L’acqua nella tinozza

La tinozza – di Nadia Peruzzi

Rivedo la casa, la stanza dove si svolgevano gli attimi della vita familiare. Ricordo la posizione del lavabo di granito e quella della cucina economica. E’ la casa dove ho abitato da bambina.

Il fiume mostrava ancora il suo percorso, nessuno si era ancora fatta venire l’idea balzana di coprirlo anche per ricavare un posto per il capolinea dell’autobus. La Coop lì davanti ancora non c’era, avevamo i campi di fronte .

C’erano affetti in quella casa di un tempo che fu, spazi piccoli ma accoglienti malgrado io e la nonna dovessimo dormire nello stesso letto. Lecomodità erano poche. Fra queste mi viene in mente il latte che vendevano porta a porta. Bastava scendere le scale con un pentolino e la mattina dopo potevi tirar via uno strato di panna profumata che, con una generosa aggiuntadi zucchero, serviva come anticipo della colazione vera e propria.

 Il gabinetto invece era per le scale, una vera scomodità per non dire della fetenzìa che usciva fuori da quel buco nero una volta che toglievi l’asse che separava dall’abisso maleodorante.

 Solo dopo qualche anno, si riuscì a trovar lo spazio utile per spostarlo sulla terrazza dove ebbe il suo posticino anche il bagno. Era iniziata la stagione dell’acqua corrente fin dentro le case.

Prima l’acqua te la dovevi andare a prendere alla fonte che, per fortuna, non era lontana. Usavamo la mezzina di rame che adesso fa bella mostra di sé in salotto insieme al fascio di fiori che di solito contiene.

Fare il bagno diventava così un’avventura .Un’avventura che di solito giocavamo in due, io e la nonna visto che il bagno intero io e lei lo facevamo nei giorni feriali mentre il babbo e la mamma erano al lavoro. Farlo tutti insieme sarebbe stato troppo complicato e avrebbe portato via troppo tempo.

Al centro della stanza e il piu’ possibile vicino alla cucina economica dove in inverno scoppiettavano bei ciocchi di legno, nel giorno dedicato al bagno intero, campeggiava una tinozza di zinco. Era abbastanza grande perché almeno io potessi  entrarci senza problemi standoci addirittura seduta dentro,avanzava anche un po’ di spazio ai lati. La nonna la riempiva per metà e io ci entravo a gran velocità per godere di quel teporino e di quei vapori al profumo di marsiglia e sopratutto in inverno, per evitare il più possibile il freddo. Vicino e a portata di mano un pentolone in posizione strategica. Dopo l’insaponata la nonna armata di bricco con movimenti continui prendeva l’acqua dalla pentola per versarmela addosso, mentre strusciava via l’eccesso di sapone. Era una sensazione piacevole il tocco delle sue mani, che appena possibile trasformavano in carezza il gran strusciare. Il rumore dell’acqua che scivolava dal bricco per finire su testa e spalle portava serenità.

Che bello quando un suono, un semplice sciaguattio riportano in superficieun intero mondo. Cose, immagini, sentimenti che vengono da un’altra dimensione e tuttavia di una vivezza tale da sentirla come se accadesse  tutto adesso.Un bagno, che oggi si fa in 5 minuti, basta aprire un rubinetto nella doccia, allora era una vera impresa che, e questo era il bello però, riusciva a farsi momento divertente. I piccoli scrosci dell’acqua dal bricco di alluminio si univano al suono dell’acqua che si muoveva nella tinozza ad ogni mio spostamento. 

Tutto attorno erano schizzi, che spesso mi divertivo a lanciare anche oltre lo spazio attorno alla tinozza,tanto che  i cenci che la nonna sistemava aprotezione non riuscivano a impedire che ne venisse fuori un vero lago. Così, mentre io mi vestivo rapidamente per evitare il freddo , la nonna ancora rossa per il vapore e scarmigliata, doveva poi dedicarsi ad asciugare per terra per riportare tutto all’ordine solito. Quando il lago era troppo grosso..non c’era scampo, anche io di corvée, a fare  la mia parte.  

