Il Marinaio

Marinai – di Cecilia Trinci

 (Il Marinaio di Giampaolo Talani)

Hanno sempre i piedi nell’acqua. Può andar bene anche la pozza di un catino, giusto per sopravvivere. Perché hanno acqua di mare nelle vene, stelle tra i capelli di corda, e lo sguardo lontano, oltre i contorni.  Stanno anche in porto. Sì, anche per molto tempo, quando fuori non si può uscire o non trovano compari adeguati per tirare le vele e l’ancora è sul fondo senza una barca che tenga il vento. Oppure la tempesta  infuria. Ma il marinaio non è mai del tutto sulla terra, anche quando cammina, un po’ dondolando, inventandosi  l’equilibrio su una base immobile che non trema, anche quando pensa e trova storie che prima non c’erano. E’ con te ma non c’è, ti ascolta ma sta attento alla voce del vento e appena il sussurro cambia, sparisce improvviso, come non fosse mai esistito. “Ma come fanno i marinai con questa noia che li uccide addormentati sopra a un ponte in fondo a un malincuore…..” Ma come fanno a resistere? Anche perché “ma come fanno i marinai a riconoscere le stelle sempre uguali sempre quelle all’Equatore e al Polo Nord…”? Sarà per questo che stanno a fronte in su e guardano dove tu non riesci e tu arranchi sempre sotto, ai loro piedi, lontano? Possono andarsene in qualsiasi momento, appena il profumo annuncia la bonaccia e la sera si veste di rosa pallido.

All’improvviso possono partire e sparire perché “che cosa gliene frega di trovarsi in mezzo al mare, a un mare che più passa il tempo e più non sa di niente ……(De Gregori, “Ma come fanno i marinai”)

 

Genova per noi

Genova per noi – di Nadia Peruzzi

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Genova per noi, uno spicchio di luna adagiato sul mare.

Genova per noi, la fine di un viaggio che, quando ero bambina, durava un’intera giornata. L’autostrada finiva alle Bocche di Magra  e allora su, curva dopo curva, costretti ad inerpicarci fino al Passo del Bracco. Curve a esse, strette e insidiose che non ci abbandonavano nemmeno nella discesa verso Sestri Levante. Con un camion davanti, il viaggio diventava una vera Odissea!

Genova la assaporavi prima di arrivarci, passando lungo il mare. Finalmente, lassù, te la ritrovavi davanti, attorno, sopra, sotto, dietro. Ovunque, stretta fra monti dai pendii scoscesi e il mare azzurro. Una visione.

Genova per me, le vacanze lunghe passate a casa dei parenti, cibi e profumi diversi da quelli che abitualmente la nonna cucinava a casa, a Firenze a segnare quella linea fra unità e diversità che attraversa questo paese bello, ricco e un po’ dannato!

Genova del porto, dei vicoli ,delle puttane cantate da De André, che potevi vedere lungo via Pré. Genova dei cantautori, in una stagione dalle parole bellissime che tendevano alla poesia.

Genova dalle belle colline e dai bei palazzi abitati dai benestanti di allora. I nomi, noti, li leggevo sui campanelli quando andavamo a far visita alla zia Rosetta. Faceva la portinaia nel palazzo dove abitava la famiglia Dufour, quelli delle caramelle Rossana. Appena leggevi la targhetta dorata al portone, ti sembrava di sentire lo sfrigolio di quella bella carta lucida e rossa, mista al profumo di caramella e pensavi a quel suo cuore molle un po’ liquoroso. L’acquolina in bocca era assicurata.

Genova e la sua Lanterna, i suoi abitanti e i suoi lavoratori. Gente tosta, di poche parole ma di grande animo e di capacità di lotta. Genova della Resistenza, quella in cui ebbe inizio l’insurrezione del 25 aprile e la battaglia finale contro l’oppressione nazifascista.

Genova dei ragazzi con le magliette a righe del luglio del 1960 che tennero sotto scacco per giorni le forze di polizia. Non solo contro la possibilità di far tenere il congresso del Movimento sociale, ma per rompere il clima che si era creato e il tentativo di far rientrare in gioco, a sostegno del governo, il partito neofascista.

Genova della difesa della democrazia nel buio degli anni di piombo, quando con l’assassinio di Guido Rossa fu chiaro a tutti che chi sparava non erano “compagni che sbagliavano”, ma erano assassini che andavano fermati e messi in condizione di non nuocere. Genova composta, in un giorno cupo di pioggia e di lacrime, con la forza della ragione fu un punto di svolta .Non passeranno, gridò muta allora . E non sono passati.

Genova del boom economico tradotto in edilizia sconsiderata. Case lavatrici, colline sventrate, occupazione esagerata del pochissimo suolo disponibile, gli alvei di fiumi, inesistenti per lo più, coperti per farci strade e giardini. Strisce di asfalto sotto e sopra le case e la città, l’intreccio delle autostrade a contorno che la segnano, la oltraggiano osando violare in molti punti l’intimità stessa delle abitazioni. Quasi ci si può vedere dentro: scorci di salotti, di camere da letto, di soffitti mentre corri verso Milano o Torino, o più in là verso la Francia.

E quel ponte a segnare una intera epoca e un modello!

Nato di corsa e per correre. Il mito della velocità ,dell’auto che la fa da padrona aveva bisogno dei suoi totem.

