Scricchiolare di idee

Sintonia mancante – di Elisabetta Brunelleschi

Scricchiola, gracchia, sfrigola e non parte.

La mano gira e rigira la manopola, ma dalla tela marroncina escono solo brontolii. Oggi la radio non vuole funzionare, saranno le valvole ossidate oppure umide?

La radio dei tempi passati: un grande  scatolone in legno chiaro, appoggiato su una mensola, davanti aveva una tela marroncina, una barra di vetro con tanti numeri e l’asticella rossa che indicava le stazioni. Ai lati campeggiavano due manopole bianche e nere, una per il volume e l’altra per la ricerca della stazione desiderata.

Stasera la mano gira e rigira la manopola, si ferma ogni tanto pensando di aver trovato la stazione giusta. Invece no! Si sentono solo fruscii e brontolii.  Non c’è sintonia. Forse dobbiamo fermarci, aspettare e guardarsi intorno.

Prima c’è stato il buio, poi la luce accecante e il silenzio. Qualche lieve rumore di tazze che sbattono e poi ancora il silenzio.

Dove andare per trovare la stazione giusta?

Sarà certamente nelle parole che si possono scrivere, leggere e ascoltare.

E allora con fatica la mano gira e rigira troverà la sua giusta stazione.

Pelle di palloncino

ARCOBALENO FRA LE DITA – di Laura Galgani

Lo rigirava sotto i polpastrelli con grande incertezza. Era la prima volta che faceva esperienza di quella superficie liscia, omogenea, né fredda né calda. Non sapeva quanto fosse resistente quello strano materiale, e dosava la forza con cui lo stringeva, per paura di romperlo.

Nessuno gli aveva spiegato alcunché; mani solerti gliel’avevano porto senza parole, poggiandolo delicatamente sul suo grembo, come fosse una nuvola, una nuvola strana però, su cui poteva poggiare le mani. 

Lo fece ruzzolare più volte su e giù fra le gambe e il torace, aspettandosi che succedesse qualcosa, ma non accadeva niente. Provava curiosità, ma anche rabbia. Sì, rabbia! Voleva sapere che nome dare a quella cosa che si ritrovava sotto i polpastrelli, e che colore avesse, a che cosa servisse … il non poterlo sapere lo portava a strusciarci le dita sopra con più forza, avanti e indietro, di lato, di sotto e di sopra, a seguirne la curvatura, così omogenea, sempre uguale. Ma ecco che, ad un’estremità, qualcosa interrompeva la liscia superficie: un gonfiore turgido si ergeva misterioso. Che cos’era? Tastò meglio, era un nodo. Sì, un nodo! Allora capì. Le maestre, a scuola, gli avevano letto delle storie in cui i bambini giocavano felici coi palloncini colorati e alla fine li lasciavano volare su nel cielo, tutti insieme. Lui non ne aveva mai visti. I suoi occhi erano bui, da sempre.

I passi sulle scale, rapidi e sicuri, lo richiamarono a sé. Era suo padre, lo riconobbe dal ritmo con cui i piedi battevano sugli scalini di pietra. Entrò nella stanza e gli fece una carezza sulla testa appena gli fu dietro, scarruffandogli i capelli, senza dire niente. Questo bastò ad Enzo per sentirsi felice. Suo padre era tornato. Anche se non parlava riusciva ad esprimere con piccoli gesti tutto il suo amore. E lui in quell’istante amò la vita ancora di più: per suo padre che non parlava e per il suo palloncino fra le dita. Anche se non poteva sapere di che colore fosse, non importava: poteva immaginarlo ogni giorno di un colore nuovo. 