Vino rosso

Vivere in cantina – di Vanna Bigazzi

“Vai in cantina ad aiutare il nonno che sta infiascando il vino!” Senza dir niente uscii di casa per raggiungere il sottosuolo. In realtà il nonno non mi faceva far niente, potevo solo osservare, ascoltare, fantasticare.

Mi era sempre piaciuta quella cantina, anche per una suggestiva finestra a mezza luna posta in alto, difesa da strani ghirigori in ferro battuto.

Il nonno era di poche parole, lo trovavo chino sulla canna intento a riempire fiaschi grandi e piccoli, bottiglie e recipienti,  di quel bel vino rosso rubino che fluttuava profumato in rivoli più o meno corposi a seconda del getto: accenti più o meno forti, più o meno prolungati.

Mi sarebbe piaciuto vivere in quella cantina, grande, poco luminosa, dalle mura sciupate che odoravano di muschi e di muffe.

Lì si sarebbe potuto vivere non visti e non sentiti; in quel silenzio potevo percepire il battito del mio cuore, il respiro del nonno, il rumore dei nostri pensieri vaganti in direzioni diverse…

Acqua che scorre

ACQUA CHE SCORRE – di Sandra Conticini

Acqua.. tanta acqua…acqua che esce dal rubinetto e viene digerita dallo scarico del lavandino….perché non riusciamo ad accorgerci quanta ne buttiamo via in  una giornata!!! Ce ne rendiamo conto solo quando manca, perché siamo abituati ad averne a scialo. Appena possiamo percepire che questo bene prezioso ci mancherà, iniziamo a riempire tutti i recipienti grandi e grossi che abbiamo in casa, e veniamo presi dal panico, perché non ne possiamo usare la quantità desiderata, soprattutto per lavarsi e farsi le docce tutti i giorni, sia in estate che in inverno. Ci sarà davvero tutta questa necessità?

Non credo, perché quando ero piccola ricordo che la giornata di bagno era la  domenica. Era quasi un rito. Si iniziava a pulire la vasca, perché poteva essere polverosa, poi si riempiva con l’acqua calda, dopodiche si entrava dentro ci si lavava con una bella spugna ruvida con il sapone. Ricordo anche quando in casa entrò il bagnoschiuma….che bellezza…sembrava di entrare nella vasca che si vedeva in televisione…tutta quella schiuma sembrava panna montata…peccato che dopo un po’ che eri dentro…. spariva.

Certamente non eravamo puliti come ora, ma non mi sono mai accorta di essere stata evitata perché sapevo di lezzo!!!!

Riti d’acqua

CUORE DI NOTTE – di Laura Galgani

Si era svegliata di soprassalto, come già altre notti le era successo. Il cuore si era messo a battere veloce, senza un perché.

I suoi due bambini dormivano nelle stanze vicine, abbandonati al fiducioso abbraccio del sonno in casa della mamma.

Aveva dormito per poco più di un’ora, soltanto. Non era stato un rumore esterno a svegliarla, bensì quello del suo cuore, che impazzito batteva troppo veloce e a tratti irregolare.

La paura l’assalì. Paura di morire.

Eppureil suo cuore non era malato, per niente! Il medico, pochi giorni prima, l’aveva trovata sana e in forma.

Cercò di ragionare: “Se non sono malata – si disse – non mi devo preoccupare!”. Non servì a niente, anzi. Battiti veloci, irregolari, gola riarsa. Ora anche le gambe le davano fastidio: una tensione subdola ma molto intensa la costringeva a muoverle di scatto, e a dare forti calci nel letto, come se dovesse battere tutti i rigori di una finale di coppa.

Si alzò, l’angoscia la opprimeva. “Acqua, ho bisogno di acqua”, pensò. In bagno aprì il rubinetto, mise le mani sotto l’abbondante getto di acqua fredda. “Che bella, l’acqua, ti scorre addosso e ti lascia diversa!” – riuscì a pensare.