Fantastico, ardito, avveniristico. Quelle alte zampe di fenicottero a restituirci visivamente l’idea dell’assalto al cielo e a lanciare una scommessa anche rispetto alla forza di gravità. Di per sé, immagine di un salto spiccato verso il futuro. La Domenica del Corriere la celebrò con una foto a tutta pagina nel giorno della inaugurazione.

Levante e Ponente finalmente più vicine, la via verso la Francia più agevole e rapida.

Oppure no. Una storia che aveva già in sé elementi di estrema fragilità rimasti nascosti ai più.

In una mattina agostana di anticipo di festa, il sogno si è sbriciolato, accartocciandosi su sé stesso, portandosi  via  le vite di 43 persone.

Di colpo un giorno anticipatore di festa e di ferie, si è tradotto in ansia e tragedia, in orrore e incredulità.

Restano quelle zampe di fenicottero, messe a nudo dal crollo, a restituirci adesso una immagine diversa da quella del mito. Non di forza, ma di fragilità estrema: troppo alte e troppo sottili e forse troppo distanti in quel punto maledetto, come sostegno di un traffico smisurato, rispetto a quello che lo inaugurò alla fine degli anni sessanta!

Genova colpita, atterrita, dolente e affranta, arrabbiata, ma non doma.

Non a caso Superba. Consapevole della forza che riesce a tirar fuori nei momenti che contano.

Genova che non si arrende, che si riorganizza per non perdere in lavoro e struttura produttiva e in comunità sociale sia nelle zone vicine al disastro sia nel corpo grande di una città che spazia fra est e ovest come nessuna .

Genova per noi, adesso, anche un grido: “mai più” perché si faccia rapidamente luce e si imponga verità mentre si ricostruisce velocemente, ma con attenzione e bene.

Genova, come il paese! Belli e dannati allo stesso tempo. Bisognosi di cura e protezione, come un malato che fatica a riprendersi, dopo un’operazione chirurgica.

Genova ferita, Genova paradigma di un modello di sviluppo, a guardarlo con gli occhi dell’oggi, affaticato che restituisce insicurezza e timore a causa delle sue concentrazioni e dei suoi eccessi.

Genova per noi può e deve essere, nel suo dramma, anche l’occasione e il segno di una svolta! E che sia, finalmente.

Oppure la polvere si depositerà ancora e ancora e dopo la polvere, tutto ricomincerà esattamente come prima.

Il passo della Futa

Trentamilaseicentottantatre – di Rossella Gallori

cimitero futa

…un caldo vento estivo, un cielo così azzurro da intimorire, il calore degli amici di sempre, un cibo divorato, un bicchiere di vino in più, sorseggiato con serenità…la voglia di camminare “per far buio”.

La Futa, la Traversa, la Selva, la meta di ogni anno, per ricordare, noi quattro, che siamo stati “ragazzi insieme”…Le mie domande sceme…le loro risposte inutili…risate cercate, volute…e non son mai troppe.

Ma lì non siamo mai andati?

No, mi sembra di no!

Ci si va?

Ci incamminiamo verso il Cimitero Germanico, il passo si fa lento, ringrazio il caso che mi ha fatto indossare scarpe silenziose e colori poco vistosi, non avrei avuto il coraggio di sventolare vessilli modaioli in questo contesto.

È un teatro di morte a 900 mt di altezza, un piccolo paese muto. L’appennino, protegge  il paesaggio ma non incornicia il dolore…

Un dolore che non credevo di provare, io, con quei sei milioni di “gente mia”, io che non ho più voglia di stragi, io ascolto il rumore del sangue che scorre ed il silenzio delle mitragliatrici…

Ed il cibo scende in fretta ed il Chianti bevuto è solo un ricordo…avanzo da sola, gli altri mi han lasciato a riflettere tra la pietra serena il granito ed il marmo. Si  odono pianti,  o forse è solo il vento ed io mi sto calando in un’altra realtà; leggo nomi che non so pronunciare, faccio conti che non vorrei saper fare…ragazzi nati nel 28 e morti nel 44,  i più hanno 16, 18 al massimo 20 anni …per finire qui tra Firenze e Bologna, cadaveri tragicamente ordinati, due a due, forse per farli sentire meno soli, un architetto abile e pietoso li ha uniti per sempre, Franz con Peter, George con Adolf…..qualche tomba non ha nome……prendo un sasso lo bacio e lo appoggio sulla prima lapide ignota ….falciati dalla guerra in terra straniera….e non esistono più “i miei”,  “loro”,   “ gli altri”, riesco a cancellare le svastiche, vedo solo riccioli biondi, mescolati a lisci capelli color ebano, occhi azzurri mescolati a nasi non perfetti…e capisco in un banale giorno di vacanza…che la morte è una tragedia senza bandiera…

Mamme che hanno pianto figli partiti e mai tornati…salgo nella cripta, sono stanca dentro e la stupenda giornata di sole sta diventando un pomeriggio rossoarancio …pieno di contraddizioni.

Sono 30683, queste tombe senza fiori, in una pulizia germanica, perfetta e tragicamente inutile. Con un cenno del capo saluto ”il silenzio“ ci siamo fatti compagnia per quasi un’ora, questi ragazzi ed io.

Forse non abbiam fatto la pace,  resteremo nemici per sempre, io un po’ giudea e loro un po’ nazisti… ma la morte merita rispetto…ed uscendo non volto le spalle, cammino all’indietro, sperando di non cadere…ritrovo i miei amici, silenziosi ed affettuosi, come sempre…qualcuno mi porge un fazzoletto….trentamilseicentottantatre ….