gli oggetti che lei sognava e basta. Di essersi fermata ogni giorno
davanti a quella vetrina. Di averlo seguito. Di pensare solo a lui, e di aver scoperto
che anche lui diventava rosso come lei, quando i loro sguardi si incrociavano.
L’uomo dagli occhi azzurri la lasciò parlare, senza i nterromperla mai.
Quando lei arrestò quel fiume di parole, con un inconsueto mezzo inchino, le
disse di chiamarsi Armando, di aver vissuto una vita movimentata da balli,
donne, sigarette ed alcool, e di essere solo. Solo.
Questo successe nella notte che cambiò
la loro vita.
Saranno tre anni, mercoledì.
Adesso Sofia è maggiorenne. Si
sposerà, mercoledì. Con Luciano.
Tre anni fa Armando chiese il suo affidamento, la famiglia di Sofia fu felice di dare il
consenso, naturalmente a pagamento. Lei,
Armando lo chiama babbo, lui la chiama bambina. Luciano ha cenato con loro ogni
giovedì ed ogni sabato. Dopocena, il
giovedì giocavano a Monopoli, o a
briscola, tutti e tre. Il sabato andavano al cinema. Nella Camera di Sofia
è arrivato un letto a due piazze.
Saranno in tre, da mercoledì,
nell’appartamento di Via De’ Ginori.
“LE RAGAZZE DI FIRENZE” – Di Elisabetta Brunelleschi, Sandra Conticini, Anna Meli, M.Laura Tripodi
Da qualche anno
l’alluvione aveva lasciato ferite aperte su Firenze che vedeva monumenti,
capolavori e libri danneggiati, insieme a negozi mai più riaperti.
Sul ponte alla Carraia
alle otto, quel mattino, Fiorenza camminava veloce perché voleva fermarsi al bar per la
colazione. Spesso lì incontrava i compagni di scuola e Mario, il barista, che
con la sua velocità nel servire, sbalordiva le ragazze facendo il giocoliere
con piattini, tazzine, bicchieri e, spesso nel frastuono, oltre al tintinnare
delle stoviglie si sentiva anche il rumore dei cocci. In questo ambiente così
movimentato gli occhi spenti di Fiorenza si ravvivavano specialmente quando la
musica del Juke Box, con le canzoni dei
Beatles e dei Rolling Stones, le metteva addosso il ritmo e la voglia di
ballare.
Deve andare a scuola, ma
tutte le mattine è un grosso sacrificio entrare in quell’edificio così buio e
triste, con professori ormai antiquati, materie che non le piacciono, ma deve
raggiungere il suo scopo a denti stretti, arrivando ad ottenere quel pezzo di
carta per poter accedere ad un posto sicuro.
Aspetta a gloria la
domenica pomeriggio per andare in quella sala da ballo sull’Arno dove la musica
e il ballo la inebriano dandole una vitalità infinita, facendola diventare
leggera e armoniosa. Qui ha conosciuto anche diverse persone, ma con due
ragazze Laura e Ginevra, un po’ più grandi di lei, si trova molto bene e, anche
se sono tutte e tre diverse, stanno volentieri insieme.
Laura è una bella ragazza
di 21 anni alta, pelle olivastra, bruna con i capelli morbidamente ricci e
occhi verdi, un po’ cicciottella, ma pazienza, d’altronde è una bongustaia!!!
Veste quasi sempre
sportiva, ha molti amici ed un ragazzo con il quale va in moto, ma la domenica
in estate la lascia andare a ballare, tanto sul loro amore non ci sono nuvole!
Studia giurisprudenza, le
piace molto, dà più esami possibili per laurearsi e poter vedere avverati i
suoi sogni. Quando ha un po’ di tempo libero le piace camminare nei boschi per
riposare la mente infastidita dai rumori della città e scrive qualche poesia.
La discoteca però le mette addosso il brio e l’adrenalina, che le servono per
riuscire a studiare meglio e più in fretta.
Fiorenza e Laura hanno
conosciuto Ginevra per caso, fuori dal rumore assordante della sala da ballo,
le hanno chiesto l’ora e poi si sono messe a parlare forse di cose futili, ma è
così che è sbocciata la loro amicizia, che ormai dura da un po’ più di due
anni.