Le parlò, la pregò di aiutarla: “Acqua, ti prego, calma il mio cuore, porta via da me questa tensione, le mie paure”. Ne raccolse un bel po’ dentro i palmi delle mani messi a ciotola e ci tuffò il viso. ”Acqua lavami, acqua mondami, acqua purificami. Creature trasparenti, che abitate nell’acqua, lavate via da me la fatica che sento sulla mia pelle, sulle mie spalle, nel mio cuore!” Tuffò e rituffò il viso nel liquido freddo, ci si massaggiò la fronte, gli zigomi, le guance, poi le mani, i polsi, gli avambracci. L’acqua intanto giocava nel lavandino, gorgogliando e scorrendo vivace.

Finalmentesi fermò, e d’istinto prese un asciugamano. Se lo passò leggero sul viso. Poi si guardò allo specchio e sorrise a se stessa. Era passata, e il cuore alleggerito sorrise anche lui.   

Luce sull’acqua

Luci di casa – di Carla Faggi

L’acquaio sotto la finestra è stata un’ottima idea.

Mentre lavo le stoviglie, sciacquo le verdure o preparo gli alimenti mi godo il panorama oltre la finestra. Le querce, il bosco, Gigi il gatto.

Ma la cosa più bella è la luce che dalla finestra illumina l’acquaio e la cucina; arriva dal bosco, attraversa il cortile, entra dalla finestra e sembra indicarmi il punto centrale: il primo posto dove andare, dove decido cosa cucinare, dove inizio e preparo.

Delle cucine del mio passato il mio ricordo più nitido è proprio la luce che le illuminava.

In quella di mia madre entrava dalla porta aperta sul terrazzo davanti al giardino. La ricordo come una luce netta, orientata verso i fuochi e l’acquaio. Sembrava indicare che era lì che si doveva andare, lì si creava e si inventava cose nuove, da lì dipendeva il buon umore della giornata. Il tavolo e le sedie erano più in penombra, forse perché erano meno decisive per il risultato di un buon pasto.

Fantasie di ricordi, ricordi dolci, i più belli.

In quella cucina è passata la storia di una parte della mia vita. Storie di litigi, di affetto, di insegnamenti e di punizioni.

Quanta parte della propria vita si vive in una cucina, seduti ad un tavolo. Quanta famiglia, quanta nostalgia.

Ora ho il cucinotto che divide il preparare dal consumare. È diverso dalla grande cucina. I due momenti si fanno meno compagnia. Anche la luce che entra da fuori è diversa. Più netta e orientata nel cucinotto come a darti delle direttive e più diffusa nella sala pranzo dove sembra ti voglia solo accompagnare.

Bisogni diversi, oggi, meno spazio nelle case, famiglie meno numerose.

La cucina delle mie zie “a contadino” la ricordo enorme, lì si faceva tutto, si cucinava, si mangiava, si stava a veglia. Era la stanza più calda. C’era poca luce, le porte e lefinestre erano piccole per mantenere il calore interno. Poca luce ma tante cose da mangiare. Ci stavo bene dalle mie zie.

Ricordi belli, ricordi di luoghi dove mi sono nutrita di famiglia.

Angolo della letteratura

Andai a raggiungerle, ma Rebecca non si girò quando sentì i miei passi suiciottoli. Si schermò gli occhi, guardo le montagne e disse: “Guarda quellenuvole. Ci sarà un bel temporale se vengono da questa parte”. Thea sentì l’osservazione: era sempre molto rapida nel notare i cambiamenti d’umore -restavo sorpresa, ogni volta, nell’accorgermi di quanto fosse sensibile, pronta a recepire gli stati d’animo degli adulti. “Per questo hai l’aria triste?” si sentì in dovere di chiedere. Rebecca si girò. “Chi, io? No, non mi dispiace la pioggia estiva. Anzi, mi piace. E’ il tipo che preferisco.” “Il tuo tipo di pioggia preferito?” disse Thea. Ricordo che aveva la fronte aggrottata, mentre rifletteva su queste parole, poi annunciò: “Be’, a me piace la pioggia prima che cada”. Rebecca sorrise della trovata, ma io (in modo molto pedante, suppongo) dissi:”Però prima che cada non è proprio pioggia, tesoro”. “E allora cos’è?” disse Thea. E io spiegai: “E’ solo umidità. Umidità nelle nuvole”. Thea abbassò gli occhi e si concentrò, ancora una volta, a scegliere i ciottoli sulla spiaggia: ne raccolse due e prese a batterli uno contro l’ altro. Il suono sembrava darle piacere. Non mi arresi: “Sai, Thea, non esiste una cosa come la pioggia prima che cada. Deve cadere, altrimenti non è pioggia”. Era un principio stupido su cui insistere con una bambina, e mi pentii di aver cominciato. Ma Thea sembrava non avere alcuna difficoltà ad afferrarlo, semmai il contrario – perché dopo qualche minuto mi guardò e scosse la testa con aria di commiserazione, come se stesse mettendo a dura prova la sua pazienza dover discutere di questioni del genere con una ritardata. “Certo che non esiste una cosa così,” disse. “E’ proprio per questo che è la mia preferita. Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale.” Poi corse verso l’acqua, con un gran sorriso, felice che la sua logica avesse riportato una vittoria così sfacciata.”