Stropiccìo di palloncini

Dove vanno a morire i palloncini? – di Roberta Morandi

Dove vanno a morire i palloncini?
Anni fa scrissi una poésia dopo aver visto tanti palloncini colorati fuggire dalle mani dei bambini. Dov’è andata a finire? Rimasta nella memoria di un vecchio computer e mai liberata?
Oggi, uno stropiccío plasticoso  mi ha riportato alla mente quella  immagine sepolta e ormai inusuale dei palloncini  che i bimbi, durante le feste paesane, tenevano in mano o legati al polso per non farli volare via, e se li lasciavano andare li seguivano coi nasi all’insù, un po’ perplessi un po’ smarriti e un po’ interrogativi… Cerco nella memoria quella poesia, ma non trovo nessun appiglio.  Immagino un cielo pieno di palloncini colorati, di varie forme, ma della poésia nessuna traccia.
Forse l’ho scritta anche su carta, allora sì che è perduta, considerato il mio disordine.  Già la mia memoria, come quella del mio computer, devono essere fatti della stessa pasta! Come una scatola di latta che puoi agitare e dove le cose al suo interno si mischiano senza un senso compiuto. Poi ci tamburello su e magicamente torna tutto in ordine. 
Sì il mio cervello è proprio così, prima o poi saprò dove vanno a morire i palloncini!


La sfida del traforo

Una vittoria salgariana – di Luca Di Volo

Quella tavola di compensato stava lì, muta, ma sembrava lo guardasse per sfidarlo….e a lui pareva sussurrasse: ”tanto non ci riuscirai mai…”

Il peggio era che anche lui rimandava come un’eco questo convincimento: infatti era  rimasto fermo, imbambolato di fronte al dover fare… insomma partorire qualcosa…Neanche l’orgoglio gli era d’aiuto; c’era una gara tra compagni di classeper chi avrebbe fatto il lavoro più bello, più originale..e lui sapeva che, più o meno, tutti erano più bravi …come manualità era abbastanza…..come dire..:spastico? Sì,questa forse era la parola giusta: spastico.

Per distrarsi da quel pensiero deprimente, cercando di non pensare a quella che sarebbe stata la sua sorte l’indomani, quando si sarebbe presentato a mani vuote….insomma per uscire da quella specie di oscura marea, si tuffò in una lettura che era la sua passione e il suo rifugio: quel Salgari che lui pronunciava Sàlgari e che invece, una volta adulto, avrebbe scoperto che tutti lo chiamavano Salgàri, unacosa che per lui era quasi un’offesa personale.

Insomma, il libro dei Misteri della Jungla nera fece crollare le mura e le pareti della stanza che si aprirono al sole bruciante dei Tropici, con stordenti esalazioni sevagge di liane gonfie di succhi misteriosi.

E poi la scena..: una pattuglia di Thugs.., i terribili adoratori della Dea Khalì..armati del loro micidiale “kriss”, quel kriss malese tanto dettagliatamente descritto dalla sapienza dell’autore e così affascinante nella sua sinuosa forma serpentina.

Già..il kriss..QUEL kriss..il pensiero gli rimase fisso lì..uno struggente desiderio..ah, avesse potuto averne uno..ma non ce l’aveva, chissà dove si poteva trovare…Sobbalzò..trovare no, ma forse lo poteva “fare” con le sue mani..Rimase abbagliato da questa gloriosa constatazione..stregato addiruttura…Fatto sta che, afferrata la tavola di compensato (che ora non rideva più tanto) cominciò a lavorare, si tagliò, inveì contro la lama del traforo, si intestardì..mangiò appena, ma alla fine qualcosa che assomigliava a quel pugnale tremendo venne fuori…Passò la sera a lucidarlo, plasmarlo, dipingerlo, lo ornò perfino con pezzetti di vetro a mò di gioelli..(quelli non ce li aveva davvero)…Finalmente si fermò: la sua opera era proprio bella..ma soprattutto portava con sé il profumo stordente della Jungla Salgariana ..

Quella notte dormì poco..chissà, forse la mattina dopo le sue fatiche sarebbero state premiate..o forse no…ma non aveva importanza.

Scalare la roccia

Lacrime di gelo – di Anna Meli

Scalare è faticoso ma bello; sentire lacrime di gelo scorrere sul viso e il vento che ti schiaffeggia asciugandole.Quando alzi la testa o la pieghi per trovare nuovi appigli ti sembra di sentire una musica che varia nei toni e diviene compagna della tua fatica insieme ad una grande felicità.

 In cima volgo lo sguardo in basso e si apre l’immenso.