Ginevra è una ragazza alta
e sbarazzina, con i capelli lunghi e ricciolosi, ogni tanto azzarda a
lisciarseli, ma sono troppo ribelli, quindi spesso rinuncia. Ha due occhi
marroni scuri quasi neri e pungenti come due capocchie di spillo, una bocca a
cuore che sembra dipinta da un pittore, specialmente quando si mette un po’ di
rossetto. Le mani sono lunghe, magre, sempre ben curate con smalto molto
fantasioso. Veste sportiva, ma non esce senza orecchini, spesso vistosi e
colorati e ama portare braccialetti, orologi, anelli, quasi mai collane.
Ha conseguito il diploma
al liceo classico con un buon risultato e ha iniziato l’Università ma, la sua
voglia di indipendenza e il suo senso di responsabilità, l’hanno fatta smettere
e andare a fare la cameriera in un albergo a 5 stelle in Austria. Qui i ritmi
erano serrati e stressanti, le mancavano la famiglia e gli amici, quindi ha
deciso di tornare nella sua amata Firenze dove lavora in ristorante molto
conosciuto. Il suo sogno nel cassetto sarebbe quello di diventare un’attrice
famosa, ma è consapevole che non sia facile.
Spesso la domenica sera,
dopo aver ballato, le tre amiche mangiano insieme e vanno a casa di Ginevra che abita lì vicino, nella casa
della nonna costruita negli anni 30. La strada dove si trova è molto
silenziosa, ogni tanto passano qualche macchina e pochi motorini. Solo nel
giugno del ’69 in occasione della vittoria dello scudetto della Fiorentina in
questa strada, che ancora oggi sembra dimenticata da tutti, si formò un grosso
ingorgo, fu invasa da FIAT 500, giardinette, multiple con lo strombazzare dei
clacson, trombette, cori, persone a piedi e tutto era di un unico colore viola.
Per la sua famiglia quella
casa è molto importante, perché è stata costruita dal babbo e dal fratello della
nonna… pietra su pietra.
Nonostante la casa sia
ormai vecchia, lei riesce a sentire l’odore del sacrificio, perché in quegli
anni costruire una casa di tre piani era un lavoro molto duro, e anche l’odore
della paura di aver vissuto gli anni della guerra fa venire ancora la pelle
d’oca. Praticamente la famiglia della nonna viveva nel sottosuolo con le
finestre tappate dai sacchi di sabbia e ogni volta che veniva sganciata qualche
bomba dagli aerei, sembrava che la casa fosse stata abbattuta e invece anche quella
volta, per fortuna, erano tutti sopravvissuti. C’è anche l’odore del fango,
della nafta e il dispiacere di aver perso tutto quando a Firenze venne
l’alluvione, ma per fortuna c’è anche l’odore della gioventù, della
spensieratezza e dell’amore e anche l’odore e le grida dei bambini. Perché è li
che la nonna e sua sorella abitarono dopo il matrimonio.
Per Laura e Fiorenza, che
abitano in case moderne, quella casa ha un fascino perciò quando sanno che
Ginevra è libera dal lavoro, vanno a trovarla e, insieme a un po’ di musica,
organizzano qualche escursione, da fare insieme.
Laura spesso propone di
andare nella vecchia casa colonica di famiglia verso San Miniato al Tedesco.
Quando da piccola arrivava a quella casa, a metà della salita, le sembrava la
casa di Biancaneve con quelle finestrine e quelle tendine bianche di trinato e
i ciclamini rosa che facevano da padroni con il loro delicato ma deciso colore
e profumo. Appena arrivati i ragazzi si mettevano a correre, saltare e giocare
sull’aia fatta di pietre sconnesse, inframezzate da un’erba sempre verde. Sotto
il caratteristico loggiato c’era il portoncino che immetteva in un corridoio
sul quale si aprivano un salottino e le camere, tutto era pavimentato in cotto
e arredato con mobili di massello scuri e severi. In fondo una grande cucina
accogliente e luminosa, con un bel camino dal quale penzolava una catena
affumicata con un nero paiolo che ricordava tutte le varie feste e ricorrenze
trascorse intorno a quel tavolo vecchio e pieno di segni. C’era ancora la
vecchia madia per il pane, rassicurante, gli armadini bianchi e diverse sedie
impagliate. Dalla porta finestra della cucina si usciva su uno spiazzo e
scendendo tre scalini sulla destra c’era la cantina, dove si poteva trovare di
tutto, ma soprattutto l’occorrente per fare il vinello leggero per tutta la
famiglia
Da lì si poteva ammirare
un bel panorama: San Miniato Basso con le sue case piccole e ammucchiate, il
verde della campagna e i terreni coltivati, i comignoli fumanti, ma si
sentivano anche il canto degli uccelli, l’abbaiare di un cane in lontananza, il
trattore che trainava l’aratro, qualche voce nel vento e il fruscio del salice
piangente vicino al fosso.