La pioggia prima che cada – di Jonathan Coe

Gorgoglìo d’acqua fresca

Il canto dell’acqua – di Roberta Morandi

Arrivo di corsa in cucina e con forza mi butto in mezzo alla gonna nera della nonna che, al lavandino, sta ancora lavando i piatti del grande pranzo della battitura.
La nonna ha un sobbalzo, presa alla sprovvista com’è stata dal mio arrivo, mi prende in braccio e mi mette in piedi su una seggiola vicino a lei, delicatamente mi fa indossare un grembiule nero più grande di me e mi invita ad aiutarla nella faccenda. Il grande lavandino di pietra grigia a  cui mi appoggio è ormai quasi sgombro e l’acqua defluisce via gorgogliando dal buco: prima doveva essere pieno a sentire il rumore che fa.  Che strano, da dove viene l’acqua? Io a casa mia ho una cannella  che si può aprire e chiudere, ma la nonna non ha niente di simile. A fianco del lavandino, su un piano di legno umido, guardando bene, vedo una mezzina di rame col beccuccio che quando viene inclinata fa uscire l’acqua. La nonna la versa in una grande brocca con un pisciolio a tratti intermittente.   Però……..

……………………un però….un pensiero…….
Acqua, acqua fresca,   limpida , acqua corrente di un ruscello che scorre in un grande prato verde contornato da colline, un prato che ora non esiste più,  pieno di ruspe e trivelle e cemento e le colline ormai spianate dalla terza corsia dell’A1.

Angolo della letteratura

Bisogna essere come l’acqua. Nessun ostacolo, l’acqua scorre. Trova una diga, allora si ferma. La diga cede, scorre di nuovo. In un recipiente quadrato, è quadrata. In un recipiente tondo, è rotonda. Questo è il motivo per cui è più indispensabile di qualsiasi altra cosa. Non vi è nulla al mondo più adattabile dell’acqua. E tuttavia quando cade sul suolo, persistendo, niente può essere più forte di lei. 
Lao Tzu 

Sciaguattare

Rumori di casa – di M. Laura Tripodi

Dolcissimo era il momento in cui vinta dalla stanchezza appoggiavo la guancia sulla giacca del babbo. La stoffa era ruvida e odorava di tabacco stantio. Anche i suoi calzoni pizzicavano, ma per niente al mondo me nesarei lamentata per paura di perdere il suo abbraccio. Man mano che le palpebre si facevano pesanti svaniva l’odore di fumo e i rumori del quotidiano si allontanavano come risucchiati da un’altra dimensione. Svaniva lentamente anche la sensazione di pizzicore dalla guancia e dalle gambe. I rumori della cucina diventavano ovattati e  lo sciaguattare delle stoviglie nell’acquaio mi dicevano che la mamma stava finendo di lavare i piatti. Un leggero spostarsi del babbo sulla sedia annunciava che di lì a poco mi sarebbe toccato di abbandonare quel calore per trovare il ghiaccio del lenzuolo. Allora mugugnavo qualcosa per far credere che ero ancora ben sveglia. Ma dopo avrei continuato a percepire nel sonno quei rumori rassicuranti che sapevano di casa.