Arrancare sui sassi

Sulla strada romana – di Lorenzo Salsi

Il fiato, il fiato manca. Arranco, mi trascino il mio bel peso che piano , ma molto piano sta diminuendo. Le scarpe adatte, il bosco ancora verde l’autunno tarda e forse non arriverà neppure. Ogni tanto un sasso slitta sotto il mio piede m’accorgo però che non è un sasso qualunque e che non è slittato lui ma è stato il mio piede che è scivolato, il sasso è ben fermo e infisso per terra e come lui altri , tanti altri , tantissimi…..  Poi passato il cimitero trovi la strada romana, che poi era quella etrusca e ti ritrovi nel bosco …. “buona passeggiata !” così m’aveva detto Fosco l’oste. In effetti neanche ricordavo quelle due chiacchiere fatte dopo un caffè …. Sensazione strana camminare su secoli e millenni di storia, di vite vissute, di avi, forse non miei ma di qualcuno sicuramente. Sì strano effetto che mi prende sempre a contatto con l’antico, torno bambino slaccio la fantasia mi immedesimo, cercocon l’immaginazione volti, voci, discorsi, battute….chissà come e di cosa ridevano gli etruschi (non abbiamo scoperto la loro fonetica). Continuo a camminare scendendo e guardando quei sassi che qualche schiavo o liberto, o affrancato ha messo lì più o meno 2500 / 2700 anni fa, resto senza fiato e questa volta non è il peso a fregarmi ma lo stupore, la consapevolezza di essere del mondo e nel mondo accompagnato chissà da quel che resta nell’aria da chi ci ha preceduto. Miracolo. Mi vien da pensare a tutti i meschini, balordi, stupidi, cattivi che cercano il potere, la potenza, che sopraffanno altri, che illudono, potessero essere qui con me e godere della bellezza di questo posto, della storia, della curiosità che si sprigiona camminando su questi ciottoli.
Oh certo di sicuro c’erano anche all’atto della costruzione persone così, tutto il mondo è paese, ed infingardi, traditori, vigliacchi, approfittatori e razzumaglia umana son sempre esistiti e sempre esisteranno, non c’è da illudersi. Va be’, andiamo avanti anzi torniamo indietro che ora è salita.
Vado però più leggero, rientro in paese e per tornare a casa faccio il giro lungo, saranno 30 mt in più ma passo davanti all’Arce, alle Mura Ciclopiche del periodo ellenistico che forse hanno udito le storie di Alessandro Magno (i contatti fra etruschi e greci furono intensi) e stupisco di nuovo. Mi fermo, respiro, guardo il panorama che è quasi commovente, la mente galoppa anzi rigaloppa e vado a casa certo che domani quando ripasserò da lì proverò le stesse identiche sensazioni di oggi col vantaggio che non mi verranno mai a noia. E già è ora di cena .

Vetri rotti

Ieri era Pasqua …oggi  è quasi Natale – di Stefania Bonanni

“Paolo, bisogna ci pensi tu. C’è un mare di nettezza da buttare. Li ho messi in terrazza, i sacchetti”

“Ma sei impazzita? Ci saranno dieci sacchi, ma chi l’ha fatto, tutto questo sudicio?”

“Chi l’ha fatto! Qui si mangia, si spacca l’uovo, ci si diverte, e poi al resto non ci pensa nessuno! ci saranno un paio di sacchi pieni delle carte dorate delle uova di cioccolata. Che ridere però: non c’è nulla che si possa paragonare a quegli occhietti spalancati, e a quel cazzottino che cercava di fare presto, a spaccare tutto! Certo, poi restano le carte da buttare! Poi ci sono i resti del pranzo, le bottiglie di plastica, poi da sole quelle del vino, dello spumante, poi varie carte delle confezioni dei regali. Si, però hai visto come erano tutti sereni, diventati piccini in un attimo!”

“Si si, ma alla fine se ne sono andati, e noi qui a buttare il sudicio!”

“Dai, non fare il brontolone. Cosa volevi? Che rimanessero qui? Loro se ne vanno sempre, ma è così bello vedere che sono contenti quando tornano!”

“Attenta, hai messo i sacchetti in bilico, sull’orlo delle scale!”

“Oddio, pigliali, pigliali, corri….”

Skresh, stromp, spam spam, splim (queste ultime erano le bottiglie di vetro…)

“Stefi, non ce l’ho fatta! Tutto rotto. Ed il giardino pieno di rifiuti”

Era Pasqua, ieri. Intanto siamo quasi a Natale.

