Scalpiccìo

Scalpiccìo di passi e pensieri  – di M. Laura Tripodi

Tirò fuori dalla tasca il bigliettino con l’indirizzo. Non era il suo primo lavoro, ma il cuore le batteva forte come se lo fosse stato.

Si soffermò davanti a un cancello sgangherato che dava la sensazione di essere aperto e abbandonato da secoli. Se ne stava lì spalancato, immobile e desolato in mezzo alle erbacce, come un’enorme bocca in attesa di cibo. Oltre serpeggiava un vialetto poco curato, ma in cui le piante avevano trovato autonomamente una propria armonia.

Si avviò timidamente, dopo aver controllato per l’ennesima volta il biglietto con l’indirizzo.

Qualche cipresso austero e triste costeggiava  il cammino. Poi l’ombrosità del vialetto si aprì su un ampio cortile. Al centro c’era una vasca con qualche ninfea e a sinistra troneggiava una villa del ‘400. Di fronte un piccolo muretto si affacciava su un podere di ulivi, a perdita d’occhio e più in là Firenze, piccola piccola, ma immensa nella sua magnificenza.

Si fermò impietrita da quel misto di austerità e di bellezza.

Ancora non sapeva che quello sarebbe stato il posto della sua adolescenza e della sua prima giovinezza.

Le era sembrato di non aver udito alcun rumore fino a quel momento. Perfino i propri passi le erano sembrati inesistenti. Poi uno scalpiccio frettoloso e subito dopo un abbaiare non amico.

Un mastino napoletano stava correndo verso di lei. Si guardò intorno terrorizzata, in cerca di aiuto.

Poi una voce ferma lo richiamò. “Pirro torna qua! Buono Pirro! Zitto!”

La mamma dei bimbi la accolse con un sorriso, tenendo per il collare un Pirro per niente convinto.

Quando conobbe i bambini subito si innamorò. Fu un amore reciproco, immediato. I rumori e suoni della sua adolescenza furono per molto tempo un unisono con quelli della loro infanzia.

Li riconobbe dopo molti anni, i rumori. Li risentì, li chiamò. Quel giocare a chi tirava i sassi più lontano, dentro la fontana. Quell’inventarsi storie fantastiche fra un cipresso e l’altro, nel vialetto che portava al cancello perennemente aperto. E la sera loro tre intorno alla tavola di un cucinone che aveva visto tante cose. Chiacchieravano, ridevano, si facevano scherzi.

LEI ERA LA TATA.

“Ora basta Lorenzo. Vai a metterti il pigiama. Tu Caterina vieni con me a lavarti i denti.”

“Sì, ma stasera ci finisci la storia di Robin Hood e di lady Marian?”

E il più delle volte si ritrovava uno dei due nel suo letto. Come se avessero concordato dei turni, con aria noncurante e il tepore e la tenerezza della loro infanzia.

Carillon

Carillon – di Patrizia Fusi

 La musica fa apparire una camera, con una scatola magica.

Un letto grande e uno piccolo, le testiere  di metallo scuro decorato con  disegni floreali di vari colori. In un angolo un lavamano con la bacinella, sotto, la brocca e al bracciolo un asciugamano di cotone bianco. Un armadio di legno scuro con delle cornici lavorate in alto e in basso.

 La luce entra nella stanza dalla finestra, un raggio di sole batte sul cassettone, sopra c’è la scatola magica, un loro regalo di nozze.

Salgo sopra la sedia, apro la scatola, il carillon suona la dolce melodia, mentre un piccola ballerina inizia a ballare girando su se stessa.