Una mattina Laura,
Fiorenza e Ginevra erano nel bar perse davanti agli equilibrismi di Mario, a un
tratto, si guardarono e quasi all’unisono esclamarono: -Domenica a San
Miniato!-
Dopo una risata, si
accordano per gli orari e i mezzi. Sarebbero partite alle nove. Laura metteva a
disposizione la propria Cinquecento. A San Miniato c’era una sagra e nel
pomeriggio, nella piazza si ballava!!
Parcheggiano vicino alle
antiche mura e imboccano il viale che dopo pochi metri si immette nell’ampio
spazio occupato per l’occasione da bancarelle, tavoli e un palco dove già erano
disposti gli strumenti del complesso che avrebbe animato le danze. Un
arcobaleno di colori abbellisce le pareti degli edifici: a ognuno corrisponde
un rione.
Dalle finestre dei severi
palazzi seicenteschi sventolano le bandiere rosso-bianche del Leoncini di
Sotto, sulle facciate delle case medioevali ci sono i lunghi striscioni verdi e
gialli dei Santi di Sopra; mentre i lunghi caseggiati ottocenteschi mostrano i
drappi turchini dei Fontanari.
Sono appena le undici del
mattino e la piazza già pullula di gente pronta per i primi posti agli stand
gastronomici dai quali già si diffondono aromi di ragù e arrosti.
Le ragazze si guardano
attorno stupite e contente poi camminano verso la fontana, vogliono immergere
le mani nell’acqua delle vasche perché,
racconta Laura, bagnarsi le palme delle mani prima di mezzogiorno porta
speranze d’amore.
Il gorgoglio delle acque
per un attimo annulla il vocio della folla, le ragazze si avvicina no,
appoggiano la palme delle mani sulla superficie del trasparente liquido e, in
segreto, pensano a qualcuno. Restano immobili anche quando il vento porta sui
loro volti gli spruzzi che dai delfini scendeno nelle vasche. Finalmente
tolgono le mani dall’acqua.
Fiorenza intanto osserva
le formelle murate tutto intorno alle vasche ci sono stemmi, fiori, teste di
leoni, cavalli e poi:
-No! guardate cosa c’è
scritto!- Su una formella è raffigurata una lingua stretta da una tenaglia
sormontata dall’iscrizione:”no male-dicere”.
Ah, lingue pettegole! E si
divertono a immaginare le donne di San Miniato intente a attingere acqua e
notizie piccanti riguardanti amori, tradimenti, inganni e poi chissà quanti
incontri furtivi, sguardi nascosti.
Ginevra alza lo sguardo
verso la palazzina a tre piani che occupa il lato più stretto della piazza: da
una delle finestre si affaccia una signora di mezza età.
Anche le amiche si voltano
dalla stessa parte, Laura la riconosce immediatamente.
Quella donna è Giulietta,
non il diminutivo di Giulia, lei si chiama proprio così, ed è l’ultima erede di
una vecchia famiglia di San Miniato, vive sola in quella grande casa, che al
suo interno nasconde arredi antichi e uno splendido giardino.
Si avvicinano parlottando
e giunte al portone si trovano davanti Giulietta, è lì ferma come stesse
aspettandole. Le saluta con un vivace buongiorno e le invita a visitare il
giardino:
-Oggi è giorno di festa e
io apro il cancello, venite!-
Pochi passi e le ragazze
entrano in un’oasi di verde, dove i rumori sono cancellati e alle orecchie
giungono solo fruscii di rami e lievi frulli d’ali d’uccelli che fuggono al
loro avvicinarsi.
Piante dalle chiome
maestose coprono le loro teste e intricate siepi d’alloro e di bosso nascondono
tavolini, sedili in pietra e, in fondo, quasi addossata al muro di cinta, una
vasca rotonda con un putto di terracotta.
. Giulietta spiega:
– Vedete, questo è l’unico
giardino superstite dei tanti che c’erano a San Miniato.-
Le ragazze sono
affascinate, si sentono catapultate in un altro mondo, in un’altra epoca!
-Voi siete la gioventù,
dovete imparare a amare quello che sta intorno a voi, per proteggerlo!-
Giulietta in paese non ha
molti amici, vive un po’ appartata, ma tutti sanno chi è. Ogni mattina se ne
esce, sempre elegante con quel suo stile all’inglese e va verso la banca dove
lavora come cassiera. Un impiego che non le piace e quel suo modo di camminare
dritta, con lo sguardo fisso che, secondo alcuni, le dà un che di altezzoso, le
permette, in verità, di non pensare al disagio di quei giorni uguali tra conti,
bonifici, distinte, …
È felice quando può
ritirarsi nelle sue stanze e immergersi nell’ascolto di Mozart. Adora il fluire
leggero delle sue note che alla fine però la costringono a sentire il senso più
profondo della vita.