Affanno di vecchi cassetti

I cassetti del vecchio cassettone – di Sandra Conticini

Ormai era vecchio, tutte le volte aprire quei cassetti era davvero una bella fatica. Era il cassettone della nonna dove, a distanza di anni, c’era ancora il suo corredo con lenzuola, federe e asciugamani ricamati a mano e con le sue cifre. In ogni cassetto c’era un sacchettino di lavanda che dava odore di fresco a tutta quella biancheria rigorosamente pulita, ma anche ingiallita dal tempo.

Era un mobile molto importante e difficile da spostare, con lo specchio enorme, agli occhi di una bambina. Il piano era di marmo grigio e sopra c’era la foto del matrimonio dei nonni, quella di uno zio morto giovane e un Gesù Bambino sotto una campana di vetro che, nel periodo di Natale veniva messo vicino al presepe, ma ci sfigurava, perchè era troppo grande nei confronti degli altri personaggi…

 Era molto difficile aprire e richiudere i cassetti,  molto pesanti e un po’ imbarcati dall’umidità, nonostante  la mamma e la zia passassero la cera sulle guide  per farli scorrere meglio.

Ogni tanto mi chiedo che fine abbia fatto… quasi certamente sarà stato bruciato in giardino come diverse altre cose che non avevano trovato posto nelle nostre case ma che ora ci piacerebbe avere.

Un pizzico di Beethoven

SOLO MUSICA – di Rossella Gallori

Stasera mi fermo qui, ho già la testa piena di rumori, forse l’unico che tace è il mio cervello che non vuol capire, mi fermo alla musica, al suo accarezzarmi, senza invadermi, senza domande, sento il  cuore stufo di non aver emozioni, di non mettersi più alla prova…che stupida commedia la vita, se non ci fossero pesanti tende di velluto, e morbide frange di canutiglia  dorata, poltrone di velluto cremisi…..mi domanderei : sono viva?…..ma lento il sipario si apre, siamo in scena…silenzio…

Motorino in partenza lenta

Il vecchio Iso del babbo – di Laura Casati

Il vecchio  Iso tarda a partire, gracchia, sbuffa, è lento, ma tu non ti perdi d’animo , come ingenere sai fare, hai una marcia in più perché riesci da un niente a farci trascorrere giornate serene e gioiose. Oh via, si parte veloci verso la meta, amo la velocità, come te, mi eccita, tu sei sicuro su per la via Faentina verso il tuo paese natio. Anche la Via Chiantigiana non ti dispiace, là c’è sempre qualche parente della mamma da andare a visitare e bere magari un “ vinsantino”. Così  il rumore molesto della moto che poi ha deciso di prendere il via si trasforma in un’armonia di sapori, colori, emozioni.. il gracchiare diviene rapsodia aperta ad ogni suono che si intona con il tema del giorno. Che avventura! In genere rientriamo tardi la sera, a volte facciamo delle merende abbondanti in queste piccole trattorie di campagna, altre volte rimaniamo a cena da parenti. Prima di riaccendere la moto ci chiedi: Chi di voi due è più stanca non venga davanti, potrebbe essere pericoloso se si addormenta.

Ci hai dato, babbo, la spensieratezza, la semplicità, che  sono state la tua forza.

Sgocciolare dalla gronda

Ultime gocce  – di Vanna Bigazzi

In questa “stanzetta dell’ultimo piano” mi rifugio, qualche volta, nelle giornate di pioggia: mi piace osservare, dall’ampia vetrata, le tegole luccicanti dei tetti bagnati.  Oggi è proprio la circostanza ideale: cielo grigio intenso, clima fresco, quasi freddo. Ha smessodi piovere. Le ultime gocce scorrono, a intervalli irregolari, sulle grondaie,con suono metallico:  cornice che accoglie il mio stato d’animo opaco, lento e svogliato. In questi momenti non c’è niente da decidere, c’è solo da lasciarsi andare alla nebbia: il mio pensiero è libero e inerte al medesimo tempo, una strana suggestione di spazio pervade questa prigione senza mura.

Pallina da ping pong

Ricordi e rimbalzi – di Chiara Bonechi

In fondo alla spiaggia il mare, davanti cabine e lastricato, altalene e tavoli da gioco, questa la tipologia dei tanti bagni versiliani lungo la passeggiata e il suo non faceva eccezione.

