Scende la neve

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Nevica – di Aldo Bombaci

Silente e leggera

scende dal cielo

e viene da noi stasera.
Fuori tutto tace,

non un fruscio,

non un rumore,
la natura ha capito

che sta per arrivare

ed è andata a dormire,

così piano piano potrà

con il soffice manto coprire.
I fiocchi sono tanti e sono belli,

a milioni tutti fratelli,

illuminano la notte di  candore

che piace ai bambini e rallegra  il cuore.
Domani nell’aria ci sarà nuova allegria,

chi tirerà le palle,

chi andrà sullo slittino,

chi farà il fantoccio nel suo giardino.

Fiori di ciliegio

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Petali – di Lorenza N.

La prima immagine che compare nella mia mente alla parola “petali” è la pioggia di petali di fiori di ciliegio che fioriscono nello stesso momento in un giardino giapponese. E’ una visione che io ho ammirato solo in foto e nei video ma che nella cultura giapponese l’Hanami è un evento a cui nessuno vuole mancare. La fioritura è in momenti diversi in tutto il paese, e un servizio meteorologico monitora quando sarà cosicché tutti possano contemplare e festeggiare con passeggiate, pic-nic, e degustazioni a base di ciliegie accompagnate da un bicchiere di sakè. Solo il clima decide quale sarà la data esatta in cui sbocceranno i fiori dei ciliegi della specie sakura; essi resteranno in fiore solo per pochi giorni. Dopo di che cadranno in una danza struggente e poetica che tingerà di bianco rosato l’erba, decorandola come un tappeto prezioso. Purtroppo c’è anche della tristezza in quei fiori che si struggono privandosi della loro bellezza. Ma nella natura non c’è nulla di casuale. Per i giapponesi il ciliegio è un simbolo nazionale, dall’atavico significato della caducità della vita e delle cose materiali. La sua fragile vulnerabilità è assimilata alla grazia, alla morte ma anche alla rinascita. Infatti, solo se il fiore cade  può trasformarsi e produrre il frutto. C’è tutto il significato del senso della vita in quel meraviglioso sfavillio di bianco e rosa. Poi arriverà il fiore candido dei pruni ad annunciare l’arrivo della primavera.

 

 

Tulle sul lago

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Tulle sul lago – di Gabriella Crisafulli

Il tulle avvolge la scena, la scherma, la sbianca. Le ombre diventano nulla, i suoni sono ovattati. L’acqua ribolle di nebbia e le imbarcazioni dondolano come culle. A galla fumi di umidità salgono piano piano verso l’alto, mentre il traghetto si avvicina al pontile.

In attesa c’è un gruppetto sparuto di uomini vestiti di scuro, una donna con due bambine piene di sonno e i sacchi della posta.

Ogni giorno si replica la stessa scena, alla stessa ora, con le stesse persone: vengono scambiate parole brevi, secche, a bassa voce, in un dialetto stretto e smozzicato.

Settimana dopo settimana da quelle voci trapela una narrazione ripetuta sempre uguale, sempre diversa. C’è un pathos in ciò che viene detto a cui non si può sfuggire e che rende l’aria tesa.

Il battello rulla nel suo viaggio lungo i rami del lago e in lontananza si aprono quinte di velluto tra le quali si muovono personaggi muti, attori di un silenzio fatto di trame, tradimenti, delitti.

Il nome di Dongo ricorre più e più volte tra una frase e l’altra.

Pontile dopo pontile si sale, si scende, si scaricano i sacchi della posta sulla colonna sonora di discorsi a mezza voce, stando attenti a chi sta vicino.

I segreti sono nascosti in un silenzio interrotto dallo sciabordio delle acque, dalla sirena del traghetto, dal ronzio dei motori, dal tonfo delle passerelle di legno lanciate a riva ad ogni attracco.

Manca la verità di quel passato.

Le orme gelano e tu le segui.