Infatti dalle stanze della
casa giunge l’eco di una musica, starna e sconosciuta alle orecchie delle tre
giovani amiche.
Giulietta capisce che si
sono accorte di quei suoni e domanda:
-Non conoscete Figaro…-
– Chi il gatto di
Geppetto?- Le ragazze ricordano il cartone di Disney.
Giulietta sorride e le fa
avvicinare alla porta-finestra del salone, un canto melodioso parla di un
cappello da guardare e ammirare, fatto da una certa Susanna.
Le tre amiche ascoltano e
poi quasi all’unisono esclamano:
-Ma che cos’è?-
-Un’opera di Mozart,
racconta di un matrimonio, ma voi, lo so, apprezzate altra musica, siete venute
per ballare.-
Era proprio così, in
piazza, sul far del tramonto iniziava il concerto e le ragazze si sarebbero
scatenate .
Giulietta si fa prendere
dai ricordi. Amava andare a ballare, ma ora,
con il passare degli anni, si era appesantita, si sentiva un cassettone
e in mezzo alla piazza non ci si vedeva… ma era proprio vero?Qualcosa si
stava risvegliando in lei.
Un attimo di silenzio, il
fragore degli strumenti invade il giardino e supera la melodia del duetto
mozartiano. Le ragazze, calamitate dai suoni, salutano gioiosamente Giulietta e
si avviano verso la piazza.
Qui tanti ragazzi già si
stanno muovendo a ritmo della musica.
Nessuno si è accorto che
il cielo sta diventando scuro… improvvisamente larghe e pesanti gocce cadono
qua e là bagnando persone e cose: odore di polvere… fuggi fuggi
generale…
Fiorenza, Laura e Ginevra
si scambiano uno sguardo complice e corrono verso la casa di Giulietta. Il
portone è accostato. Entrano rumorosamente. Fatti pochi passi si arrestano,
qualcosa di strano sta accadendo.
Nella casa non
riecheggiano le armonie di Mozart, ma il ritmo scatenato dei Pink Floyd e
Giulietta a piedi nudi si dimena come una teen-ager nella sala da ballo.
Mary Jo era eccitata mentre si stava guardando allo specchio.
Sensazione nuova per lei che non era abituata a quelle situazioni.Con Jumpy Jim quella sera sarebbe andata al Blue Night. Da un po’ si vedeva poco in tiro e decise di darsi una gonfiatina prima di uscire.
Sentì un grande sferraglio là fuori e immaginò che Jumpy fosse arrivato. Era a bordo di un bolide con 6 ruote tanto alto che le fu difficile salirvi con le sue gambette. Dovette darsi un po’ di slancio e dopo un salto o due riuscì a prender la mira e ad atterrare sul sedile del passeggero.
Rimase abbagliata dal luccichio accecante che emanava Jumpy. Lui sì che era in tiro. Alto, snodato, lineamenti decisi e scolpiti nel metallo.
Uno splendore di ragazzo: ops di robot, si disse Mary Jo. Diverso da quelli teneri come il burro e soffici come un bombolone ripieno di gomma piuma in mezzo ai quali era stata.
Mary e Jumpy erano figli di una strana epoca in cui, dopo la grande glaciazione, i pochi umani rimasti non riuscivano più a comunicare fra loro parlandosi direttamente e avevano perso man mano anche l’abitudine a sfiorarsi, toccarsi, abbracciarsi. I sentimenti man mano si erano inariditi, i cuori non battevano più per amore e i rapporti fra maschi e femmine si erano fatti più impersonali.
Mary e Jumpy non avevano una mamma e un papà, nascevano assemblati da una catena di montaggio. Per bambole gonfiabili, lei, per robot lui.
Mary era programmata su ruoli precisi, quelli che alcuni uomini avevano sempre attribuito alle femmine. Oggetti di piacere, senza sentimentalismi. Così per fare, quando si pensava di aver voglia e senza complicazioni.
Almeno Jumpy Jim era stato programmato anche per altro. Lavare le macchine, tener pulito e curare un giardino, tuttofare per la casa. Sapeva riparare di tutto e cucinava pure, visto che una delle sue schede conteneva tutte le puntate dei Menù di Benedetta, prelibatezze comprese.