Picchiettare

Picchiettare di un tipo riservato – di Tina Conti

Fra il vento caldo dell’estate e il frinire delle cicale,  sentivo fra i rami dei pini  uno strano picchiettare.
Più volte ho guardato in alto  per scoprire quel piccolo animale autore della musichetta.
Niente, più guardavo e meno capivo da dove proveniva.
Eppure  nel tempo ero riuscita a scoprire  e individuare  i pennuti visitatori del mio giardino, le tortore dal collare che ripulivano la ciotola del cane, i pettirossi golosi dei semini e dellebriciole che spesso lasciavo davanti casa, i piccolissimi uccellini gialli che si rincorrevano fra i rami  del cedro.
Ma quel picchio, che in estate mi faceva compagnia non si faceva mai vedere.
Si trattava certamente di lui, prima o poi sarei riuscita avederlo.
Lui di sicuro si accorgeva di me, si fermava di colpo quando si accorgeva che stavo guardando in alto. Doveva essere molto astuto e si burlava di me rimanendo immobile e silenzioso. Forse era un tipo molto riservato.

Angolo della letteratura

“Cantava, dico, ma sottovoce, vecchi motivi senza parole,metà mugolìo, metà fischiettìo, e un gorgheggio a tratti; ed era una buffadonna coi suoi cinquant’anni o poco meno, e la sua faccia non vecchia ancora,asciugata dagli anni, ma non vecchia, giovane anzi, e coi capelli castani quasibiondi, con la coperta rossa sulle spalle, con gli scarponi del babbo ai piedi.Vidi le sue mani, ed erano grandi, consumate, nodose, completamente diversedalla faccia, perché potevano anche essere di uomo che abbatte alberi o lavorala terra mentre la sua faccia era di odalisca in qualche modo. «Queste nostredonne!» pensai, e non volevo dire le siciliane ma le donne in genere senzadolcezza per la notte sulle mani, e forse, alle volte, infelici di questo,gelose e selvagge per questo, non avere di odalische le mani come pur avevanoil cuore e la faccia e non poter tenere i loro uomini legati a loro con lemani. Pensai mio padre e me, tutti gli uomini, col nostro bisogno di manimorbide su di noi, e credetti capire qualcosa della nostra inquietudine con ledonne; di come eravamo pronti a disertare da loro, le donne nostre con le manirudi e spicce, quasi maschili, dure nella notte; e di come si cadeva inschiavitù a chiamar regina una donna che fosse donna, odalisca, quando toccava”

Elio Vittorini Conversazioni in Sicilia

Boato

Boato – di M.Laura Tripodi

Esplode improvvisamente. Può essere violentissimo o un’eco lontana. Si annuncia con un crescendo quasi musicale, incerto. Sembra quasi avvertire per non spaventare troppo. A volte brontola a intermittenza e sembra volersi allontanare. Ma intanto le nuvole nere corrono veloci senza sapere dove andare. Si scontrano, si allontanano, si fondono. Intorno c’è odore di pioggia e come un’aria di aspettativa. Poi si fa buio, un buio innaturale nel primo pomeriggio. Si rischiara all’improvviso per una saetta che perfora le nuvole. E finalmente il tuono grida con tutta la sua forza.

Ridere

Ridere – di M.Laura Tripodi

Voleva andare al lago.

“Zia ci andiamo in bicicletta?”

“Io non ci so andare”

“Ha ha! Allora andiamo a piedi. Ma ce l’hai la canna?”

“Io? Io non sono mai andata a pescare! Mi siedo accanto a te e ti guardo.”

“Ma non sai fare proprio nulla!”

“Invece no. So ridere!” E dopo uno scambio di spintarelle e solletico giù matte risate a rotoloni sull’erba.

In un libro ho tenuto per anni una margheritina che il bimbo aveva raccolto e mi aveva regalato quella bella mattina di primavera.

Piangere

Lacrime d’argento – di M.Laura Tripodi

Fin da piccolissima c’erano parole che nella mia mente diventavano o evocavano altro.

Il termine “piangere” da sempre mi fa pensare all’argento e non credo sia solo una questione di suono. Chissà da dove arriva l’immagine di un metallo che non ha un gran valore, ma con il quale si fanno gioielli bellissimi.