La sottogonna bianca

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La sottogonna bianca inamidata – di Tina Conti

Mi rivedo  con quella coroncina di  piccole rose in testa, le trecce ben fatte,  lo sguardo attento, insieme alle altre bambine  tutte vestite di bianco  e con i guanti.
Era il giorno della  mia prima Comunione.
Mio fratello, più grande di me di due anni, faceva la comunione con me, perché io ero già alta come lui e sicuramente era anche un modo per risparmiare e per semplificare la vita in famiglia, che nel dopoguerra  faceva tanta fatica ad affrontare il quotidiano figuriamoci le feste.
La giornata fu bella anche se capivo poco cosa di cosa significasse davvero.
La mamma cominciò presto a preparare vestiti e accessori per tutti. Quella fu anche l’occasione  per comprare le tazze nuove di porcellana per il caffellatte.
Il ricevimento infatti si faceva al mattino,  dopo la chiesa. Si comprava un vassoio di pasticcini e  altri dolci che venivano offerti  ai parenti,  con cioccolato in tazza e caffellatte.cLa cerimonia fu breve e si concluse con la foto di famiglia davanti alla statua della Madonna.
A casa, sul tavolo, trovai la tovaglia rosa damascata e le tazze di porcellana finissima con i fiorellini appena comprate.

La cosa che ricordo con chiarezza è legata agli accordi delle mamme sui vestiti.
Fu deciso che la sarta cucisse vestiti tutti uguali per le bambine, con una sottogonna inamidata,  naturalmente bianca.
A me del vestito non importava molto: era di una stoffa molto rigida, poco naturale. Ma la sottogonna me la sono proprio goduta: ci ho giocato fino a che non  si è disintegrata, è stata  sempre la base di tutti i  giochi con vestiti da signora che mi sono inventata.
Ormai lacera fu superata solo dopo che  sono stata alla villa   di Simonetta e  ho giocato con i vestiti smessi della sua mamma. Da lei disponevamo anche  di scarpe col tacco, vestaglia con le piume, cappelli, borse e collane.
La mamma di  Simonetta  era una signora molto bella e curata, aveva la cameriera con il vestito celeste  e  il grembiule bianco, aveva sempre i capelli accomodati e vestiva elegante. Accompagnava la bambina al pullman  per  la  scuola affacciandosi al cancello  della villa vestita da regina, con vestaglie lunghe  e vaporose e tutti guardavano ammirati e curiosi quella bella signora di città  che si affacciava al cancello.
Eravamo attratte  da questa bambina  bella e raffinata e la guardavamo con stupore e ammirazione.
Immaginate come fui felice di andare a giocare da lei  un giorno e ritrovarmi  nella stanza  guardaroba accanto alla lavanderia,  dove teneva  gli abiti smessi che la mamma le regalava per giocare…
La mia mamma divenne amica della sua e spesso parlavano insieme.
Nella villa rimasero poco, però,  si dice che andarono ospiti da parenti perché il marito era sempre fuori per lavoro.
Capii poi che il marito non sarebbe più tornato a casa e che aveva una relazione con un’altra donna.
La signora era molto triste e si confidava con la mamma, che la confortava con dolcezza e pazienza.
Rimasero fino alla fine della scuola e poi si trasferirono e di loro  non ho avuto  più notizie.
Dopo di che, la mia meravigliosa sottogonna ormai sfilacciata e cenciosa  è finita nella spazzatura,  superata dal ricordo di quei sottabiti di seta con le rose, dei cappelli con i fiocchi, delle scarpe con i tacchi.

Neve nel bicchiere

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La neve nel bicchiere – di Ivana Acciaioli

“Dai presto prendiamo i bicchieri!” e via a riempirli di neve, un po’ di zucchero, di limone ed ecco pronta la granita. Nessuno pensava all’inquinamento, alle piogge acide, il candore era garanzia di purezza.
Con le gonnelline corte di lana scozzese a pieghe, tessuta a telaio dal babbo e cucita dalla mamma, i calzettoni di lana ruvida, fatti a ferri, le cosce scoperte  rese paonazze dalle sferzate d’aria gelida, eravamo felici dell’imprevista leccornia.
Il bicchiere passava da una mano all’altra per non far gelare del tutto le dita, le risate rimbalzavano sulla neve e il silenzio ovattato di un mondo senza automobili, senza televisione che aggiorna sul maltempo,sulle valanghe, sulla situazione delle strade , dei treni, faceva apparire la neve solo come uno splendido miracolo, un dono che la natura elargiva per quel magico momento

Fresco

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Fronte fresca – di Stefania Bonanni

Sento che è un gesto antico, l’ hanno fatto per me, ed io lo ripeto, restituisco un bacio d’amore, morbido e leggero. Ero ammalata, mi baciarono sulla fronte, e guarivo, ogni volta. Avevo la fronte fresca, quando guarivo. Non servivano termometri, le labbra morbide che si appoggiavano appena, riconoscevano subito il calore della febbre. Sembrava una magia, ma io l’ho imparata.