Una sera Mary Jo e Jumpy Jim si ritrovarono sullo stesso furgone, direzione non si sa dove.
Fraternizzarono subito e si misero a fare conversazione .
La voce di Mary era dolce e vellutata. Non poteva essere altrimenti
nascendo dalla massa gommosa e morbidissima da cui era composta.
Quella di Jumpy era tagliente come il metallo che lo avvolgeva tutto. Parlava a scatti perché, per un piccolo difetto di fabbricazione, ogni tanto i circuiti della parola si bloccavano.
Si scoprirono diversissimi e fu una bella scoperta dopo la monotonia del magazzino nel quale erano stati stipati in mezzo a migliaia di cloni di se stessi. Si piacquero, senza sapere perché.
Il furgone li depositò in via delle Camelie. Mary a casa di un grasso e
brutto individuo di nome Red Light che abitava con una madre anziana e
ossessiva.
Jumpy Jim, nella casa vicina, che apparteneva alla famiglia Goblin.
Mary Jo era triste per le cose che la costringeva a fare il signor coso. Aveva sperato che l’avessero scelta per la sua scheda di pregiatissima e fidatissima governante per vecchie signore in difficoltà e invece si ritrovò a dover svolgere il compito al quale teneva di meno. Quello di bambola squillo con big data derivanti da testi sconci e pornografia di basso livello per uomini con turbe sessuali al limite del maniaco e così avari di sentimenti da esser rinsecchiti fino all’impotenza.
A Jumpy le cose andavano meglio. Aveva tanto da fare per rassettare la casa e tenere in ordine il giardino e la piscina. La padrona di casa spesso era fuori per lavoro, quindi le sue prestazioni aggiuntive di robot oggetto si limitavano a una, due volte al mese. Spesso doveva dedicarsi ai bambini, cosa che lo faceva divertire molto.
Si tenevano aggiornati l’una dell’altro quando capitava che si trovassero in giardino. Jumpy vedeva che Mary era triste e ogni giorno più sciupata. Quelle belle curve che aveva notato sul furgone stavano diventando flosce, il colore tendeva allo sbiadito e al palliduccio. Doveva far qualcosa.
Per questo l’aveva invitata al Blue Night. Voleva strapparla dalle grinfie di quel panzone almeno per una sera. Si sentì felice quando la vide salire sul suo bolide: si era truccata ed era allegra.
Praticando gli umani, man mano, avevano imparato e ridere e a piangere, a provare paura e ansia, rabbia e rancore e a avere qualche vaga idea di cosa volessero dire felicità e infelicità.
Sedendo accanto e guardandosi Mary Jo e Jumpy Jim tornarono col pensiero a quel viaggio durante il quale si erano trovati vicini per la prima volta. Si scoprirono diversissimi, ma l’attrazione fra loro era ancora forte come quel primo giorno. Mary quasi cinguettava, mentre Jumpy ogni tanto faceva scintille e qualche sfrigolio per colpa di alcuni fusibili eccessivamente sotto pressione. Si rifugiarono in un posto tranquillo per stare un po’ da soli. Si amarono appassionatamente cercando ispirazione in quelle immagini in bianco e nero che talora vedevano passare in quella scatola rettangolare che i loro padroni chiamavano televisione.
Mary, che di solito era fredda e distaccata e rispondeva solo a comando si sentì coinvolta da questo ragazzone strano con la sua andatura e i suoi gesti un po’ a scatti. Aveva lunghe dita snodate che quando la afferravano alla vita le davano brividi di piacere e le facevano dimenticare il panzone, quella grande arpia di sua mamma e l’armadio pulcioso dove la riponevano la mattina dopo l’uso notturno. Jumpy non aveva idea che un corpo potesse essere così morbido, vellutato, soffice, tenero e accogliente come quello di Mary.
Non voleva più lasciarla.Tanto meno voleva rimetterla nelle mani di quel rozzo e trasandato uomo con quei pantaloni zozzi, quella canottiera tutta grigia, macchiata di sugo e scucita e in balia di quella vecchia cattiva e sdentata che non aveva un briciolo di sentimenti per nessuno.
Convinse la signora Goblin che si sentiva solo e che aveva bisogno di una
compagna. Le disse che lì accanto viveva Mary Jo per la quale aveva cominciato
a provare sensazioni che non aveva mai provato prima.
Lo aveva aiutato quel periodo di frequentazione con gli umani e la vita che scorreva in famiglia. Per qualche motivo il programmatore che aveva lavorato su di lui e Mary aveva deciso di inserire, insieme alle altre, una scheda dei sentimenti e quella piano piano aveva iniziato a funzionare .