Era arrivato da solo nel primo pomeriggio assolato, aveva deciso di uscire mentre i suoi ancora riposavano, un po’ presto per l’appuntamento ma la voglia di incontrare quell’amico dopo un intero anno era talmente intensa che non poteva più aspettare in casa.

L’attesa lì al bagno gli sarebbe sembrata più breve. E fu per ingannare quell’attesa che chiese al bagnino racchette e pallina e si avviò al tavolo da ping pong. Faceva frullare la pallina con abilità, a ritmi diversi e il rumore del rimbalzo riempiva il tempo dell’attesa. Ogni tanto si fermava per guardare all’ingresso, lo avrebbe voluto vedere arrivare e gli sarebbe corso incontro.

Poi uno sguardo all’orologio, era ancora presto e battendo la racchetta sulla pallina riprese il ritmo del gioco.

Una voce lo scosse, il suo nome arrivava come un suono, lui era lì e gli sorrideva.

In due si poteva finalmente giocare la partita prima di correre a tuffarsi in mare.

I cardini cigolavano

Dormiveglia del fuoco – di M. Laura Tripodi

Era stata una buona annata. Le castagne raccolte chiacchieravano fra loro stese su grandi teli, in capanna. Ora si doveva scegliere quelle piccole da mettere a seccare in cannicciaia per fare la farina. Il fuoco era stato preparato per tempo, ma la porta dopo tanti anni e tante intemperie era decisamente da risistemare.

Davino decise di farlo subito.

Lei resisteva, non voleva separarsi dai suoi cardini e cigolava, strusciava, raschiava. Finalmente dopo l’ultimo colpo secco cedette e fu distesa come un povero malato su due capre di legno. Gli attrezzi erano tutti allineati in attesa di lavorare  e un bimbetto di poco più di tre anni saltellava in cerca di qualcosa con cui giocare. Ma lì c’era solo roba pericolosa e fu allontanato bruscamente. Mentre i suoi passettini impermaliti si perdevano nel cortile di casa l’odore del fumo si spandeva intorno, come un incitamento a sbrigarsi.

Davino cominciò a lavorare e in men che non si dica la porta riprese un aspetto sano. Le donne si affrettavano a trasportare le castagneperchè il fuoco era come entrato in uno stato di dormiveglia.

Nell’aria si era perso il senso dell’aspettativa.

Tutto era tornato tranquillo: le castagne a seccare, la porta sui cardini, il calare della sera su quel profumo di  autunno inoltrato.

Sfilacciare e altri rumori

Sfilacciare e altri rumori – di Cecilia Trinci

Non si seppe mai come fosse accaduto. Probabilmente era stato un cedere, uno sfilacciarsi lento giorno per giorno, o per meglio dire un attimo dietro l’altro. E pensare che c’erano state  catene di giorni ruzzolate in  quel  progetto. Stanchezza mai. Semmai quell’euforia, quel senso di  inappagata curiosità che  portava a cercare soluzioni, risposte, sfide. Era questa droga benefica che faceva scorrere il tempo senza farsi sentire. Il tempo che non si sente è il tempo giusto, si dice. Ma ora  passava, semplicemente, con le sue lancette. Si infilavano nelle ore girando le punte, facendole sanguinare di inerzia, spremendo quello che restava di ombreggiature sui desideri. Non era solitudine, piuttosto un martellare di quella delusione  che comunque si accaniva sulla storia. Non era andata come avrebbe voluto. Agiva, certo, rispettava gli impegni come no? Usciva, tornava, preparava, scriveva. Camminava. I suoi passi lasciavano echi intorno. Tacchettava da sola per le vie e guardava solo davanti a sé per non vedere i nessuno che erano al suo fianco.  Eppure niente costruisce di più di un’amicizia concreta, che si sporca le mani nella terra, che si rotola ridendo nella vita, che nasce dal galoppare nella stessa direzione. Rumori, erano rimasti i rumori e echi scombinati che non cucivano parole . E più di tutto rimaneva la tristezza di certe cene multiple, tintinnar di bicchieri, scontri di piatti, urla, urla, urla. E silenzio dentro.