Avvicino lentamente le labbra alla fronte di Leo, ed il fresco mi riempie di bellezza, di sereno, di profumo, di morbidezza. Oggi lui, ieri lei, ieri l’altro un altro lui, poi loro tutti ancora, sempre, con baci sulla fronte, nella speranza di trovare la fronte fresca. Nella certezza che nelle loro fronti fresche nascano pensieri limpidi, e voglia di giocare.

Meringa

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(foto di Ivana Acciaioli)

Le spumiglie – di Ivana Acciaioli

Lina e Dina erano grandi amiche ma spesso si punzecchiavano, e per giorni anche se si incontravano nel piccolo paese non si salutavano, soffrendo la pena dell’amicizia appesa ad un broncio.
Io capivo poco del loro essere donne, ma quando si mettevano insieme per cucinare non mi perdevo lo spettacolo.
Il momento del pane era  sempre bello ma quel giorno c’era una novità perché dopo il pane , dopo i dolci, insomma proprio alla fine, quando il forno avesse perso molto calore, avrebbero infornato le spumiglie, che sarebbero rimaste al calduccio tutta la notte.

La curiosità mi prese ancor di più quando Dina si mise fra le  ginocchia una ciotola con dentro tanti chiari d’uovo; cominciò a sbattere con una forchetta la massa gelatinosa,per la velocità della sua mano quel semplice strumento niente aveva da invidiare ad uno dei moderni frullini elettrici.
Lina intanto faceva cadere lentamente lo zucchero sopra la schiuma d’uovo che diventava sempre più bianca , montata e soffice; veniva voglia di affondarci gli occhi ed un dito.

Ogni tanto le due amiche si scambiavano i ruoli in una sorta di gara taciuta e la ciotola,tenuta stretta fra le gambe, era il loro trofeo.
Quando il composto fu lucido, bianchissimo e montatissimo, le donne fecero dei mucchietti nelle teglie e le candide nuvolette sparirono nel buio del  forno.
La mattina seguente corsi da loro, mi aspettavano; dal buco nero miracolosamente uscirono  ancora candide e profumate le meringhe.
Ne addentai una, la crosta si sciolse immediatamente in bocca e fece spazio a un cuore morbido, una goccia chiccosa, estasiante.
Mentre guardavano il mio dolce stupore Lina e Dina avevano nel loro sorriso il bianco che non ho dimenticato.

 

Brina

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LA BRINA – di Elisabetta Brunelleschi

Dell’inverno ciò che più amavo erano i prati ricoperti dalla brina. Da piccola raccoglievo le foglioline d’erba e mi divertivo ad osservarne lo strato di ghiaccio  fino a quando non mi si scioglieva tra le mani.

Nel presente sono invece più rare le occasioni  per ammirare un prato imbiancato dalla brinata.

Gli inverni sono sempre più miti e le rare mattine di gelo si trasformano in una lotta con il tempo da perdere per sbrinare i vetri dell’auto. Di solito il resistente strato di ghiaccio compare una mattina all’improvviso quando ancora non hai acquistato il liquido e magari ti sei dimenticata i guanti da qualche parte! E allora non resta che mettersi lì, con pazienza a grattare via tutto quel bianco mentre l’orologio avanza e le dita si gelano. E la poesia dei prati con la rugiada che il gelo trasforma in bianchi merletti resta solo un ricordo. Perché solo allontanando la fretta e l’orologio si può godere di questa speciale magia dell’inverno.

Accadde per esempio non molti anni fa durante una passeggiata in Val d’Ambra che prati e cespugli interi fossero solo bianchi di brina e ghiaccio. Quella mattina il termometro segnava – 4 e noi, tutti bardati con giacconi, scarponi, guanti e cappelli, ci incamminavamo verso pievi a castelli antichi e sconosciuti.

Iniziamo il percorso circondati dal gelo e sovrastati da un cielo completamente azzurro. Il bianco brillava di un sole ancora freddo. Nessuno parlava, potevamo solo guardare. E come in un attimo tutto intorno mi parve rilucere di azzurro. Sì, proprio così! Il bianco dei cespugli stecchiti, dei prati, dei balzi terrosi risplendeva di riflessi azzurrini.