Lasciare Mary prigioniera di quella famiglia rozza, grezza e arida di sentimenti lo faceva soffrire. Voleva sposarla. Sarebbe stata una brava collaboratrice per la famiglia, visto che era stata programmata anche come governante e educatrice per i bambini.
La signora Goblin si convinse presto, tanto più che nelle sue lunghe assenze era costretta ad affidarsi a governanti per i bambini con cui non sempre si era trovata bene. Avere Mary in casa insieme a Jumpy, pensò, avrebbe risolto molti problemi.
Si sentì un po’ impacciata e fuori luogo quando suonò alla porta dei vicini
per chiedere la mano di Mary per conto di Jumpy.
Con grande sorpresa di tutti il signor Red Light non oppose alcun rifiuto, anzi fece in modo che la sera stessa Mary si trasferisse dai Goblin.
Non fu perché si era intenerito pensando ai sentimenti che erano in gioco.
Si era semplicemente stancato di Mary e dei suoi giochetti e aveva ordinato una
sua sostituta programmata per cose molto più hard e senza i freni inibitori che
ogni tanto si attivavano nei circuiti di Mary.
Mary e Jumpy si sposarono di lì a una settimana.
Lei aveva rimesso a posto tutte le sue curve e le sue rotondità. Lui era passato da un meccanico per farsi oliare bene le giunture. Aveva fatto anche un passo al laboratorio per vedere se si poteva far qualcosa per correggere quel suo parlare a scatti, ma non ci fu verso. Il circuito era malfatto e non si poteva riparare senza compromettere il resto.
Il suo “Si, lovoglio!” Fu detto con una lunga pausa in mezzo, ma Mary non se ne preoccupò perché conosceva quel difetto, e attese anche il resto senza patemi.
Era raggiante. Labbra a cuore su cui la signora Goblin aveva messo un bel rossetto scarlatto. Aveva scelto un abitino semplice ma elegante che le copriva le gambette che la costringevano a procedere a saltelli come una ballerina classica e accentuavano la flessuosità delle sue forme procaci.
Fu bellissima la prima notte. Mary non dovette attingere alla sua scheda hot e poté finalmente essere se stessa dandosi con passione a Jumpy e perdendosi fra le sue mani e braccia d’acciaio.
Rimase stupita per ciò che il programmatore birichino si era inventato per le parti più segrete del suo Jumpy e che furono una piacevole scoperta dopo il flaccidume privo di vita del signor Red Light, probabilmente castrato da quella madre possessiva e priva di cuore.
La targhetta che rimandava al modello ispiratore recava la scritta “ Rocco Siffredi”. Un nome che a Mary non diceva nulla e tuttavia lei si scoprì ogni volta a ringraziarlo senza farsi sentire da Jumpy che in fondo era solo un clone ben fatto, per non offendere il suo amor proprio di robot maschio possente.
Andarono a vivere vicino al garage dei Goblin in una dependance costruita apposta per loro. Avevano tutto ciò che serviva. La privacy, l’olio per le giunture di Jumpy, gli attrezzi per le piccole riparazioni, la pompa a pressione per riempire le forme rotondeggianti di Mary ogni volta che perdevano smalto.
Le canticchiava felice, lui la guardava rapito e un po’ a scatti le parlava d’amore e di sentimenti. Per fortuna, diceva, i programmatori non erano stati insensibili e si erano inventati il modo di far emergere con il tempo anche in loro sensazioni e sentimenti.
Quell’ammasso di metallo e quella tonda e soffice bambolina, per quanto strani fossero a vedersi, riuscirono a vivere insieme felici per molti anni.
Almeno fino a che, in mezzo alle giunture di Jumpy, la ruggine prese il sopravvento e nessun tipo di olio fu in grado di lubrificarle. Si bloccò pian piano e un brutto giorno Mary lo trovò immoto e inerte.
Lo seppellirono in giardino. Mary volle piantare sulla sua tomba un letto di rose rosse, ricordo dei loro giorni appassionati. Si scoprì devastata da un dolore profondo. Non resse che poco tempo senza il suo Jumpy.
Si lasciò morire un giorno di estate lanciandosi in mezzo alle rose. Mentre sentiva le spine che bucavano senza pietà il suo involucro di bambola gonfiabile e sibili dell’aria che usciva pian piano, riuscì ad aspirare per un ultima volta il profumo intenso delle rose che le riportava un po’ anche del profumo del suo amato Jumpy.