Sbattere

Sbattuto sui sassi – di Patrizia Fusi

Mi sento stordito, non mi rendo conto di dove sono, sento l’acqua che mi batte sul corpo, una danza rumorosa mi colpisce violenta,  lentamente guardo quello che mi circonda, sono sotto una grande scogliera, sento i rumori  e la risacca del mare con i suoi ciottoli che batte contro la riva, ho il corpo dolorante sono stato sbattuto come i sassi anche io.

Piano piano riprendo il pensare, ricordo quando il barcone ha iniziato ad affondare, urla scene di panico, io che inizio a nuotare, tanta fatica, non sento più le gambe, è la mia fine? Entro in un buco nero.

Un flebile raggio di sole mi riscalda un po’ il corpo, penso dove sono gli altri ce l’avranno fatta? Dove saranno……. dolore, paura.

Felicità di essere vivo.

Scricchiolare

Arriva l’inverno – di Tina Conti

Le giornate si erano fatte più corte, la temperatura cominciava a calare, la notte era veramente freddo.
Nella piccola casa vicino al castagneto bisognava organizzarsi per l’inverno.
Il gatto bianco passava ormai quasi tutto il tempo in casa  acciambellato sulla seggiolina bassa anziché godersi il sole sulla panca davanti alla stalla come faceva nella bella stagione.
Era tempo di proteggere dalla pioggia la catasta di legna per il camino, nella dispensa le provviste serbevoli dovevano essere controllate e appoggiate sulla paglia.
Quest’anno le mele erano venute piccole ma sane.
Si poteva anche seccarne un po’  dopo averle infilate tagliate a rondelle nello spago e appese vicino al focolare.
Pere, cachi e sorbe  erano sistemati incesti e cassette ben in vista, in  quanto si deterioravano più facilmente.
Il castagneto era stato generoso e tutto il raccolto venduto al mercato: il denaro poteva  servire per le tante necessità della famiglia, c’era sempre qualche imprevisto e si doveva essere accorti
Anche in casa c’erano lavori da fare, arnesi da riparare, cesti da ricostruire.
Il materasso del letto, svuotato e ripulito, aspettava di essere riempito delle fresche foglie di granturco che erano state seccate al sole dell’estate.
Le foglie scricchiolano, frusciano  fra le abili mani del nonno, che le aggiusta e sposta cercando di dare armonia al lavoro.
Con un grande ago viene ricucito il bordo finale, si lascia una piccola apertura per le modifiche future.
I  bambini di casa aspettano con impazienza il momento del collaudo, con salti e capriole, sotto uno scricchiolio festoso si darà una forma compatta al nuovo materasso.
Per molti giorni anche sotto le coperte si sentirà il rumore delle foglie secche.
Gli scricchiolii accompagneranno  sonni e veglie fino alla primavera .


La corsa del carretto

Non era un gioco da femmine – di Stefania Bonanni

Non era un gioco da femmine. Piuttosto una specie di stupida prova per dimostrarsi uomini, a vedere l’importanza che davano alla faccenda tutti i ragazzetti di quell’età. Che, a dir la verità, non ricordo proprio quale fosse, anche se certamente era cosa da poco più che bambini.

Era prova difficile, così dicevano. Di certo l’organizzazione partiva da lontano. Dalla costruzione con assi e chiodi di una specie di piccolo lettino, oggi si potrebbe dire un gokart di legno, che si guidava con un “timone” che consentiva solo svolte improvvise e totali, e viaggiava sulla strada per mezzo di certi strani cuscinetti. Per dignità, tralascio di raccontare che tipo di piccoli cuscini pensavo fossero.

Comunque, la costruzione durava parecchio. Ne parlavano dicendo come non fosse mai a punto. Doveva essere perfetto, al meglio delle possibilità, perché era pericoloso. Già, la prova…che era una prova di coraggio. E dopo tentativi vari, nei quali veniva deciso anche l’equipaggio, chi era più adatto a guidare e chi più a stare dietro, si cominciava a sentire che l’avrebbero fatto il giorno tale, e tutti si doveva stare zitti, perché nel caso l’avessero saputo in casa, sarebbero stati sculaccioni e divieti di uscire. E non se ne sarebbe più fatto nulla.