Miracoli del sole e della brina?

O dell’andare tranquilli, accompagnati dagli affetti, col cuore disposto a ricoprirsi di tenui riverberi? Chissà!

 

Il bianco è un colore strano

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Pagina di Diario di Elisabetta Brunelleschi

Martedì 9 gennaio 2018

Stasera, quando sono entrata nella stanza della scrittura, un vento nuovo mi ha avvolta, è un’aria leggera, calma e rilassante. Dal tavolo apparecchiato tenui colori mi allargano e mi invitano al riposo. È un vento bianco che aleggia delicato tra di noi!

Il bianco è un colore strano.

Sembra vuoto e invece non lo è, perché, e la scienza ce lo insegna, contiene tutti colori. Rosso, giallo, blu, nero, .. tutti!,  ma lì per lì non li vedi perché loro si camuffano, si nascondono, si mescolano e diventano uno solo: il candido, innocente bianco.

Capita che non si pensi al bianco come colore.

Se qualcuno mi domanda qual è il mio colore preferito, io vi rispondo il giallo, il verde, il rosso, che mi esprimono forza, movimento, luce, calore. Ma il bianco proprio, non ve lo rammento.

Eppure stasera, da questo tavolo circondato da sorrisi e sguardi invitanti, si eleva un bianco nuovo che a poco a poco mi scuote e mi porta in spazi larghi e mi fa pensare alle tante esperienze che con il bianco si possono fare.

Mozzarella

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Mozzarella – di Tina Conti

(e cronaca di una serata con le parole scritte nelle bottigliette)

Sul tavolo quasi tutto è bianco, sale fino, e grosso, cotone che ho toccato e strusciato.
Gli occhi guardano, ma in bocca sento ancora tutto il dolce  delle meringhe  ripiene a sorpresa e del tortino all’arancio che non dovrei mangiare ma che invece ho gustato,
gorgogliando per la goduria.
Poi, è stato il tempo della sorpresa: messaggi   rotolati in vetro di barattolo.
Parole veloci  che giravano, e come tutte le parole, sollecitavano ricordi  e pensieri.
Mozzarella, ecco cosa si è fermato nel mio cervello.
No,! tutte cose da mangiare! non me le posso permettere, ho pensato .
Proviamo a smontare la parola: muzzurilla,  mezzi lilla no, no  sento sapore di mozzarella: il mio cervello si è incantato.
Sarà un ricordo troppo forte e recente quasi un incantesimo che ho da poco sperimentato.
Ah,  la colpa è della signora tutta scialli e bracciali che qualche giorno fa ci ha offerto i prodotti della sua fattoria   nel suo agriturismo.
La villa antica nell’ area archeologica di Pestum era ad accoglierci per il pranzo.
La sala con il camino acceso e tanti dipinti di scene di caccia aveva sulle credenze ceste  piene  di agrumi appena colti invitanti e profumati.
La vista e l’olfatto erano già appagati da quelle sensazioni, era ora di assaporare il pranzo. Mozzarella, ricotta e zucca gratinata per antipasto, poi pasta non mi ricordo con cosa, carne di bufala in stracotto con cicoria ripassata  e dolce a cucchiaio con crema di arance.
Le mozzarelle sono in vendita! Ha informato il cameriere.
Il souvenir più gradito della vacanza! Ce le  siamo portate a casa insieme a qualche mandarino raccolto nel parco che ha profumato il viaggio di ritorno.
La signora è tornata per i saluti, “fuori dal frigo mi raccomando le mozzarelle” ci ha detto.
A casa le mie mozzarelle volevano rimanere nella ciotola sulla credenza,  fuori dal frigo, ma sono finite presto in tavola per il pranzo della domenica.

Voglio ricordare

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Voglio ricordare i tuoi occhi verdi – di Sandra Conticini

Voglio ricordarti colorata con i tuoi riccioli castani, il rossetto rosa madreperlato, i tuoi foulard, qualche volta bianchi, ma spesso con bei fiori colorati e con vezzi e orecchini rossi corallo, turchesi, blu.

Non voglio vederti come negli ultimi tempi,  con capelli bianchi,  maglia bianca,  carnato bianco, in quel letto con il lenzuolo bianco, perché molta della tua biancheria era così, mi facevi tristezza.