Eccolo il pianto che viene da un sentimento di profonda tristezza, ma consola, pulisce, libera.

Lo stomaco si chiude in uno spasmo incontrollato, lo sguardo si appanna, il singhiozzo sale senza che nulla possa fermarlo.

Piangere è qualcosa che si scioglie dentro come se i nostri ghiacciai interiori si trasformassero in acqua che disseta.

Piangevo lacrime d’argento.

Cantare

Foglie croccanti  cadono – di Cecilia Trinci

Sono rimaste poche sugli alberi già quasi tutti stempiati. In alto non ci sono già più  e a metà chioma sono rugginose e gialle. Quelle cadute stanno tutte insieme ai piedi, sulle radici, in un letto soffice e croccante  su cui le scarpe strusciano passi lenti e contenti. Si fanno compagnia e si mantengono a lungo, proteggendosi a vicenda come sorelle. Il sole di novembre,  tagliente quando c’è, le pettina sfiorando i rami, bruciandole di luce. E loro cadono. Cadono piano piano, più lente della neve, più silenziose delle farfalle, girandosi attorno come minuscole ballerine, facendo un sussurro impercettibile, irraggiungibile e imprendibile.

Cadono. Inesorabilmente. Chissà se vogliono cadere. Eppure cadono, si staccano in un soffio e a guardare in su si resta solleticati dai loro sospiri leggeri. Cadono sulle spalle, sugli occhi, sui vetri delle macchine. Sospirano. Non si sa se di malinconia o di piacere, si adagiano per terra, scrocchiano, cantano.

Poi muoiono. Ma lentamente. Sono bellissime fino all’ultimo momento.

E cantano.

Boato

BOATO – di Laura Galgani

Un boato è la mia paura del dolore.

Ho paura che arrivi così, all’improvviso, gigantesco, insopportabile.

Temo i boati che potrei udire, certamente: una bomba potrebbe scoppiarmi vicino, se fossimo in guerra, o potrebbe replicarsi l’orrenda scena delle torri gemelle che crollano. Quante volte ho pensato che sarebbe fin troppo facile per qualche folle schiantare un aereo sul nostro amato cupolone!

Ma queste paure, benché già grandi, sono niente in confronto al potenziale di dolore che sento potrebbe esplodere dentro di me – se ce ne fosse un motivo, beninteso…

Se ci rifletto un attimo mi dico che è stupido ciò che provo. Lo so, se temo il dolore, lo chiamo, e in qualche modo lo attraggo. Ma questa parola, stasera, proprio non ci voleva… mi costringe ad aprire uno spiraglio su una parte di me che preferisco non vedere, impegnata, come sono ogni giorno, a cercare la luce in ogni cosa, a desiderare il meglio e il buono per ogni creatura, a pervadere di serenità e di amore ogni mio gesto, pensiero, incrocio di sguardi, scambio di parole.

E invece c’è anche il boato che ogni essere può udire dentro di sé quando una lama chiamata dolore fende in due il cuore, irreparabilmente.

Anche questo vuol dire vivere, e lo devo accettare….

Rimbombare

Rimbombare di pensieri – di Chiara Bonechi

RIMBOMBARE è un rumore di disturbo, nel momento in cui lo avverti vorresti liberartene.

Distesa sul tappetino, completamente rilassata col corpo, ascolto l’insegnante di yoga che con voce soave ripete di lasciare andare ogni tensione, ripete di lasciare fuori pensieri e preoccupazioni.

Intorno immobilità e silenzio ma nella mia mente la calma richiesta non c’è, i pensieri si muovono, si susseguono, corrono, parlano. Mi ricordano un appuntamento, una cosa da comprare, una visita da fare, quello che non ho detto e che avrei voluto dire, le parole migliori per farmi capire…

Cerco di concentrarmi sul “terzo occhio”, chiedo aiuto al respiro, mi impegno.

Adesso va un po’ meglio, ma com’è difficile rilassarsi!

Rimescolare

RIMESCOLIO DI FRUSCII – DI LAURA GALGANI

Tutto era fermo. Gli ospiti pronti, gli abiti silenti. L’orchestra taceva, le corde dei violini tese, gli archetti sollevati.