La partenza era dalla Casa del Popolo. A razzo, in discesa.

Il carretto attraversava la strada statale, e questo era il pericolo grosso, quel momento che faceva trattenere il fiato, poi imboccava la strada in discesa che, dopo una curva a gomito, spianava verso l’Arno.

Oltre le grida, gli accidenti, qualche parolaccia, si sentiva lo skrasht skrasht dell’automobilina  sui sassi della strada sterrata, poi lo skrasht diventava più fitto, più scivoloso, più veloce, poi un rumore netto, per la curva. E sempre, sul rumore dei sassi, confuso a quello, mescolato, lo strusciare dei sandali che cercavano disperatamente di frenare. La corsa consumava scarpe, piedi, calcagni, a volte anche ginocchia. Il carretto era come le farfalle, quando era pronto, durava poi per una sola impresa. Onore al carretto.

Stacciare

Fagioli e carezze – di Anna Meli

Era una stanza grande quella dove Lorenzo, vecchio contadino, si ritrovava per battere e poi vagliare i ceci o i fagioli. Io spesso andavo là perché di quella stanza mi piaceva l’odore gradevole delle mele che stavano ammucchiate nel soppalco messe da parte per l’inverno, e poi era rassicurante vedere questo vecchio rugoso, cinto di un grembiule blu che, una volta separati i fagioli dalle bucce, li metteva in uno staccio e maneggiandolo avanti e indietro toglieva i residui fini facendoli riemergere puliti, bianchi come i dentini di latte dei bambini.

Erano pronti per essere trasferiti nel sacco di tela che aveva accanto a sé. Il movimento dello staccio mi rilassava, sembrava scandire il tempo, mi dava tranquillità.

Ogni tanto Lorenzo stanco si fermava, con le sue grandi mani, accarezzava quasi con amore quei fagioli bianchi. A volte mi raccontava come con essi aveva sfamatola sua famiglia, perché diceva che erano il “magro dei poveri” e i suoi figli, dei quali era orgoglioso, erano cresciuti sani e forti.

Cellofan rosso

Il regalo più bello – di Carmela De Pilla


Aveva pensato a tutto: ognuno doveva ritrovare nella casa gli stessi oggetti che aveva lasciato l’anno precedente.
I letti erano pronti, sul suo aveva messo la coltre, quella bella, rossa da una parte e rosa dall’altra, il salotto, trascurato per quasi un anno aveva ripreso vita e la cucina, semplice e modesta stava respirando il calore di una famiglia ritrovata.
Anche quest’anno insieme, il tempo non aveva cancellato nulla.
La stanchezza accumulata in quei giorni non la rendevano affaticata, aveva il solito sorriso e quella luce negli occhi di chi sta già assaporando il desiderio di averli ancora una volta lì, nella sua casa.
L’aria di Natale pervadeva le stanze e avvolgeva le piccole cose che lei con cura rimetteva ogni anno nel solito posto.
Il piccolo albero nell’ingresso e il presepe la preparavano agli abbracci.
Immersa in quest’atmosfera sembrava più giovane, invece il tempo era passato, era passato per tutti, ma ancora di più per lei che sentiva il peso di una vita sofferta.
Ma oggi no, non poteva essere triste, avrebbe finalmente riabbracciato i suoi tre figli tanto amati nella propria solitudine
Eccoli, festosi e sorridenti; prima gli abbracci poi le tante domande poi un piccolo regalo per lei.
Era un pacchetto abbastanza grande, avvolto in un “cellofan” rosso, lo prese timidamente, non era avvezza ai regali e lo appoggio’ sulle ginocchia.
Le sue mani ruvide e contorte dal duro lavoro incominciarono a danzare su quella carta provocando un suono senza ritmo che rendeva ancora più piacevole l’attesa.
Sembrava divertita e continuava a suonare alzando di tanto intanto gli occhi verso di noi.
Un ultimo scricchiolio ed ecco l’atteso regalo: un libro di fiabe.
Lo strinse al petto, ci sorrise poi con voce commossa ci disse:- Grazie.
Aveva fatto solo la terza elementare, la mamma, ma quando la vidi prendere di nascosto un mio libro di letteratura, troppo difficile per lei, capii che quel libro sarebbe stato molto gradito.