L’unica cosa rimasta uguale erano i tuoi occhioni  verdi da cerbiatto.

 

Il vestito di San Gallo

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Il vestitino – di Rossella Gallori
La rivedo con il suo chemisieur fantasia, che non conosceva ultimi bottoni, la cinturina stretta in vita, i capelli color cenere, la sua bocca a smerli…ed il suo sorriso, che non son mai riuscita ad imitare, una bocca bella “rossettosa” sotto il  naso a patata…..Con il senno di poi, credo che il suo modo di porgersi fosse una sfida perenne, il suo essere livornese dentro  le faceva celare ad arte quei “ ma ci vai in culo, deh “ che non disse mai , ma credo pensasse sempre….

Arrivò prestino, quella mattina, forse era lunedì, il negozio dove lavorava era chiuso, si era annunciata, una telefonata breve: Rosy , ti porto una cosa …ma sto poco….

Arrivò, profumata, con pochi baci, poche carezze, frutto di quel suo modo strano di pensare, che “se ci son troppe effusioni, poi quando si va via, si sta peggio”. Lo capivo poco allora ed ancor oggi mi resta oscuro: fare a meno di qualcosa oggi, per non sentirne la mancanza domani…..

Aveva tra le mani bianche smaltate, che il tempo ed il lavoro sembravano  non aver sciupato, un pacchettino piccolo, quasi non la lasciai entrare, non mi preoccupai né della sua giacca né della sua borsa, lo afferrai ed andai ad aprirlo in camera. I regali amo aprirli da sola, come un topo porta il formaggio nella tana, per gustarselo meglio…..

Alice, mia figlia, sarebbe arrivata con il freddo ed il Natale alle porte, dopo anni di non attesa, perché  io volevo essere figlia più che madre, orfana ma non troppo.

Lo aprii, tolsi la carta velina bianca…..cadde una piccola foto, foto in bianco e nero datata 1907 …lo riconobbi subito, era mio padre…piccolo, piccolissimo di mesi….sorretto da una zia Teresa, di cui avevo sentito parlare nel gracidare della nonna  “ Teresa modista un po’ artista”.

Bello, una nuvola bianca, un bimbo di porcellana sorretto da scarpine da bambolotto, tenero, vivo, presente……e tra la carta velina, riapparve lui,  il vestitino di San Gallo, bianco e ben stirato consumato dagli anni, reduce da due guerre , senza medaglie, ma con tanto onore…..

Lo aveva conservato per me…per una creatura che sembrava non aver fretta….mia madre aveva conservato qualcosa !??????

Stentavo a crederlo aveva conservato una cosa non sua, forse sottratta per consegnarmela …eppure l’avrei dovuto riconoscere, anche il figlio di mio fratello lo indossava 15 anni prima, invece lo vedevo per la prima volta quel cencino prezioso…..lo guardavo per la prima volta…ora, era mio ….è mio ….

Elencava la mamma  gli anni in cui era stato usato:  1907    –  1939 –  1942 –  1944       1946 – 1951  –  1968  …..  e poi……

Nel 1983 è nata Alice, lo ha indossato un po’ controvoglia forse …le avevo trovato anche il cappello, che poi è andato perso. Son già passati 35 anni  …e bianco lui non è più e più  che San Gallo, sembra tulle …una bianca fetta di groviera….piena di piccoli buchi ….ma porta bene i suoi 111 anni, non se ne vergogna, stropicciato  nella sua pochette di seta bianca…..”non lo lavare…non lo  stirare…..non lo inamidare”……!!!!!!

PS: no, non faccio niente di tutto questo….mi deve sopravvivere,  sarà il ricordo di tante vite, una nuvola bianca che ci ha  protetto, sorretto, corretto….un cencino bianco pieno d ‘ amore, che ha superato guerre, malattie, grandi gioie ed immensi dolori….ed è riapparso quando io, con una certa lentezza ho iniziato a fidarmi di voi, a volervi ed a volermi un po’ più bene…..mostrandovi una parte di me…..la mia parte b i a n c a……

Ricordo bianco

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Quando nevicava – di Cecilia Trinci

Su da noi, d’inverno, la neve scendeva spesso e quando succedeva durava almeno tutto il giorno, finché non si calmava il grecale, le finestre smettevano di soffiare e tutto finalmente taceva, in attesa della  gelata notturna. Se c’era la luna i bracconieri ne approfittavano per andarsene a caccia, profanando di spari vigliacchi  il candore del bosco. Arrivavano, allora, anche le notti di silenzio sotto il piumone, dopo la cena davanti al camino, alla luce del fuoco, mentre la bufera rimaneva fuori, senza lampioni, sotto le stelle appuntite e la luna spadellata sugli alberi neri.