Il direttore lentamente portò in alto le braccia, la bacchetta puntata in avanti, immobile.

Girò la testa leggermente a sinistra, ed incrociò lo sguardo del principe. Questi fece un piccolo cenno col capo, inclinando appena il mento in avanti. Fu il segnale: il direttore mosse imperioso la bacchetta, e la musica esplose vigorosa, allegra, festosa. E insieme alla musica si mossero le stoffe: fu subito un rimescolio di fruscii, ora delicati, ora taglienti, che si fusero con le note argentine del walzer viennese. Le geometrie che si disegnavano nel salone cambiavano continuamente, creando nuovi spazi, mai immaginati in quelle stanze. Fruscii, battere di tacchi, colpi d’archetti, fremere di corde, volteggiare di rasi cangianti e di lisci velluti.

Suoni da respirare, colori da mordere, note da toccare.

Più che un rimescolio, una sinestesia senza fine – per una serata indimenticabile.   

Rimbombare

Non tutti i martedì pomeriggio. – di Stefania Bonanni

Forse quando rimbomba c’è un motivo, e forse rimbomba perché non lo conosciamo, quel motivo.

A volte comincia con un tonfo sordo. A volte coincide con il rumore che fa la porta spinta dal fantasma delle sei del pomeriggio.

Certo, sarà la scuola di musica, qui, sul nostro stesso pianerottolo, ma la spiegazione non rende giustizia alla bellezza del rimbombo.

La parola, del resto, si presenta da sé. Se la si dice tra i denti, più di una volta, quelle MB cominciano a gonfiarsi, a ruzzolare, a fare confusione mentre girano tra i denti ed il palato, tonde e fragorose, dei incastrano sotto la lingua, poi riprendono fiato, o acqua, saliva, come spugne, e continuano a ritirarsi, piene e gioiose.

Rimbomba scoppietta, è come doppia bomba, ma non deflagrazione.

Rimbombano i passi abbandonati sunpavimenti di locali ormai vuoti, rimbomba l’onda che si schianta e poi veloce si ritrae dagli scogli che ha abbracciato, rimbombano le aule vuote dai giochi che hanno ospitato per tutto il giorno, rimbomba la grancassa della banda del paese, ma solo il primo colpo fa trasalire.

Rimbombano nella testa parole capite un attimo dopo, quando era tardi per rispondere.

Rimbomba il silenzio, quando non ci sono parole per noi.

Musicale

MUSICALE – di Rossella Gallori

Ondeggiava leggera, la sua gonna di duchesse bluette, le lunghe gambe nude, sembravano danzare, su per le scale di Palazzo Vecchio…la seta leggera del top nascondeva poco e d’altronde nessuno glielo aveva chiesto, al polso un piccolo gioiello, dono della zia, nella mano una trousse civettuola dono dell’amica del cuore.

I parenti, pochi e già ben informati dell’evento non proprio tradizionale, cicaleggiavano nel lato più ombroso di piazza Signoria, era un parlare sommesso, che il vento portava a zonzo, tra piccioni obesi, a caccia di riso…

Già, il riso, le spose avevano proibito, a parenti ed amici, di lanciarlo; io timidamente avevo suggerito petali di rose rosse…ma lo sguardo di mia figlia aveva detto “NOOOOO”  ed io stranamente non avevo replicato, il tutto venne egregiamente sostituito da bolle di sapone, con grande delusione dei volatili presenti.

Gli amici erano tanti, colorati, un mondo arcobaleno era lì, solo per loro, ragazzi che si tenevano per mano, mamme che abbracciate cullavano le loro creature…

Entrammo nella Sala Rossa, stipati e ordinati…i due bouquet di gerbere rosse, appoggiati sulle alte sedie di velluto…

Poi una voce musicale e conosciuta iniziò il suo discorso…c’ero anche io in quella voce, c’ era mia madre, mia nonna e tante altre donne ancora…gli anni sembrarono minuti…e la “canzone” iniziò così:

“ERA IL 6 NOVEMBRE 1938………………….”

(quando la nonna ebrea si sposò in segreto una mattina presto…durante la persecuzione razziale…..in quella stessa sala rossa……..)