La trovarono la mattina dopo piatta, prosciugata e priva di forme stesa sulla tomba a braccia allargate, quasi a volerlo stringere tutto in un ultimo, tenero e appassionato abbraccio.
L’avvertimento di una chiromante divenne premonizione. Un pazzo per un nonnulla mi farà affogare nella fontana intitolata a Lollobrigida. Che dannazione! Sognai pure male. Vidi l’attendente di un ammiraglio appioppare un ceffone ad un birboncello che aveva fatto ammarare il suo idrovolante vicino alla portaerei.
Dandoglielo aveva perso l’equilibrio e si era incastrato e arroccato su uno scoglio da dove urlava :”Ora ti affogo, bischero!”
Gioco di parole – di Sandra Conticini
Lo avevano appioppato agli zii avvertendoli che era birboncello, ed era la dannazione dei genitori. Quei pazzi volevano andare a vedere la Lollobrigida, ma stavano arroccati su un pietrone rischiando, con un nonnulla, di affogare portandosi dietro anche l’attendente che stava ammarando con il suo deltaplano.
Gioco di parole – di Rossella Gallori
Che io non fossi la Lollobrigida, era evidente, solo un pazzo poteva ammarare su di me con quel pallido bouquet.
Lui arroccato nel suo appioppare fregature, trasformando un nonnulla in grandi eventi.
Subivo il suo perfido fascino, come una dannazione, un avvertimento grigio….
Per non affogare, lo immaginai come un vecchio cane pulcioso, accudito da un attendente, birboncello e menefreghista…..
Gioco di parole – di Anna Meli
Dannazione! Dovevo proprio essere nominato attendente della Lollobrigida! Quella pazza, quando l’avevo avvertita di non tuffarsi perché correva il rischio di affogare, mi aveva detto:
– Bricconcello!!!
E ora se ne stava là ammarata, saldamente arroccata sulla boa credendo che ci sarebbe voluto un nonnulla per andare a riprenderla! Se avessi potuto le avrei appioppato una bella pacca sul sedere!
Gioco di parole – di Franco Bellio
“Dannazione!” esclamò l’attendente dell’ammiraglio Lollobrigida imprecando contro quel pazzo superiore che, arroccato sui ferrei principi militareschi, per un nonnulla gli aveva appioppato una severa punizione senza degnarlo nemmeno di un piccolo avvertimento. Tuttavia, da birboncello quale era, sfogò bonariamente la sua fantasia vendicativa augurandosi di vederlo prima ammarare , quindi inabissarsi con la nave durante le esercitazioni e quindi affogare.
Gioco di parole – di Elisabetta Brunelleschi
Birboncello che te ne stai arroccato su codesto pazzo desiderio; senti il mio avvertimento e, alla fine, la tua dannazione si affogherà in un nonnulla.Oppure vuoi ammarare come un oscuro attendente?Non lasciarti appioppare una vecchia e grinzosa Lollobrigida, vai avanti e posati su una vezzosa e giovane ragazza Lollo.
Gioco di parole – di Stefania Bonanni
Ultimo avvertimento : il pazzo che ci insegue, per un nonnulla, può costringerci ad affogare. In questo momento è arroccato sullo scoglio davanti alla duna, ma sta sparando, e ci impedisce di ammarare. Lollobrigida…Lollobrigida… Non era il nome in codice? Ah, birboncello, allora? Neanche! Attendente, la prego, cerchi di capire lo stesso. Dannazione, ci faccia appioppare una scorta qualsiasi…
Gioco di parole – di Mimma Caravaggi
L’avvertimento di quel pazzo attendente, era un nonnulla rispetto al birboncello arroccato sull’albero che cercando di ammarare insieme alla Lollobrigidaappioppandole una mazzata in testa, proprio mentre lei diceva “dannazione” e lo colpiva a sua volta con un pugno sul naso mandandolo con la testa sott’acqua con il rischio di affogare.