La notte era notte, lassù. Stelle pungenti, lune enormi e bianchissime che salivano su dal bosco e che a guardarle a testa in su ti schiacciavano, luccicar di lumini tremolanti laggiù, in lontananza, dove pulsava la città. E animali. Volpi, caprioli e cinghiali, allocchi e barbagianni, upupe e corvi, istrici e lepri…..che si manifestavano in ombre mobili e scure o fruscii al di là della finestra, presenze percepite o apparizioni improvvise nei piccoli lampi di una luna piatta. Bianchissima.

Rubare la neve

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di Carla Faggi

Rubare la neve. La mia neve, le mie emozioni!

Sono davanti a te e ti parlo.

Ti racconto di me con te.

Senza di te non riuscirei più a essere, ma ora sei con me e posso fermare il tempo. Ci riesco quasi sempre, sai!

Quindi  ti regalo la mia neve perché, l’ho rubata per te!

E ti regalo pure le mie carezze perché serviranno a conservarti la neve.

La nostra neve.

Petali di Margherita 

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Petali di Margherita  – di Aldo Bombaci

 Pianta in fiore che in quella terra dove fosti messa rigogliosa diventasti, e per molti anni né il Sole, né il gelo imbruttirono l’essenza.

Bianchi petali di purezza splendeste in quel luogo di silenzi dove il tempo si è fermato.

Le radici affondavano e dalla terra nutrimento traevano per far dell’ombra protezione del passato.

Sposa

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La maternità è bianca, come una sposa – di M.Laura Tripodi

Caro E.

L‘altra notte non riuscivo a dormire. La notizia che mi hai dato ha sortito l’effetto di una bufera in piena estate. Non è che non sia contenta, ma succede a volte che un profumo, un colore o una novità, per l’appunto, ti facciano rivedere tutto il tuo trascorso  e anche se non vuoi ti metti a fare i bilanci.

Mi è venuto in mente che il cammino di tutti noi è un succedersi di distacchi dolorosi. Si comincia dalla nascita, quando il  cordone ombelicale viene reciso e ci separiamo dal ventre di nostra madre e la prima cosa che facciamo, subito dopo, è piangere. Allora vuol dire che siamo vivi e che i polmoni cominciano a funzionare.

Mi sono sempre rammaricata del fatto che non sono stata io la prima a vederti, ma tutti dicevano che eri bellissimo!

Il giorno dopo il parto un’infermiera ti ha appoggiato sul mio letto  e se n’è andata. Non mi potevo muovere perché avevo la flebo attaccata, ma tanto tu dormivi .

Quindi eri tu che facevi tutto quel casino dentro la mia pancia! Ed era vero: eri bellissimo!

Sono stata a guardarti rapita dalla tua perfezione. Avevo gli occhi pieni di lacrime di felicità, avrei voluto abbracciarti, carezzarti, baciarti, coccolarti, ma il dolore della ferita  e l’ago della flebo mi impedivano qualsiasi movimento.  Dentro di me invece c’era una grande esplosione di musica, risate, canti e balli.

Ti guardavo e mi sembrava che quello che ci aveva legato per nove mesi si sarebbe ripetuto all’infinito, amplificandosi nel tempo.

Ma sto divagando.

Penso di aver fatto una meravigliosa esperienza con te: me la sono vissuta in tutta la sua completezza con la gioia di esserci quando ne avevi bisogno e la discrezione di stare a distanza quando l’istinto mi suggeriva di  rimanere in disparte. Ma sempre all’erta perché ho pensato che crescere con te, senza presunzione, fosse una buona strada da percorrere.

Il cammino della crescita è cosparso di ostacoli, insidie e insicurezze, e poi ci sono i distacchi.