Quando la memoria si offusca, quando il corpo non ti appartiene più, quando la parola non esce, quando la pace arriva sempre più veloce, quando anche il bambino che è in te prende altre strade, quando il mare di pensieri ti avvolge come schiuma di un onda che arriva e già si ritrae, quando questo e altro accade troppo spesso per poterlo controllare e contare, quando tutto dipende dall’umore della luna che si assopisce nel suo biancore, allora puoi sentirne il rumore e percepirne la grandezza: ti indica la strada che dovrai percorrere. Hai una scelta, puoi annientare la tua memoria al giudizio degli altri nel non voler più ricordare, e lasciarti alle spalle tutto il bello e tutto il male, affondare le tue mani scarne nell’oblio di un non ricordo cercato, desiderato e voluto, lasciando agli altri le parole per definirlo. Oppure trattenere con forza ogni pensiero, ogni attimo di passato e di presente e non voler più dire. La tua rivincita, la tua salvezza senza parole dette, solo pensate, trattenute sulle labbra tremanti che forse ora vorrebbero ma non possono più. Quale forma ha scelto per te la vita? E quale vita ti ha imposto oggi questa forma? Come vorrei aiutarti ad andartene, quando mi implori senza dire nulla, con i tuoi occhi fissi su di me a cercare conoscenza e complicità, a volte abbozzando un sorriso che sorriso non è! “Sarei malefica” Sei così leggera e rigida nel tuo stare, la testa inclinata da una parte, la bocca socchiusa e gli occhi vuoti ora fissi nel nulla, ora chiusi. Il tuo corpo ostinato, le lunghe dita strette intorno al bracciolo, le gambe contratte in una seduta non tua. Nessun sussulto, un accenno lieve di respiro mi dice che ci sei ancora. Ad occhi chiusi pensi alle camminate per andare in Fontesanta a trovare il tuo fidanzato, pensi all’amore che avete sparso a piene mani anche su chi vi voleva male, a quando siamo nate noi, alla casa nuova, alle promesse, al futuro che ancora ti aspettava, al dolore della perdita e alla rinascita col primo nipote e alla bellezza nella vita degli altri due. A 55 anni è arrivato il tempo dello studio, ti sei rimessa in gioco: letture convegni, incontri, studi molto difficili per la tua 5°elementare, senza più il babbo a decodificare per te, ma la tua caparbietà, che solo una donna del tuo tempo a cui era stato negato tutto, poteva avere, ti ha concesso di conquistare ciò che io ho avuto senza lotta e senza sforzo. Poi i balli, le feste, gli incontri con la pittura, la medicina, la psicologia, l’opera, il teatro, la gioia di riprendersi la vita, non più a morsi ma con la saggezza degli anni, e a tutti regalarvi parole e pillole di bontà, di comprensione, con leggerezza, sempre avanti nei pensieri. Solo con me il rapporto è sempre stato conflittuale. Oggi sono qui a guardare quel che rimane di una donna splendida che come nessuna ha amato la vita, ora sfinita nel corpo e nella parola assente. Ora vorrei tanto sentire la tua voce, e mi direbbe: “abbi cura di te, non buttarti via, stai attenta che a volte la luna ti può fregare”
Dopo un fine settimana trascorso tra poltrona divano e letto, per i postumi di uno scambio di opinioni con il mio dentista, e vince sempre lui, son tornato a camminare ancora un po’ dolorante. Scopri che facendo pochi passi ti trovi in un mondo altro, un mondo con tanto passato che conserva nonostante tutto. Neanche un chilometro e le strade prendono tutto un altro aspetto; colore più morbido, erba ai margini, odori che cambiano al cambiare del tempo e della stagione. E poi silenzio. Su un pianoro si allarga il Boschetto di’ Cerreto, l’abbiamo attraversato, tra alti quercioli e un tappeto morbido di foglie. Ciuffi di pungitopi, con ancora qualche residua bacca rossa, mi ha riportato alla mente quando il babbo ne portava un mazzo nel periodo delle feste di Natale. Ai bordi del viottolo rami di alberi pian piano si disfanno a nutrire il suolo. Quand’ero ragazzo mi ricordo che la Ginetta di’ Guardia tornava sempre, estate e inverno, dalle sue giratine con una fascina di rami secchi, durante la brutta stagione riscaldava, bruciandoli nel camino, quelle due povere stanze che la fattoria le aveva concesso. All’incrocio di alcuni viottoli ci siamo fermati in uno slargo tra la macchia; il ritmico instancabile martellare del picchio verde rompeva il silenzio. Di nuovo strada bianca fino alla Casina dell’Acqua. Un monolite in mezzo a campi di olivi. Un’opera, mi dicono, voluta dall’ultimo Medici, quel Gian Gastone che pensò di portare l’acqua da Fonte Santa fino alla villa di Lappeggi. Questo enorme parallelepipedo con grandi vasche di decantazione le cui mura perimetrali sono rinforzate da tiranti di ferro probabilmente per metterlo in sicurezza dopo il terremoto del 18 maggio 1895 che colpì, devastando la zona delle colline sopra Antella e Grassina. Rientro a casa per un tè fumante.