Il primo giorno che sono tornata al lavoro dopo la maternità piangevo come una vite spezzata, come se invece che dopo qualche ora ti avessi dovuto rivedere dopo secoli. E il tuo primo giorno di asilo nido? Non riuscivo a scollarmi da quella porta: dovevo spiare le tue reazioni, essere sicura che saresti stato bene. E se le maestre non fossero state brave? E se i bambini più grandi ti avessero picchiato?

E poi ci sono stati i distacchi più duri, quelli in cui ho dovuto prendere atto delle tue conquiste senza essere preparata a riconoscerle. Tutte le volte che chiudevi un passaggio della tua vita  io arrivavo in ritardo. Come se non fossi  mai stata pronta.

Forse non lo sono nemmeno ora eppure sei uomo fatto!

Candidamente mi hai detto:  “Mamma, a settembre mi sposo. Mi accompagni all’altare?”

E una vocina gracchiante ha sussurrato nella mia testa : “Come, di già?”

In fondo questo è il distacco più importante, quello vero,  perché da adulto ti sei scelto la compagna con la quale percorrere un cammino indipendente dal mio e il ciclo della vita ricomincerà da capo con te che sarai padre oltreché figlio.

Ma non  voglio portarti all’altare  nel modo classico. Vorrei che andassimo insieme tenendoci per mano perché questo distacco sia il simbolo che ti sto accompagnando per lasciarti accanto alla donna che condividerà il tuo cammino, da ora in poi.

Mamma

 

Capelli bianchi

 

dandelion-2295441_960_720BIANCO – di Lorenzo Salsi

Bianchi tronchi spiaggiati memori di acque dolci, tumultuose.
Bianchi semi di pioppo che nevosi s’insinuano e si fermano, aspettando 

che le piogge non fredde li sgonfino, li rapiscano.
Bianchi erano i capelli corti sulla testolina da uccellino di mia madre

nel fondo del suo letto ad aspettare un domani forse bianco di luce e di redenzione .

Margherite

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Margherite a gennaio – di Nadia Peruzzi

Era un po’ di tempo che non venivo a trovarti. Come sai, l’ho sempre detto senza infingimenti, non mi piace frequentare cimiteri! Le lapidi e le tombe ti sbattono in faccia tutte le volte quello che c’è di definitivo nella morte.

E io lo rifiuto. La odio la morte, con tutta me stessa. Sarà che non ho nessuna consolazione cui attaccarmi. Non credo che dopo ci siano i Campi Elisi, c’è solo una brutta linea oltre la quale non ci si è più.

Voglio ricordarti, voglio ricordarvi tutti da vivi. Con i pregi, i difetti, con i vestiti che vi facevano belli,i libri che riuscivi a leggere anche di notte dimenticando pure Morfeo, che se ne stava lì vicino al letto per un bel po’ e poi se ne doveva andar via scoraggiato. Sonno non ne volevi prendere, se eri presa da ciò che leggevi.

Oggi mi son decisa. Volevo portarti  un fiore, di quelli che reggano alle intemperie, sei all’aperto, in un punto che sa di campagna ma in cui acqua, sole e vento fiaccano anche i fiori più resistenti.

Ci sono dei praticelli prima del luogo dove stai. Mi accorgo che già ci sono delle margherite a punteggiar di bianco il verde brillante dell’erba .

Margherite a gennaio. Un tempo vere rarità. Adesso, forse, sulla via di tradursi in abitudine per gli occhi.

La terra ribolle, sotto e sopra, promettendo e anticipando il tempo della rinascita. Anche la temperatura sa di primavera più che di inverno.

Non credo sia positivo.

Oggi, pero’, trovo che sia bello!

 

Nebbia

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Nebbia – di Carla Faggi

Dalla finestra di casa mia: …. la nebbia….tanta….gli alberi si intravedono appena…il verde del bosco è diventato biancastro, in alcuni punti più denso, in altri meno, come albumi non finiti di montare.

Nel cielo però c’è un piccolo cerchio più bianco, più luminoso, come un faro nella nebbia, non posso tenerci lo sguardo tanto è intenso.

Dai forza, penso, metticela tutta, sfonda questo velo, illuminami, porta il tuo bianco splendente ad abbracciarmi!

Come mi avesse sentito quel piccolo cerchio bianco si è ingigantito, schiarito, è diventato abbagliante. Il cielo si è offerto allo sguardo sopra il verde del bosco. Eccomi, gli ho detto, e sono andata a passeggiare.